I poveri e il reddito di cittadinanza: quali relazioni?

Fernando Di Nicola, prendendo spunto dalla recente diffusione dei dati ISTAT sulla povertà assoluta, ragiona sul legame fra lo stato di povertà e l’essere beneficiari del reddito di cittadinanza (RdC). Basandosi sui risultati di microsimulazioni, Di Nicola sostiene che, a causa dei numerosi requisiti d’accesso, in particolare di quelli patrimoniali, gran parte dei nuclei con reddito limitato non riceve il RdC mentre, a causa di evasione e sommerso, ne beneficiano molti che hanno un reddito superiore alla soglia di povertà.

A metà giugno l’Istat ha reso pubbliche le nuove stime, riferite al 2019, dei poveri relativi ed assoluti in Italia, dalle quali risulta un calo dei poveri assoluti di circa 450mila persone (da 5,040 a 4,593 milioni) ed una sostanziale costanza di quelli relativi, attorno ai 9 milioni.

In molti attendevano con curiosità le nuove cifre per capire meglio il primo impatto su frequenza e intensità della povertà di una misura rilevante come il Reddito di Cittadinanza (RC).

Per la verità l’Istat descrive l’andamento in anni consecutivi della povertà assoluta e relativa (secondo i suoi specifici criteri definitori), identificando negli anni la platea dei soggetti e dei nuclei, posizionati sulla base di un ordinamento che si modifica per una pluralità di motivi. Per tale ragione, l’osservazione del solo andamento della povertà negli ultimi due anni non è il miglior modo per valutare l’effetto di uno specifico intervento di policy, nel caso specifico il RC, sull’uscita dalla povertà di una quota di soggetti poveri nell’anno base.

Inoltre, il RC è partito ad aprile del 2019 ed ha avuto un lungo rodaggio, in termini di conoscenza da parte degli interessati e di conseguente adesione (non è un caso se il numero di beneficiari ha raggiunto il suo massimo solo con le ultime rilevazioni nei primi mesi del 2020); ne deriva che, per valutare correttamente l’impatto annuo “a regime” del RC sulla povertà, l’ultima stima annua Istat dei poveri non è lo strumento più appropriato.

Ma forse ancor più rilevante per capire quanto lasco possa essere il legame fra povertà e RC sono la definizione e la misura stessa dei “poveri”, qui e altrove di recente approfondite (D’Alessio 2019, Gallo 2020, FraGRA 2020, Gallo e Raitano 2020, Cutillo-Raitano-Siciliani 2019). Si è citata la distinzione tra povertà assoluta e relativa, concetti profondamente diversi ma entrambi utili ad identificare il fenomeno. Ancora, la misura della povertà può fare riferimento alle spese sostenute dai nuclei (come nel caso della povertà assoluta), oppure al reddito equivalente (come per la misura di “rischio di povertà relativa” definita in sede europea), con riferimento a valori mediani o comunque di posizionamento variamente determinati.

Inoltre, il ruolo giocato dal patrimonio risulta importante anche qualora non si tenga separatamente in conto la ricchezza nell’ordinare il benessere economico dei nuclei familiari, se il reddito generato dal patrimonio finanziario ed immobiliare, effettivo e figurativo, entra pienamente nel computo (e tale quantificazione può differire anche di molto a seconda del metodo di calcolo utilizzato). Ulteriori riflessioni discendono dal ruolo che può avere il patrimonio come componente a sé stante della valutazione del tenore di vita delle famiglie; in Italia, ad esempio, con l’ISEE si considera dapprima il reddito comprensivo delle quote da patrimonio (per la verità a macchia di leopardo, viste le diverse e rilevanti eccezioni e franchigie, frutto di una lunga e contrattata gestazione) e poi si aggiunge il 20% del patrimonio già considerato come generatore di reddito, facendo assumere all’interno di questo “indicatore” – qualora lo si volesse intendere per particolari usi come “reddituale” – un peso della componente da patrimonio di oltre 10 volte quella di mercato.

Gran parte delle definizioni di povertà, tuttavia, fa riferimento al reddito (equivalente, il che fa dipendere la diversità di misurazione anche dalla specifica scala di equivalenza utilizzata) o alla spesa familiare osservata; e tale considerazione è particolarmente rilevante per valutare la relazione tra introduzione del reddito di cittadinanza e riduzione della povertà.

Il reddito di cittadinanza, infatti, può essere percepito solo se sono rispettati diversi requisiti economici, tra i quali vi sono non solo quelli relativi al reddito equivalente del nucleo, come è naturale, ma anche all’ISEE, al patrimonio immobiliare e al quello finanziario, come requisiti aggiuntivi e separati, oltre che in parte sovrapposti.

Inoltre, le componenti di reddito a cui si fa riferimento per valutare i requisiti di accesso sono ovviamente quelle “dichiarate” e verificabili: non possono essere considerate, dunque, quote di reddito sommerso, da lavoro dipendente (si ricordi che tre milioni sono i dipendenti totalmente in nero) o autonomo (altri tre milioni circa di evasori).

La molteplicità di indicatori utilizzati per identificare il diritto all’accesso al reddito di cittadinanza determina due rilevanti aree di mancata sovrapposizione tra “poveri” (sulla base di un criterio condiviso di definizione di povertà) e “fruitori RC”, che potremmo chiamare di “inefficienza allocativa”:

  1. Parte dei “poveri”, come definibili sulla base di reddito o spesa, è esclusa dalla fruizione del RC, restando così in povertà, a causa dei diversi e abnormi requisiti patrimoniali applicati nel RC (compreso l’ISEE per quanto detto);
  2. In una nazione come l’Italia, fortemente caratterizzata da evasione e sommerso, una quota significativa di non poveri potrebbe beneficiare del RC, come d’altronde di ogni tipo di prestazione soggetta alla “prova dei mezzi”.

Allo scopo di quantificare le dimensioni delle due aree di inefficienza allocativa richiamate sopra si è utilizzato un modello di microsimulazione che permette di distinguere tra reddito dichiarato e non, oltre che quantificare con minore approssimazione (rispetto alle principali indagini campionarie) il patrimonio immobiliare e finanziario di ciascun nucleo familiare. Il modello utilizzato, infatti, si basa su un set di dati in cui sono registrati sia i redditi dichiarati dai rispondenti all’indagine SILC (che sono meno soggetti a sotto-dichiarazione di quelli fiscali), sia quelli riportati nelle dichiarazioni dei redditi, insieme a dati catastali e stime delle giacenze finanziarie utili per ricostruire il patrimonio familiare.

Attraverso queste informazioni – facendo uso del modello – si sono incrociate le platee stimate di beneficiari del RC e di “poveri”. In questo esercizio, i poveri sono stati identificati in base alla definizione di povertà relativa “reddituale” adottata tra gli altri dall’OCSE, definita sulla base di una soglia pari al 45% della mediana del reddito equivalente, a sua volta definito computando ogni componente osservabile – anche sommersa o da patrimonio – ed utilizzando la tradizionale scala di equivalenza “Carbonaro”, che ha il pregio di essere fondata su una stima econometrica sulla base dei consumi alimentari osservati, anziché essere definita “pragmaticamente”, come nel caso della scala applicata per il RC, sulla base di criteri legati, presumibilmente, a scopi quali il contenimento della spesa con beneficio a favore di nuclei poco numerosi.

Il risultato della simulazione è osservabile nella tabella che segue.

Come si vede, appare piuttosto impressionante la misura delle aree di inefficienza allocativa del RC in precedenza delineate:

  • dei circa 9 milioni di poveri relativi prima del RC, i beneficiari risultano solo 1,3 milioni, circa un settimo del totale;
  • dei quasi 2,8 milioni di beneficiari, poco meno di 1,5 milioni (oltre la metà) non risultano essere poveri, nonostante il modello non riesca a identificare tutti gli autonomi evasori ed i dipendenti sommersi.

Mentre i beneficiari non poveri sono un fenomeno strutturale e presente in molti altri casi, fintanto che restano così rilevanti i fenomeni dell’evasione e del sommerso, l’area dei poveri non beneficiari dipende strettamente dall’impianto del RC e dalle scelte del legislatore, relative soprattutto alla decisione di escludere dal beneficio poveri con quote anche modeste di patrimonio al fine di ridurre il numero dei beneficiari e poter erogare, date le risorse pubbliche, un assegno di importo piuttosto elevato (i 780 euro mensili ampiamente pubblicizzati) rispetto ai redditi ed ai bisogni essenziali della platea di riferimento.

Alla luce di questi limiti, e di altri già trattati sul Menabò (quali le elevate aliquote marginali implicite che incentivano evasione e sommerso, la ridotta attenzione per le famiglie numerose, il farraginoso e dispendioso impianto di workfare per svolgere funzioni che dovrebbero essere perseguite ordinariamente), appare utile delineare una praticabile modifica del reddito di cittadinanza fondato sui seguenti punti:

  1. una riduzione dell’importo massimo unitario del RC, vicino ad un livello di sussistenza o a quello delle pensioni sociali e minime (500 euro mensili) assieme ad una diversa scala di equivalenza più scientifica e realistica (Carbonaro, o anche quella ISEE) che tornerebbe a riconoscere i bisogni delle famiglie più numerose;
  2. la rimozione dei requisiti esplicitamente patrimoniali, con la conservazione dell’ISEE, che in qualche modo li comprende e che potrebbe essere usato per calibrare la spesa complessiva sostenibile;
  3. un calcolo dell’assegno spettante che sottrarrebbe all’importo potenziale solo una percentuale (metà o due terzi) dell’eventuale incremento futuro di reddito da lavoro, per un congruo numero di anni, al fine di abbattere l’aliquota marginale altrimenti vicina al 100%.

I vantaggi che potrebbero essere ottenuti tramite queste modifiche sono molteplici. In primo luogo, sarebbe assicurata una copertura molto più ampia dei nuclei in condizione di povertà, ad un livello di spesa aggregata simile a quello attuale. In secondo luogo, non meno importante, il ridotto assegno pro capite (si è detto che la scala di equivalenza più generosa potrebbe anche aumentare l’assegno per le famiglie povere numerose), assieme alla diminuzione dell’aliquota marginale, ridurrebbe non solo l’interesse ad occultare redditi, o a modificare in modo fittizio la famiglia anagrafica, ma anche la necessità o la complessità di uno specifico e farraginoso impianto normativo a latere di tipo workfare, oggi ritenuto necessario proprio per la consapevolezza del notevole vantaggio economico che deriva dal non lavorare o dal non dichiarare i redditi da lavoro.

Fuori dalla polemica tra i partiti pro o contro un assegno di ultima istanza, i meccanismi pubblici di facilitazione dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro tornerebbero nel proprio alveo naturale, quello ordinario, per troppi decenni lasciato nell’abbandono e nella inefficienza.

 

*L’approccio e le opinioni qui sviluppate sono di esclusiva responsabilità dell’autore.

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