I partiti, la rappresentanza e la loro pretesa crisi (seconda parte)

Alfio Mastropaolo, nella seconda parte del suo articolo, ribadisce che i partiti di massa, più per scelta che per necessità, non svolgono più la funzione di costituire e regolare la rappresentanza. Di conseguenza la scena pubblica è affollata di attori che si fanno portavoce di altri. Le elezioni fanno da filtro, ma il filtraggio, grazie ai media, è molto dubbio. La politica reagisce con l’ipo-rappresentanza, valorizzando l’esecutivo e la personalizzazione. Ma lo scambio non funziona. E la politica paga la sua impopolarità indebolendosi rispetto ad altri poteri, come quelli economici.

Quale che sia il credito che si concede alle interpretazioni non della crisi dei partiti, che non stanno affatto male, ma della loro trasformazione, nessuna è in grado di dimostrare che il destino non potesse essere diverso e che i partiti non avrebbero potuto seguitare a stabilizzare la rappresentanza, anziché disperderla. Suggeriamo pertanto un’altra ipotesi.

I partiti, anche a giudicarli positivamente, non sono organizzazioni benefiche. Sono imprese, che costituiscono la rappresentanza in funzione dello loro ambizioni di potere. Non c’è nulla di scandaloso. Si può ambire il potere per ragioni molto nobili, si può muover in guerra contro povertà, ignoranza, disuguaglianza. Solo che i partiti di massa erano macchine costose e ardue a governare. Associare i cittadini era impegnativo, le contese tra correnti erano drammatiche, apparati e militanti entravano spesso in conflitto con la leadership. Infine, la manutenzione dell’elettorato, oltre ad essere onerosa, era un vincolo per l’azione di governo. Ecco perché i partiti hanno puntato ad abbattere i costi di produzione della rappresentanza e del consenso. All’organizzazione fondata su sezioni, segreterie, case del popolo, hanno preferito quella via etere. Ovvero: hanno ravvisato nei media un dispositivo più maneggevole e meno dispendioso per preservare il loro seguito elettorale. Magari incoraggiati da una rappresentazione della società postfordista come società pacificata, ove talune conquiste si erano rapprese tramite i diritti, e in cui i cittadini chiedevano amministrazione e non politica, né conflitti, dispute, clientele e gli inconvenienti da sempre imputati ai partiti.

Molto ha contribuito la polemica condotta contro i partiti. La loro reputazione non è adamantina e tre sono le accuse classiche loro rivolte. La prima è di travisare la volontà dei rappresentati. La seconda di essere burocratici e autoritari. La terza è di distogliere risorse pubbliche a fini privati. Lungi dall’essere infondate, tali accuse sono fin troppo ovvie. Ogni forma di rappresentanza travisa. Il burocratismo affligge tutte le organizzazioni complesse. E quel che Weber chiamava il “patronato degli uffici” è anch’esso inevitabile: come possono i partiti garantirsi lealtà dai loro quadri e dai loro militanti offrendo solo incentivi simbolici anziché incentivi materiali? Ma erano, questi, motivi sufficienti perché la trasformazione avvenisse com’è avvenuta?

Un gruppo dirigente può essere burocratico, ma può fare in modo di non essere autoreferenziale. Una cosa è il patronato degli uffici, un’altra la trasformazione della classe politica in broker affaristico. E si può sì distorcere la rappresentanza, ma non ignorare i principi e gli interessi che i partiti stessi hanno inoculato nei rappresentati. Anche i partiti di massa si potevano verosimilmente riformare, così come avrebbero potuto seguitare a stabilizzare l’elettorato. Non fosse che il partito di massa è stato la vittima di una nuova tornata della lotta per la rappresentanza. Dove ciò che più turbava non erano i suoi vizi intriseci, bensì la capacità di aggregare, promuovendole a soggetto politico, le categorie più deboli della popolazione, insieme alla sensibilità dimostrata dai partiti di ogni colore, anche solo per ragioni elettorali, verso tali categorie e i loro bisogni. Ristrutturando i processi produttivi del consenso, i partiti hanno penalizzato non poco tali categorie, al costo di adottare una forma di rappresentanza instabile e occasionale. Gli elettorati resistono, ma, privati delle macchine che li mantenevano, sono stati anche oggetto di un’azione molto intensa di destrutturazione simbolica. Basti pensare all’oblio in cui è caduto il principio, sacro in altri tempi per i partiti di sinistra, di uguaglianza.

La destabilizzazione della rappresentanza ha prodotto più di un effetto. Potremmo definire il primo come “iper-rappresentanza”. La rappresentanza destabilizzata è una rappresentanza liberalizzata: gruppi, movimenti, associazioni, blog, think-tanks, chi più ne ha più ne metta. Col concorso dei media la scena pubblica è sovraffollata di attori che si rivendicano rappresentanti di qualcuno e di qualche causa. L’iper-rappresentanza non solo si fonda sull’incontestabile iper-pluralismo delle società in cui viviamo, ma lo alimenta. Inoltre, i media incoraggiano le incursioni corsare nello spazio della rappresentanza. Senza nemmeno esibire un seguito. Basta captare gli umori di un sondaggio e il gioco è fatto. L’avanzata dei partiti populisti è iniziata in questo modo, tramite riuscite operazioni corsare sulle tribune mediatiche dell’iper-rappresentanza.

Se l’iper-rappresentanza è fattore di dispersione, non è da escludere che alla classe politica non sia troppo sgradita. La dispersione è una tecnica di governo. La manifestazione di Parigi dell’11 febbraio fa riflettere. Cosa di più comodo per la classe politica di un grande rassemblement i cui numeri rappresentano un popolo intero, alfine riunito, a dispetto di chi vuol dividerlo, ma che nella vita quotidiana resta disperso in una moltitudine di segmenti funzionali e locali, iper-rappresentati, ma scoordinati?

Certo l’iper-rappresentanza si traina appresso un fastidioso incremento delle domande politiche, che, ove non soddisfatte, moltiplicano viepiù i pretendenti alla rappresentanza. Il rimedio escogitato dalla classe politica è stato pertanto l’“ipo-rappresentanza”. È uno sviluppo che è stato sospinto dalle teorie sulla “crisi di governabilità” elaborate a metà anni 70. Che hanno indotto, oltre che la semplificazione dualistica della competizione politica, anche una sua curvatura personalistica e plebiscitaria. L’ipo-rappresentanza si concentra nell’esecutivo e in apparenza scavalca istituzioni e corpi intermedi. Che però resta immagine senza divenire sostanza. Perché l’azione di governo fa comunque i conti con gli interessi e le lobbies, che sono sempre parecchio agguerriti.

Che l’ipo-rappresentanza abbia ridotto la debolezza delle classe politica è molto dubbio. Né l’ha resa meno vulnerabile alle critiche e, pertanto, la sua reputazione non è migliorata.  La destabilizzazione della rappresentanza ha sortito  quindi un vistoso slittamento delle funzioni di governo della vita collettiva dalla politica verso il mercato. Sprovvista di uno stabile sostegno da parte dei cittadini da essa raggruppati, la classe politica svolge sempre più compiti di mantenimento dell’ordine pubblico (anche internazionale) e esaudisce le pretese dei suoi contendenti extrapolitici.

Concludendo. La rappresentanza non è per nulla in crisi. Né sono in crisi i partiti. È solo occorsa una loro nuova mutazione. Dacché sono stati inventati, l’una e gli altri sono stati la posta non di astratte scelte teoriche – de optima republica – ma di lotte di potere assai concrete. Un’ulteriore revisione della rappresentanza, e dei suoi attuali assetti, sarà quindi possibile ottenerla non solo evidenziandone gli effetti, e riclassificandoli politicamente, come inconvenienti, ma anche lottando per contrastarli. In questa prospettiva una ristabilizzazione della rappresentanza, che convogli i cittadini verso la politica, sarebbe un passo auspicabile, quantunque non agevole da compiere. È da leggere in questa chiave la proposta avanzata da qualche tempo da Fabrizio Barca di  riscoprire i partiti quali associazioni civiche e luoghi privilegiati di partecipazione politica.

I partiti di massa d’antan raggruppavano – e costituivano – il loro seguito in questo modo. La forma più complessa e raffinata fu il centralismo democratico. La proposta di Barca è d’importare nei partiti le tecniche che si usa chiamare “deliberative”. C’è molta competenza e intelligenza politica, osserva Barca, disseminata nella società. Perché non mobilitarla per rivitalizzare i partiti e la rappresentanza? C’è da domandarsi se tanto basti. Ma ad ogni buon conto, che basti o che non basti, e che pertanto vadano escogitati altri dispositivi, l’essenziale è che tali forme di partecipazione e inclusione – che sono assai più prossime alla democrazia rappresentativa che a quella diretta – non siano segmentate. Non divengano cioè provvisorie opportunità di partecipare, su temi circoscritti, magari solo su scala locale, ma costituiscano piuttosto un modus operandi diffuso nel corpo del partito. Fermo restando che per ristabilizzare la rappresentanza ci vuole anche altro.

Del problema gli addetti alla politica hanno piena consapevolezza. Ma il massimo che hanno finora offerto, insieme all’ipo-rappresentanza, è la governance. Quando la si oppone al governement, che riconoscendola prova a rafforzare la sua legittimità, la governance si presenta addirittura come dispositivo di autogoverno del pluralismo. Una quota delle policies è consegnata alle interazioni negoziali tra i cosiddetti stake-holders: gli attori dianzi citati e le pubbliche amministrazioni, intese non più come sistema coerentemente organizzato a tutela dell’interesse generale, bensì come diversificata costellazione di agenzie incaricate di assicurare specifici servizi pubblici. Benché evochi la partecipazione, la governance è però anch’essa una forma di rappresentanza bell’e buona, ma privatizzata e senza elezioni. Che, sebbene paia archiviare l’idea di contenere il pluralismo e lo riconosca senza restrizioni, di fatto un po’ lo vanifica, un po’ lo limita: sia mediante la selezione e l’autorizzazione a parlare degli stake-holders, concessa non casualmente dal government, sia dedicando le sue contrattazioni partecipative a issues decentrate, isolate con cura da ogni considerazione politica d’ordine generale.

Anche la democrazia «deliberativa», ovvero quell’insieme di procedure che si fondano sul dialogo e che mirano all’accordo, fondato sulla persuasione reciproca, tra quanti vi partecipano, rientra tra i dispositivi della governance. Sul tema si è accumulata una letteratura imponente, spesso anche critica, che mostra come, dietro una superficiale somiglianza con la democrazia diretta, si nasconda di nuovo qualcosa di prossimo alla rappresentanza, pur se privo delle sue geometrie. I partecipanti alle assemblee deliberative – giurie di cittadini, débat public – non sono eletti. Sono selezionati per campione. Ma è certo che li si vuole rappresentativi o della cittadinanza o di quelle sue porzioni che sono interessate alle decisioni da assumere. Tranne che si tratta di una forma di rappresentanza spoliticizzata. In quanto non solo chi vi partecipa lo fa spogliandosi, almeno ufficialmente, di ogni affiliazione partitica, ma anche in quanto si pretende che le scelte elaborate tramite il dialogo, e col consenso di tutti, siano affrancate da ogni orientamento di parte e corrispondano a quello che i partecipanti abbiano ritenuto in buona fede l’interesse generale (Floridia, 2013).

Che istituti quali la governance e la deliberazione servano unicamente a includere per escludere in maniera meno dolorosa, come in fondo capita alla rappresentanza politica, non è neanche detto. Come tutte le istituzioni, dipende dal modo in cui vengono impiegate. Com’è successo alla rappresentanza politica, potrebbero sortirne effetti inaspettati e sgraditi a chi intende strumentalizzarle.  Quel che accadrà lo vedremo dai prossimi sviluppi della lotta per la rappresentanza. Che è al momento segnata dalla liberalizzazione del pluralismo, per lasciarlo inascoltato, eventualmente reprimendone le varianti più scomode. Ciò che per ora sappiamo è chi vince e chi perde. E tra i perdenti c’è la politica, la quale, stretta tra iper-rappresentanza (bulimica) e ipo-rappresentanza (anoressica), e a dieta di consenso popolare, fa il gioco di altri poteri, interessati a ridimensionarla.

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