I paesi più egualitari d’Europa lo sono sempre meno?

Michela Boldrini, Ludovica Galotto e Gabriele Dente commentano due recenti pubblicazioni dell’OCSE sulla crescita delle disuguaglianze in atto in Danimarca e Svezia a partire dagli anni ’80. Gli autori spiegano che secondo l’OCSE tale processo è dovuto all’indebolimento delle politiche redistributive, alla crescita dei redditi da capitale, all’invecchiamento della popolazione e all’immigrazione e sottolineano che, nonostante ciò, Danimarca e Svezia sono ancora tra i paesi OCSE con i più bassi livelli di disuguaglianza e povertà.

Due recenti pubblicazioni dell’OCSE si occupano del crescente divario nella distribuzione dei redditi nei paesi Scandinavi. L’Economic Survey 2017 della Svezia studia i trend e le cause della disuguaglianza, cresciuta stabilmente a partire dai minimi storici degli anni 80 a causa soprattutto dell’invecchiamento della popolazione, dell’indebolimento dei meccanismi redistributivi e della complicata gestione degli ingenti flussi migratori. Il working paper “Inequality in Denmark through the Looking Glass” si occupa di come le scelte metodologiche dell’OCSE nella misurazione della distribuzione dei redditi portino a divergenze nei risultati rispetto all’istituto nazionale di statistica danese, senza, tuttavia, che questo modifichi lo status della Danimarca come uno dei paesi OCSE più egualitari, pur in presenza di una crescita delle disuguaglianze simile a quella registrata dagli altri paesi Scandinavi.

In entrambi i documenti viene evidenziato, dunque, un aspetto comune: negli ultimi 20 anni nei paesi Scandinavi la disuguaglianza dei redditi è cresciuta stabilmente, in linea con la generale tendenza mostrata negli ultimi 15 anni dalla maggior parte dei paesi occidentali. La concentrazione dei redditi disponibili misurata dall’indice di Gini – con livelli di 0.28 in Svezia, 0.25 in Danimarca e in Norvegia e 0.26 in Finlandia – rimane meno elevata rispetto alla media dei paesi OCSE, che si attesta sullo 0.32 nel 2014 (Figura 1), ma mostra una crescita relativamente più forte rispetto agli altri paesi. La Svezia è il paese che ha subito la crescita più sostenuta ed è attualmente il paese Scandinavo con il più alto livello di disuguaglianza. In Danimarca, dalla metà degli anni ‘90 all’inizio del 2010 il coefficiente di Gini è cresciuto del 3.5%, se ci si basa sulle statistiche OCSE, o del 6% secondo le statistiche ufficiali danesi.

Figura 1: Indice di disuguaglianza di Gini dei redditi disponibili nel 2014 nei paesi OCSE

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Per quanto concerne la Svezia, la tradizionale inclinazione all’uguaglianza ha radici lontane nel tempo: già nel 18° secolo i processi di industrializzazione e modernizzazione sono stati accompagnati da una serie di riforme del welfare che hanno consentito un fortunato connubio tra crescita ed equità. Il livello eccezionalmente basso di disuguaglianza raggiunto dalla Svezia negli anni ’80 non ha precedenti storici ed è stato in parte reso possibile da un insieme di interventi governativi a sostegno delle industrie, dalla rapida espansione creditizia indotta da una politica di deregolamentazione e dall’adozione di politiche macroeconomiche mirate all’aumento nell’immediato dell’occupazione, alcune delle quali si sono rivelate tuttavia insostenibili nel lungo periodo.

Gli squilibri economici e finanziari determinati da queste politiche hanno raggiunto il loro culmine durante la crisi dei primi anni ’90, generando un aumento significativo delle disuguaglianze in termini di redditi di mercato che sono state solo in parte mitigate dai meccanismi redistributivi. Molti dei trasferimenti pubblici di cui beneficiavano i cittadini in età lavorativa sono stati ridotti o congelati e da allora raramente sono stati rivisti o aggiornati in maniera sistematica. Il problema è reso più grave da una dinamica demografica avversa. Circa il 70% della variazione nel coefficiente di Gini dei redditi di mercato tra il 1987 e il 2013 può essere attribuito ai cambiamenti avvenuti nella struttura familiare e industriale, nel livello di istruzione e all’impatto dell’invecchiamento della popolazione e del fenomeno migratorio. E’ aumentata la quota dei nuclei familiari composti da single, sono cresciute le famiglie monoparentali, così come la frazione di popolazione in età pensionabile e il numero di famiglie di immigrati (che dal 3% del 1987 sono cresciute fino al 16% nel 2015): tutti questi sono gruppi che percepiscono redditi inferiori rispetto alla media della popolazione.

Per quanto riguarda la Danimarca, il trend della crescita della disuguaglianza sembrerebbe lo stesso seguito dalla Svezia, anche se rimangono dubbi sull’entità del fenomeno. Il governo Danese e l’OCSE utilizzano infatti dati differenti, e questo porta a conclusioni differenti: il governo dichiara un incremento dell’indice di Gini di 6 punti percentuali a partire dagli anni ‘80, mentre l’OCSE parla di un aumento di 3,5 punti, sebbene, come detto, la Danimarca rimanga uno dei paesi più egualitari dell’area OCSE. Che la disuguaglianza sia aumentata risulta evidente guardando i profili di crescita del reddito per le fasce della popolazione più abbienti e più povere. Nel periodo 2005-2011 il reddito disponibile dei più poveri ha praticamente smesso di crescere, mentre i più ricchi hanno visto un aumento dei loro redditi del 2%.

Analogamente, a partire dagli anni ’90 la curva della distribuzione del reddito in Svezia si è “allargata”: il reddito reale mediano è cresciuto in media del 2.7% l’anno tra il 1995 al 2014, ma il tasso di crescita è stato più alto per la coda alta della distribuzione, con un effetto di ampliamento della disuguaglianza. Tra le fasce più abbienti la crescita dei redditi è stata trainata dall’aumento dei proventi da capitale che ha interessato principalmente coloro che già vantavano redditi alti; inoltre, la quota dei redditi detenuta dal top 1% è aumentata dal 2,8% al 7,4% nel periodo 1975-2013. Per quanto riguarda la coda inferiore della distribuzione, la crescita contenuta dei redditi è in gran parte dipesa da un ritmo di crescita dei trasferimenti del welfare inferiore rispetto a quello dei redditi di mercato, in un contesto in cui per la maggioranza degli individui che si collocano nei tre decili più bassi della distribuzione i trasferimenti pubblici rappresentano la fonte di reddito principale. Oltre che per il livello di crescita dei redditi, gli estremi della distribuzione differiscono anche in termini di mobilità dei redditi: mentre la mobilità nella fascia inferiore è abbastanza elevata (più della metà degli individui riescono a lasciare il decile più basso entro cinque anni) al di sopra del 75simo percentile la mobilità è pressoché inesistente e all’interno del top 1% si osserva un’elevatissima associazione fra redditi dei figli e dei genitori.

In Danimarca, la situazione agli estremi della distribuzione del reddito presenta caratteristiche leggermente diverse rispetto alla Svezia: sebbene la percentuale di reddito detenuta del top 10% della popolazione sia una delle più basse nell’OCSE (attorno al 25% per il reddito di mercato), la forte diminuzione che si era verificata negli anni ‘70 è venuta meno a partire dagli anni ‘80 e si è anzi assistito ad un incremento, seppur marginale, a partire dalla crisi del 2008. E’ importante notare, poi, come il top 1% della popolazione detenga ”soltanto” il 5-6% del reddito di mercato, confermando, anche in base a questo indicatore, la posizione della Danimarca come uno dei paesi più egualitari del mondo (negli Stati Uniti d’America, per fare un confronto, il top 1% detiene poco meno del 20% del reddito). Per quanto riguarda invece i redditi più bassi, la situazione é rimasta, almeno secondo i dati OCSE, stabile dalla metà degli anni ‘90, quando la percentuale di popolazione con reddito inferiore al 50% del reddito mediano era pari al 5% a fronte di una media OCSE superiore al 10%.

Secondo gli autori del working paper, una delle cause principali dell’aumento della disuguaglianza in Danimarca, come negli altri paesi OCSE, è rappresentata dallo Skill Biased Technological Change, ovvero dal progresso tecnico che accresce la domanda relativa di lavoratori più qualificati favorendo, dunque, l’ampliamento dei differenziali retributivi fra lavoratori più e meno istruiti. A questo si aggiungono l’incremento dei redditi da capitale (favorito dall’espansione dell’industria finanziaria) , la ristrutturazione del cosiddetto modello di ‘flexicurity’, che ha portato a una riduzione dei sussidi di disoccupazione, in termini di durata e importi, parzialmente compensata da maggiori investimenti in politiche attive.

Da ultimo, nella ricerca di cambiamenti strutturali che possono influenzare la disuguaglianza, occorre considerare i flussi migratori, che in Svezia hanno raggiunto dimensioni notevoli anche rispetto agli altri paesi dell’OCSE: tra il 1987 e il 2013 la quota di popolazione costituita da migranti di origine non-UE è cresciuta dal 3 al 12%. Dal momento che i migranti di origine non-EU che arrivano in Svezia appartengono con grande probabilità alle categorie “giovani, low-skilled, single”, essi risultano maggiormente esposti al rischio di non raggiungere il livello minimo di competenze richiesto dal mercato del lavoro svedese, di percepire redditi molto bassi e di sperimentare situazioni di seria deprivazione materiale. La migrazione influenza, quindi, il livello di disuguaglianza sia in maniera diretta – i migranti arrivano in Svezia con competenze e prospettive di carriera inferiori a quelle dei nativi, aumentando la densità della coda inferiore della distribuzione dei redditi – sia in maniera indiretta – influenzando la competizione nel mercato del lavoro per le occupazioni che richiedono un basso livello di qualificazione, e dunque accrescendo la vulnerabilità sia dei migranti che dei nativi.

Il fenomeno migratorio pone sfide severe al sistema svedese: quella di velocizzare e rendere più efficiente il processo di accoglienza e di integrazione, ma soprattutto quella che consiste nel favorire l’inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro e che richiede di investire sul miglioramento delle loro competenze, a partire da quelle linguistiche, e sulla riduzione temporanea dei loro costi di assunzione.

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