I “lavoratori ricchi”: una nuova figura di rentier?

FraGRa dedicano il loro articolo ai cosiddetti working rich. Dopo avere documentato la tendenze dei redditi a concentrarsi nella parte alta della distribuzione e, soprattutto, la crescente presenza dei redditi da lavoro tra i top income, FraGRa si interrogano sui fattori in grado di spiegare il fenomeno. A questo scopo ricordano che già nell’800 i Fabiani avevano sostenuto che anche i redditi da lavoro possono avere una componente di rendita e sostengono che proprio alle rendite indotte da una inadeguata concorrenza occorre guardare per comprendere il fenomeno e per debellarlo.

Come risulta dal world top income database  in Italia, nei trenta anni compresi tra il 1980 e il 2009, la quota di reddito nazionale concentrata nelle mani dell’ 1% più ricco è cresciuta dal 6,9 al 9,4% e quella di cui si è appropriato lo 0,1% più ricco è aumentata, in termini relativi, ancora di più, passando dall’1,7 al 2,7%. La sempre più marcata concentrazione dei redditi al top della scala distributiva non è una peculiarità italiana. Negli Stati Uniti, nel 2009, i redditi dell’1% più ricco erano pari al 16,7% dei redditi totali (18,1% se si considerano anche i capital gains), in forte crescita rispetto all’8,2% del 1980; ancora più impressionante è la quota dello 0,1% più ricco, che, nello stesso trentennio, è passata dal 2,2 al 7,1%.

Questa specie di forsennata corsa dei redditi in soccorso del ristrettissimo club dei già molto ricchi costituisce una delle forze trainanti, forse la più trainante, del processo di aggravamento delle disuguaglianze in corso da alcuni decenni. Ma vi è anche altro su cui appuntare l’attenzione.

Nel club dei più ricchi – e ribadiamo, scusandoci per il bisticcio di parole, che qui si parla di ricchi di reddito e non di ricchi di ricchezza – ci sono stati importanti avvicendamenti. Alcuni di coloro che facevano parte di quel club in virtù del rendimento del proprio capitale o patrimonio sono stati scavalcati da chi non possiede patrimoni rilevanti ma gode di stratosferiche remunerazioni per le proprie prestazioni lavorative. Ad esempio, negli Stati Uniti la quota del reddito del top 0,1% che proviene da attività lavorative, è compresa tra il 40% e il 45%, notevolmente al di sopra del valore che aveva negli anni ’70. In Italia il fenomeno è perfino più accentuato. Nel 2009 il 70,9% del reddito dei membri del club dell’1% derivava da attività lavorative (inclusive anche dei redditi da lavoro autonomo, ma non di quelli di impresa); rispetto al 1980 si tratta di un balzo di oltre 24 punti percentuali. Anche nel ristrettissimo club dello 0,1% i “lavoratori” non sfigurano affatto, visto che i redditi da lavoro rappresentano oltre il 66% del reddito totale degli appartenenti a tale club.

Anche utilizzando criteri diversi per individuare i ricchi, risulta confermato che tra di essi vi sono molti “lavoratori”. Ad esempio, potremmo considerare ricchi (come suggeriamo nel nostro libro Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Il Mulino, 2014) coloro che godono di un reddito pari ad almeno 5 volte il reddito mediano. In base ai dati della Banca d’Italia, più dell’80% del reddito dei ricchi così definiti deriva da lavoro (autonomo, dipendente o da pensione).

Di fronte a questi dati si comprende perché sia nato e si sia diffuso un neologismo che può suonare, a seconda dei punti di vista, inquietante o rassicurante, quello di working rich. Nel mondo del lavoro oggi si fronteggerebbero, secondo uno schema piuttosto inedito, working poor e working rich, lasciando abbastanza sguarnito, almeno rispetto al passato, il territorio occupato dai working normal o dai working e basta.

Prendendo per buona, almeno per il momento, questa terminologia, cerchiamo di capire meglio chi sarebbero i working rich (o super-rich). In generale si pensa ai top manager delle grandi imprese, alle superstar dello sport e dello spettacolo, ai super-professionisti e anche ai grand commis dello stato, ma si può essere più precisi.

In Italia i liberi professionisti sono la categoria con il più elevato reddito lordo medio e, tra di essi, i più ricchi sono i notai (316.000 euro annui nel 2011) e i farmacisti (104.000 euro); fra gli avvocati, nel 2008, ben 14.407 dichiaravano più di 100.000 euro e 390 superavano il milione. Da alcune nostre elaborazioni sui dati INPS risulta anche che nel 2003, 6.000 dipendenti privati percepivano più di 250.000 euro (a valori correnti). Inoltre, definendo i ricchi da lavoro come coloro che hanno una retribuzione superiore a 5 volte quella mediana, dai dati della Banca d’Italia risulta che il 19% di essi sono lavoratori dipendenti (privati o pubblici), il 38% liberi professionisti e il 43% svolge un’altra tipologia di attività autonoma.

Ma è appropriato parlare di working rich? E in che senso il lavoro può essere considerato la fonte di redditi così elevati? Un fattore che apparentemente spinge nella direzione di negare che si tratti di remunerazione del lavoro è la rilevanza che talvolta assumono nel pacchetto retributivo dei top manager le stock options e i capital gains. Un esempio tra i molti possibili: lo scorso anno Marchionne ha ricevuto gratuitamente 1,62 milioni di azioni che valgono oltre 20 milioni di euro (e che vanno ad aggiungersi ai 6,6 milioni di stipendio, ai 24,7 milioni di bonus per la fusione della Fiat con la Chrysler e ai 12 milioni che saranno riscossi al termine del mandato).

Tuttavia, malgrado il valore elevatissimo che in alcuni casi possono raggiungere, i capital gains e le stock options non consentono di concludere che i working rich sono tali grazie al rendimento del capitale che, in un modo o nell’altro, essi controllano. Un gran numero di working rich non percepisce azioni in pagamento e, d’altro canto, l’acquisizione originaria delle azioni avviene come compensazione per il lavoro prestato, non per altro.

Dunque è il lavoro ad essere remunerato così generosamente. Ma la misura della sua remunerazione non è determinata dallo sforzo o dalla produttività come si potrebbe pensare e come assume la teoria tradizionale quando deve spiegare l’altezza dei salari in mercati competitivi. Per comprendere lo strano caso dei working rich occorre accogliere l’idea che i redditi da lavoro possano contenere una dose consistente di rendita.

B. Fried (The Progressive Assault on Laissez Faire, 1998) ricorda che a fine ‘800 un piccolo gruppo di intellettuali, fra cui Sidney Webb, George Bernard Shaw e Graham Wallas, dopo articolate discussioni con gli economisti Wicksteed e Edgeworth, sviluppò quella che fu chiamata la “legge delle tre rendite”. Le tre rendite riguardavano i redditi fondiari, i redditi da capitale e anche i redditi da lavoro. L’argomento che a loro parere rendeva legittimo parlare di rendita anche nel caso dei redditi da lavoro era la scarsità dei talenti (il limitato accesso all’opportunità di svilupparli) che svolgeva un ruolo del tutto analogo a quello della scarsità delle terre di migliore qualità nel generare la rendita fondiaria. Questa “legge” fu fatta propria dal socialismo fabiano e, negli Stati Uniti, Robert Hale la elaborò ulteriormente e la difese, come fece anche il primo, più complessivo, movimento di diritto e economia che si sviluppò all’Università di Columbia all’inizio del ‘900, in opposizione al laissez faire, già allora dilagante o, come forse sarebbe più appropriato dire, alle pressioni dei robber barons.

Nei mercati, in realtà, sono all’opera numerose barriere, spesso non immediatamente visibili, le quali consentono di lucrare rendite che sarebbero impossibili in mercati caratterizzati da forme di concorrenza anche soltanto vagamente paragonabili a quelle che si illustrano nei manuali di economia. Le barriere alle quali ci riferiamo non sono soltanto quelle più tradizionali che nascono da leggi e norme che proteggono chi è già nel mercato o da costi proibitivi di ingresso determinati dalle caratteristiche della tecnologia. Sono barriere anche, i vantaggi duraturi che derivano dalla notorietà di cui spesso si può godere in modo del tutto indipendente dal proprio talento, la quale spinge a concentrare la domanda su pochissimi offerenti che, alla fine, operano come monopolisti. Ulteriori vantaggi derivano dal diffondersi di tecnologie che consentono di soddisfare una platea molto ampia, con costi aggiuntivi bassissimi o nulli, come è nel caso di eventi sportivi o di performance artistiche, in particolare musicali.

Queste considerazioni portano a ritenere che, diversamente da quanto normalmente si assume, i mercati delle superstar non sono dominati da una concorrenza particolarmente agguerrita. In essi prevale, in realtà, la tendenza a concentrare la domanda su pochi e questo può determinare differenziali retributivi enormi in presenza di differenze di talento piccole, se non del tutto assenti. Il punto essenziale è, dunque, che anche se i talenti contano (e questo è quello che pensavano i Fabiani), le differenze retributive (e, dunque, l’entità della rendita da lavoro) dipendono dal modo in cui funzionano concretamente i mercati e ciò vuol dire che i talenti non determinano le retribuzioni in modo “naturale”. Intervenire a ridurre i vari fattori dai quali dipendono le barriere che abbiamo elencato certamente avrà effetti sulle retribuzioni, a parità di talento.

Dunque, tra talento e retribuzioni non vi è un nesso diretto. Un fattore importante di mediazione è il potere di cui si gode e che è inversamente collegato al grado di concorrenza. Il potere è, in realtà, presente anche all’interno delle grandi società per azioni a proprietà diffusa; ne dispongono gli amministratori delegati e lo usano per fissare le proprie retribuzioni. Tale potere deriva dal limitato controllo che gli azionisti sono in grado di esercitare, dalla capacità degli amministratori di condizionare sia le decisioni del board dei direttori sia la scelta dei consulenti per la fissazione di quelle retribuzioni e probabilmente dal declinante ruolo dei sindacati, come suggerisce anche un recente studio di due economiste del Fondo Monetario Internazionale .

Per tutte queste ragioni appare fondato parlare di rendita nei redditi elevatissimi da lavoro e ciò vale anche se è difficile isolare con precisione la componente della rendita da quella di remunerazione dello sforzo e della produttività. Al riguardo, ci si potrebbe accontentare, con Anderson (2007) di individuare le cosiddette acceptable range of deviations o, con Sen (2009), di contrastare le ingiustizie più palesi. Impegnarsi nella distinzione potrebbe essere, peraltro, superfluo se si convenisse, come a noi sembra il caso, che rendere i mercati più competitivi produce l’effetto di ridurre le rendite. Insomma, ciò che conta è un (non semplice) intervento strutturale sul disegno dei mercati.

Dunque, il lavoro può produrre rendite e i working rich sono tali perché dispongono di potere, normalmente connesso alla mancanza di concorrenza. L’idea che il lavoro possa produrre rendite, al di là di qualche riconoscimento, è rimasta minoritaria a sinistra. Al contrario, la destra se ne è mostrata convinta, ma quasi sempre con lo scopo di indebolire i sindacati o gli insider visti, spesso ingiustamente, come fruitori di rendite di posizione e di ingiustificate protezioni.

Di fronte alle esplosive disuguaglianze nei redditi da lavoro il tema delle rendite anche da lavoro non dovrebbe, però, passare inosservato e la questione della concorrenza in grado di contrastarle dovrebbe occupare un posto molto alto nell’agenda delle priorità. Alla concorrenza che indebolisce i già deboli deve essere contrapposta la concorrenza che erode le rendite dei più forti. I mercati, compresi i mercati competitivi, sono creazioni politiche. E la politica può e deve inserire i mercati dentro un sistema di diritti e di norme sociali che assicuri equità e benessere per tutti.

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