I filosofi e le donne

La tesi secondo la quale, nei rapporti fra i filosofi e le donne, i primi agiscano sulle seconde sulla base di una prospettiva di dominio è invero suggestiva e trova la sua origine nel pensiero della teologia della liberazione, in generale, e in quello del filosofo Enrique Dussel, in modo particolare. E’ questo il cardine intorno al quale ruota il lavoro di Antonino Infranca I filosofi e le donne (manifestolibri, Roma 2010, pp. 143, € 18,00). Forse, dopo aver affrontato la lettura, ci si rende conto che sarebbe stato più appropriato limitare, anche nel titolo, il campo dell’indagine ad alcuni filosofi e alle loro donne. Infatti l’autore prende in considerazione quattro coppie famose della storia della filosofia e ne analizza i rapporti muovendosi in continuazione fra livello teoretico e livello sentimentale. Le coppie sono formate da Abelardo ed Eloisa, Georg Lukács e Irma Seidler, Martin Heidegger e Hannah Arendt, Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir.

Nel racconto delle parole d’amore che queste coppie si sono scambiate, l’autore rinviene analogie e differenze ma anche un filo che collega fra loro queste vicende, le rende omogenee: da queste storie si possono leggere i sistemi dei quattro filosofi presi in considerazione e il valore di tali sistemi “perché la filosofia non è un mero strumento di pensiero, ma è anche un sistema di dominio e di potere” (p. 14).

Analizzando separatamente il pensiero di Abelardo e quello di Eloisa, il pensiero di Heidegger e quello della Arendt, le sollecitazioni che Lukács ricevette dalla prima moglie Yelena Grabenko e dalla seconda Gertrud Bortstieber -piuttosto che il rapporto patologico con Irma Seidler- sarebbe stato possibile costruire un percorso narrativo, come lo definisce lo stesso Infranca, che non avrebbe rinvenuto nella libertà assoluta di Sartre-De Beauvoir la soluzione al presunto nesso di sottomissione della donna all’uomo nella realizzazione di un sistema filosofico. Ci si vuol chiedere quanto un rapporto d’amore pesi sull’attività del pensiero, sull’attività politica e pubblica, quanto ne indichi le coordinate e fino a che punto agisca da elemento di stimolo.

Nel tentativo di proporre una risposta, balza agli occhi la relazione fra Gramsci e la moglie Giulia Schucht. Si obietterà che il primo non fu filosofo e la seconda non diventò una pietra miliare del pensiero filosofico novecentesco. Pur accogliendo parzialmente l’obiezione, si ricorderà che Gramsci scrisse, in una famosa lettera del periodo precarcerario, che senza l’incontro con Giulia non avrebbe mai compreso il significato della lotta e del pensiero vissuto avendo come oggetto la trasformazione del mondo: e questo, credo, ne fa un filosofo, precisamente quel filosofo democratico di cui scrive nei Quaderni, traduttore nella lingua del Novecento della marxiana filosofia della prassi.

L’amore di Antonio per Giulia, così tipologicamente legato ad un’esperienza di vita tesa alla trasformazione del mondo, è esempio vivente di una fedeltà che abbatte  le inferriate della cella carceraria e si proietta all’esterno, diventa incontro di anime altrimenti condannate alla solitudine e alla separazione, dà corpo ad un microcosmo di sentimenti che è la cellula originaria di quel macrocosmo di rapporti interpersonali in cui si trovano a convivere ansie e preoccupazioni per il “particulare” con stimoli a costruire quel marxiano “sogno di una cosa” a cui non è dato rinunciare, né ora né mai. Senza un’appassionata presenza femminile poco sarebbe possibile all’uomo: “Non posso dire alla gente: voi mi fraintendete, non sapete che cosa si nasconde in verità nel mio cuore. Sarebbe semplicemente ridicolo”[1].

Ha ragione Infranca quando afferma, citando la De Beauvoir che a sua volta cita Marx, che il suo è un libro marxista in quanto il rapporto dell’uomo all’uomo “è il rapporto dell’uomo alla donna” (p. 15). Ma la meraviglia della filosofia sta nel fatto che essa crea il rapporto proprio a partire dal femminile, come Diotima per Socrate, come Giulia per Antonio: la donna che, liberando se stessa, libera anche l’uomo con cui con-divide la vita.

Il rapporto di genere viene affrontato, nel libro, “sub specie aeternitatis”, a partire dalla consapevolezza che, seppure l’uomo propende al dominio e fa della parola uno strumento con cui, appunto, domina e costruisce un sistema di pensiero, dietro ogni sua appropriazione, o presunta tale, si nasconde l’affrancamento da parte della donna, il suo essere-proprio-così-com’è nel ribaltamento dei ruoli e nell’assunzione della sua particolarità. In questo senso, il tema del lavoro di Infranca sembra essere più la bellezza che la filosofia, quella bellezza che spinozianamente si presenta come letizia, come “amor Dei intellectualis”, ricomposizione del rapporto in un’armonia che è non tanto nel pensiero, quanto nella natura e in quel suo presentarsi come riappropriazione dell’umanità dell’uomo e della femminilità della donna.

Nelle quattro coppie intorno a cui discute Infranca sono presenti forme categorialmente diverse del dominio maschile: la volontà, l’opera, il riconoscimento, l’individuo. Il nesso hegeliano fra forma e contenuto in cui il rapporto uomo-donna si realizza diventa strumentale rispetto alle quattro categorizzazioni proposte nel volume e soggiace ad una volontà di potenza al maschile che, però, le stesse vicende narrate mettono in discussione. Quella simpatia, che Infranca traduce in modi diversi (p. 83), sembrerebbe non diventare mai con-divisione, perfetta corrispondenza del concavo con il convesso, sostanziale riempimento di quel vuoto esistenziale a cui è riuscito a sopravvivere soltanto Spinoza, ritrovandosi il suo sodale nel pensiero di un paio di secoli dopo, cioè Nietzsche, in piena pazzia a causa della sua solitudine. Con-dividere vuol dire che ciò che apparentemente il genere divide si ricompone in unità attraverso il recupero di quell’altro da sé che è già parte della totalità del sé. Insomma, il “cane morto” Hegel è il vero convitato di pietra del libro di Infranca, il suo assoluto protagonista, quello Hegel che scrive: “Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo, e per nessun lato l’uno è morto rispetto all’altro”[2].

Il libro di Infranca spinge ad una conclusione che soltanto in apparenza sembra contrastare con i suoi presupposti: le quattro donne rappresentate sono “eccezionali”, nel senso kierkegaardiano del termine, proprio perché forniscono il loro decisivo contributo alla realizzazione della posizione dei filosofi con cui costruiscono un rapporto di con-divisione; non ne subiscono il fascino teoretico, il dominio del pensiero, ma donano a quel pensiero ciò che esso, privato del loro contributo, non avrebbe mai potuto avere: la bellezza.

Lelio La Porta

 


[1] H. Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua materna, in Archivio Arendt 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001, p. 51.

[2] G. W. F. Hegel, Scritti teologici giovanili II, Guida Editori, Napoli 1977, p. 529.

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