I diritti sociali e il futuro dell’Europa

Gaetano Azzariti sostiene che il regresso della tutela dei diritti sociali in Europa è dovuto soprattutto alla debolezza della costruzione giuridica, che ha affidato quella tutela solo ai giudici. Questa strategia ha dato i suoi frutti ma la sua fragilità è emersa quando la rotta del diritto ha dovuto cedere il passo ai sacrifici imposti dalla congiuntura economica avversa e si sono cumulate decisioni in cui prevalgono altri “principi generali” del diritto comunitario, in particolare quelli legati ai meccanismi di stabilità. Azzariti ritiene necessario riaffermare, in linea con il costituzionalismo moderno, la superiorità dei diritti sui poteri, anche economici.

Per scrutare al futuro possibile dell’Europa credo sia necessario osservare il passato, guardare alle ragioni che hanno prodotto la crisi nella quale l’Unione europea si è avvitata. Per un giurista – in fondo – non è difficile indicare qual è il punto di maggiore sofferenza, dal quale ripartire. In sintesi potrei dir così: dopo una lunga stagione in cui, per piccoli passi ma con costanza, si è tentato di trasformare l’Europa del mercato comune in un’Europa anche dei diritti (anzi proprio la strategia dei diritti era stata indicata come la via per giungere ad un integrazione anche politica e non più solo economica o finanziaria), si è d’improvviso cambiato passo. Certamente l’abbandono del terreno dei diritti nella costruzione europea è stato ampiamente favorito  dall’avvitarsi della crisi economica e dalla parallela ripresa degli egoismi nazionalistici e degli scontri tra gli Stati. Ma non credo che ciò sia sufficiente per spiegare ogni cosa. Non mi sembra cioè che sia solo colpa dei “cattivi” economisti che hanno fagocitato le ragioni dei diritti, né solo responsabilità degli “inflessibili” politici dei paesi del nord Europa che hanno imposto pesanti sacrifici (anche sul piano dei diritti fondamentali) ai paesi del sud. Penso che grande sia stata anche la debolezza della costruzione giuridica eretta nel corso del tempo e che ha mostrato tutta la sua fragilità proprio nel momento in cui sembrava avesse raggiunto una sua definitiva stabilità, con la scrittura della Carta  dei diritti fondamentali dell’Unione europea e il suo inserimento nella normativa primaria effettuata con il Trattato di Lisbona. A mio parere, il vizio di fondo che ha reso deboli le conquiste e che, se non verrà rimosso, può compromettere il futuro dei diritti in Europa. Sempre in sintesi direi così: è stato l’aver affidato solo ai giudici e alla giurisprudenza pretoria della Corte di Giustizia la tutela dei diritti che alla fine ha mostrato la corda e non ha retto all’impatto con la politica quando il gioco s’è fatto duro e – per riprendere l’immagine di un noto film americano – i duri hanno cominciato a giocare.

Fuor di metafora e venendo all’analisi, credo nessuno possa dubitare che la costruzione europea dei diritti si sia venuta formando essenzialmente – se non esclusivamente – grazie ai giudici. Si parla da sempre di un judge-made system. Lo storico successo della Corte di Giustizia, il suo attivismo, il ruolo essenziale che ha esercitato nel processo di integrazione, sono lì a dimostrarlo. Nel campo dei diritti fondamentali, almeno fino al Trattato di Maastricht, la tutela giurisdizionale è stata definita dalla Corte in sostanziale assenza di ogni appiglio testuale. Una giurisprudenza dalle debolissime basi normative, che ha spesso operato in via surrogatoria rispetto alla decisione politica e in mancanza di ogni parametro di natura costituzionale. Ciò non ha impedito che una giurisprudenza più che ventennale riuscisse a definire un vero e proprio corpus di regole di diritto che, tradotte in principi, si sono poste alla base della successiva definizione dei testi politici di valore costituzionale: nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in primissimo luogo.

Se ci volgiamo al passato come non apprezzare alcune storiche decisioni che hanno certamente esteso la protezione nel campo dei diritti: il caso Schmitberger, il caso Omega, il delicatissimo caso che ha riguardato i Modjahedines del popolo, le questioni relative al cambiamento di sesso, solo per citare casi noti in cui le ragioni dei diritti fondamentali sono persino riuscite a prevalere su quelle del mercato, o dell’ordine pubblico, ovvero sulla stessa ragion di Stato. Se ci si rivolge al più recente passato, infine, come non apprezzare la sistematizzazione fornita dalla Carta di Nizza, elaborata – in nome degli Stati – da alcuni tra i più raffinati giuristi e intellettuali europei (Rodotà, Paciotti, Manzella, Melograni per parte italiana).

Eppure, proprio quando sembrava che finalmente tutti i diritti fondamentali inscritti nella Carta avessero ottenuto il massimo del riconoscimento da parte degli Stati (e dunque della politica) grazie al Trattato di Lisbona che li ha inclusi con il medesimo valore giuridico dei Trattati, ecco che è cominciata la rotta del diritto, che ha dovuto cedere il passo ai sacrifici imposti dalla congiuntura economica avversa. Lo riconoscono con chiara e delusa coerenza gli stessi maggiori sostenitori della Carta, quando, con realismo, rilevano si debba ormai prendere atto di come nell’Unione europea sia stata “capovolta” quella linea di riforma “costituzionale” per sostituire ad essa una sorta di “contro-costituzione”; quando denunciano l’abbandono dei diritti (di quelli sociali in particolare) da parte di tutte le istituzioni europee, ormai preoccupate esclusivamente del risanamento dei bilanci e dimentichi di quel che pure è scritto nel Preambolo e fatto proprio dall’Europa: “l’Unione pone la persona al centro della sua azione”; e poi ancora: essa “si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà”. Principi e parole che è difficile scorgere tra le priorità imposte alle politiche europee, ma anche a quelle nazionali, negli ultimi anni; politiche semmai indirizzate a limitare la portata dei diritti, ovvero a subordinane l’estensione alle ragioni degli equilibri finanziari. Il Fiscal compact europeo (assieme alle  Patto Euro plus e Six Pack del 2011, al Two Pack del 2013), ma anche la sua traduzione nazionale che ha portato ad una tanto rapida quanto improvvida modifica del nostro testo costituzionale (degli articoli 81, 97 e 119) sono lì a dimostrarlo. I tentativi – anche dell’attuale governo – di rinegoziare i criteri di stabilità in sede europea, nonché il ricorso immediato e continuato alla procedura in deroga, dettata per gli eventi eccezionali dal nostro articolo 81, definito immediatamente dopo aver posto in Costituzione il principio che impone (ma forse meglio sarebbe dire “imponeva” ovvero “imporrebbe”) di garantire un impossibile equilibrio tra le entrate e le spese, credo dimostrino in modo esemplare le difficoltà di rispettare le pur controverse regole del diritto. Provano, al di là di ogni polemica sul merito, le difficoltà oggettive in cui versa non solo l’economia, non solo la politica, ma anche il diritto.

Ma lasciamo perdere il Fiscal compact e vediamo come hanno reagito i giudici – fautori del cambiamento di ieri – alla crisi economica, ma anche politica degli ultimi anni.

È evidente che non si può generalizzare, né è opportuno sottovalutare le decisioni che ancora riescono ad assicurare ai diritti una garanzia a volte maggiore in Europa che non in ambito nazionale. Basta qui richiamare la recente decisione su Google, del 13 maggio, cha ha imposto il rispetto di diritti fondamentali previsti dalla Carta europea (agli articoli 7 e 8), i quali – ha scritto significativamente la Corte – “prevalgono sull’interesse economico degli operatori dei motori di ricerca”. Per non dire della decisione del 26 novembre scorso sulla contrarietà al diritto dell’Unione del rinnovo illimitato dei contratti a tempo determinato nella scuola. Un ruolo di garanzia dei diritti, dunque, la Corte di Giustizia riesce ancora a svolgerlo, tuttavia non può negarsi che la giurisprudenza europea sembra aver smarrito la sua forza propulsiva, mostrando sempre più vistose incertezze, arretrando in molti settori, soprattutto in ambito economico e sociale. Sul fronte più esposto, quello del lavoro, si vanno cumulando le decisioni che escludono l’applicabilità della Carta alle materie pur da essa disciplinate, facendo prevalere, al loro posto, gli altri “principi generali” del diritto comunitario – quello d’impresa, quello di stabilimento, quelli collegati al libero commercio, quelli legati ai meccanismi di stabilità – di cui la Corte si ritiene pure garante.

Sono noti i casi in cui quest’opera di bilanciamento (che è in qualche misura necessaria, e che la Corte ha sempre effettuato utilizzando il principio di proporzionalità) si è risolta in una netta inversione delle priorità, facendo prevalere gli interessi e le libertà commerciali sui diritti garantiti dalla Carta. Nel 2007 – l’anno d’inizio della crisi – fece scalpore la sentenza Viking, la quale affermò che, sebbene il diritto di sciopero e di azioni collettive fosse previsto all’articolo 28 della Carta, cionondimeno dovesse prevalere il diritto di stabilimento previsto dall’articolo 43 del TCE. A molti commentatori quella sentenza era apparsa un forte arretramento in materia di garanzie dei lavoratori e un colpo alla Carta, che a quel tempo doveva però ancora assumere uno status definitivo (il che avverrà solo con il Trattato di Lisbona com’è noto). Qualcuno ritenne si trattasse di un abbaglio, di un momento di sbandamento che non avrebbe inficiato né il valore della Carta, né la sensibilità della Corte al tema dei diritti fondamentali. Ma non si fece neppure in tempo a smettere di scrivere e di auspicare un ritorno alla strategia dei diritti, che una serie continua di sentenze lasciò tutti senza fiato. Pochi mesi dopo la Viking, la Laval, l’anno successivo la Rüffert, poi la Commissione contro il Granducato di Lussemburgo, poi contro la Repubblica Federale di Germania, sino a giungere alla più recente sentenza Pringle. Tutti casi diversi s’intende, ma identica è stata la tecnica utilizzata per abbandonare una frontiera divenuta troppo esposta, quella frontiera che aveva in altri casi, in un diverso clima culturale, politico ed economico, portata la Corte a far prevalere le garanzie dei diritti fondamentali. Il meccanismo reiterato nelle decisioni richiamate – che sono le più note, ma altre se ne potrebbero indicare – appare significativo: non si nega il valore normativo delle pretese (infatti, pressoché tutte le decisioni in materia di diritti richiamano ormai la Carta ovvero i precedenti giurisprudenziali che hanno enucleato i vari diritti), ma queste vengono liberamente bilanciate – in base ad un indeterminato principio di proporzionalità – con gli altri principi fondamentali della Comunità sanciti nelle tante norme dei Trattati. Tutte norme collocate sullo stesso piano. Nel gioco del libero bilanciamento dei giudici rientrano così, su un piano di parità formale, i diritti sociali, le libertà economiche, le misure restrittive di natura finanziaria e di risanamento.

Non credo possa stupire più di tanto se – perduto il loro statuto privilegiato – siano i diritti fondamentali (quelli sociali in primo luogo) a cedere il passo di fronte agli altri interessi costituiti entro il sistema europeo in crisi.

In molti confidano ancora sui giudici, e certamente anch’io tra questi. Si richiamavano in precedenza decisioni assai significative di segno diverso. Non può però negarsi che in questa fase la giurisprudenza appare assai oscillante, ondivaga direi (non solo quella europea, per la verità). Ma non si tratta a mio parere di aspettare da un giudice o da un giudizio la salvezza del diritto, non potranno essere i giudici a costruire l’Europa dei diritti e far recedere l’Europa dei mercati e della finanza, non saranno certamente i giudici, infine, a poter dare soluzione alla crisi nella quale siamo tutti precipitati e che sta portando l’Europa verso un futuro di egoismi e rigurgiti nazionalisti. Il judge-made system europeo ha mostrato i suoi limiti nel momento in cui la politica ha abbandonato i diritti. «I diritti diventano deboli – ha scritto Stefano Rodotà – quando diventano preda di poteri incontrollati, che se ne impadroniscono, li svuotano e così, anche quando dichiarano di rispettarli, in realtà vogliono accompagnarli a un malinconico passato d’addio. I diritti, dunque, diventano deboli perché la politica li abbandona. E così la politica perde se stessa, perché in tempi difficili, e tali sono quelli che viviamo, la sua salvezza è pure nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti». È qui che si colloca la questione di fondo, è qui che si apre la porta del futuro dell’Europa.

Sia detto con tutto l’improprio schematismo che una conclusione d’insieme richiede: siamo giunti ad un bivio, si tratta ora di scegliere tra a) una politica economica cieca ai diritti e propensa al sacrificio delle persone in nome delle libertà di mercato, dominata dai meccanismi di equilibrio dei bilanci pubblici; ovvero b) una politica dei diritti fondamentali che in nome della costituzione e del costituzionalismo moderno europeo riaffermi la centralità della persona, la prevalenza di alcuni principi quali quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà. Una superiorità dei diritti sui poteri (anche economici) che è un lascito del costituzionalismo moderno, che può rappresentare anche l’inizio di una nuova stagione per estendere all’Europa le conquiste di civiltà dei popoli europei. Certo bisognerebbe aver voglia di cambiare lo stato di cose presenti, mutare radicalmente le politiche e le ideologie che oggi appaiono prevalenti.

Non si tratta necessariamente di andare alla ricerca di un “nuovo modello di sviluppo”, ma – come ci ammoniva Federico Caffè – “riprendere il cammino avviato con la stesura della nostra Costituzione che è fondata sulla dignità del lavoro e che sancisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Mi sia consentita una battuta che non appaia irriverente: Caffè e la costituzione un ottima accoppiata per il futuro dell’Europa.

* Questo è il testo del mio intervento al seminario “Quale futuro per l’Unione europea?”, tenutosi il 5 dicembre 2014 presso la Facoltà di Economia, Università “La Sapienza” di Roma, in occasione del centenario della nascita di Federico Caffè. Di questo grande maestro ho un ricordo del tutto personale che vorrei richiamare perché credo testimoni del fascino che egli esercitava al di là della stretta cerchia degli economisti.
Al tempo ero iscritto al secondo anno di giurisprudenza, tra gli esami non giuridici c’era anche quello di politica economica tenuto nella nostra facoltà da un pur bravo docente. Nel piano di studi di legge l’esame di politica economica era un complementare, non difficile. In sostanza uno di quegli esami di cui prima ci si libera meglio è. Avevo previsto di prepararlo durante le vacanze di natale, dopo aver seguito alcune – poche – lezioni tenute nella mia facoltà. A novembre venni a sapere per puro caso che nella vicina Facoltà di economia avrebbe tenuto la prima lezione del suo corso annuale Federico Caffè, il cui nome conoscevo per aver letto alcuni suoi articoli, che mi erano sembrati interessati, su un quotidiano al quale allora collaborava. Per curiosità, non avendo niente di meglio da fare quel pomeriggio, andai a sentire la lezione. Ne rimasi affascinato, rinviai l’esame di alcuni mesi e mi misi a seguire il corso tenuto da quel piccolo grande docente. Credo che questa non sia solo uno storia di fascinazione personale, ma sia sintomatico della capacità di Federico Caffè di trasmettere cultura a chiunque lo stesse ad ascoltare.

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