I delitti dei colletti bianchi ai tempi del COVID 19

Elisa Pazé, basandosi sulle tesi esposte nel suo ultimo libro Anche i ricchi rubano (Edizioni Gruppo Abele, 2020) analizza, riferendosi anche all’attuale emergenza da COVID-19, i principali crimini dei colletti bianchi, furti, truffe, ma anche omicidi, e il tormentato rapporto fra magistrati e politici, ribaltando il luogo comune che i soli delitti meritevoli di attenzione siano quelli di strada, essendo viceversa la comunità civile danneggiata soprattutto dai comportamenti dei ricchi e dei potenti.

La cronaca di queste settimane, connotate dall’emergenza coronavirus, se da un lato ha  evidenziato un drastico calo della criminalità di strada (furti, rapine, scippi, e anche spaccio di stupefacenti), conseguente alla chiusura dei centri abitati e alle limitazioni della libertà di uscire di casa, dall’altro ha ridato visibilità alla delinquenza dei colletti bianchi, palesando che la devianza non è prerogativa dei ceti disagiati o degli stranieri irregolari.

Hanno riscosso attenzione almeno tre categorie di comportamenti illeciti:  l’evasione fiscale, la violazione delle regole in materia di sicurezza sul  lavoro, le inique pratiche di arricchimento del mondo delle banche e della finanza.

1. La spaventosa evasione fiscale che c’è nel nostro paese ovviamente non è stata la causa della pandemia, ma ne ha certamente aggravato gli effetti per via della riduzione negli ultimi anni di presidi ospedalieri, di posti-letto e del personale medico ed infermieristico, motivata con la asserita mancanza di risorse. Per di più, mentre si sacrificava la medicina sul territorio e si immiserivano le prestazioni erogate dai nosocomi riducendone la richiesta con le loro prenotazioni a tempi biblici, il servizio sanitario nazionale finanziava generosamente con lo strumento delle convenzioni le strutture private (in Lombardia si è affermato un vero e proprio sistema misto), in cui gli imprenditori hanno inevitabilmente privilegiato ciò che rende (e i reparti di terapia intensiva sono poco remunerativi).

Certo, proprio l’utilizzo di fondi pubblici per potenziare il settore privato mostra che fare pagare le tasse non basta: pur con un maggiore gettito fiscale, si possono perseguire comunque politiche neoliberiste e utilizzare i proventi delle imposte per favorire gli amici, oppure dirottarne una parte irragionevole sugli armamenti. Ma almeno, con un sistema tributario più equo ed efficiente, non ci sarebbe la giustificazione che i soldi per i servizi e per gli strati sociali poveri non ci sono, e anche proposte del tutto condivisibili avanzate per reperire risorse, come quella fatta balenare e subito ritirata di un “contributo di solidarietà” a carico di coloro che hanno redditi più alti, non si presterebbero all’obiezione che in Italia chi guadagna di più spesso non lo dichiara.

Il punto è che una lotta seria all’evasione fiscale dovrebbe fare leva soprattutto sullo strumento penale, mentre ormai da decenni nel campo del diritto tributario la parola d’ordine è depenalizzare il più possibile, ritenendo sufficienti le sanzioni amministrative e la confisca del profitto illecito. Così a partire dal 2000 sono state introdotte per gran parte dei reati delle soglie di punibilità (che nel tempo hanno subito diverse oscillazioni, al rialzo o al ribasso) e hanno continuato a susseguirsi i condoni, tanto che anche per la fase post-coronavirus vi è chi ha prospettato nuovamente un condono fiscale o una drastica riduzione delle tasse, come se poi medici e infermieri vivessero d’aria. Neppure si è cercato di arginare in qualche modo il trasferimento delle sedi delle maggiori società italiane in paradisi fiscali (fra cui l’Olanda, che oggi invoca rigore e chiude alla proposta di aiuti comunitari ai paesi europei colpiti dalla pandemia), con il risultato che gli accertamenti tributari sono più difficili, quando non addirittura impossibili, e che i grandi gruppi imprenditoriali godono di una fiscalità ridotta che per giunta è sottratta al paese dove la ricchezza è prodotta.

2. Un’altra criticità emersa con l’emergenza coronavirus è l’insensibilità per la tutela della salute dei lavoratori. Le richieste che si sono levate dal mondo imprenditoriale, quando ancora l’epidemia era in pieno corso con tassi di mortalità altissimi, per una rapida ripresa delle attività produttive in nome dei cittadini che non riuscivano ad arrivare a fine mese, hanno riproposto prepotentemente, sotto profili inediti, il problema del livello di protezione sanitaria che le aziende devono assicurare ai dipendenti che riprendono a lavorare, per evitare che si ammalino e facciano ammalare i propri congiunti.

È lo stesso dilemma, quello dell’alternativa fra lavoro e salute, che è stato pretestuosamente posto negli ultimi anni per l’acciaieria Ilva di Taranto, e che ha portato nel 2015 addirittura ad assicurare uno “scudo penale” ai gestori dello stabilimento, come se lì non si potesse pretendere il rispetto delle regole in materia di tutela dell’ambiente e della incolumità che valgono per tutte le altre imprese, mentre i tarantini continuano ad ammalarsi e a morire.

Ci sono poi altri profili relativi alla sicurezza emersi a fronte della morte di medici e di infermieri impegnati in prima linea negli ospedali a curare e assistere i malati di coronavirus e privi di adeguati strumenti di protezione. Per una volta, si è parlato dei medici non quali responsabili di mala sanità, ma come vittime della mala-organizzazione della sanità.

Problemi peculiari si sono infine posti per gli anziani ricoverati nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA), introdotte in Italia a metà degli anni novanta e moltiplicatesi in breve per l’alto rendimento che assicurano. In tempo di pandemia, politici poco accorti e amministratori interessati ad aumentare i profitti grazie a rette molto elevate hanno rispettivamente inviato e accolto in tali strutture pazienti infetti, mettendoli in contatto con persone di età avanzata e già affette da altre patologie, moltiplicando così i decessi. È uno scandalo su cui i magistrati dovranno valutare se siano stati commessi fatti penalmente rilevanti e che ha a monte la questione della natura e della qualità dei servizi offerti dalla fiorente industria dell’assistenza ai non autosufficienti.

3. Ancora, l’emergenza coronavirus induce qualche considerazione sul minimo etico che dovrebbe essere chiesto alla finanza e al sistema bancario.

Per favorire la ripresa, dopo settimane di chiusura, lo Stato ha immesso liquidità prevedendo, fra l’altro, garanzie pubbliche per piccoli prestiti fatti dagli istituti di credito alle imprese. Si è trattato di misure obbligate, perché la gente quando è disperata è costretta a ricorrere a prestiti privati a tassi usurari o ad accettare aiuti dalle organizzazioni di stampo mafioso, le quali chiedono quale contropartita di affiancarsi nella gestione dell’azienda e inquinano il tessuto economico del paese. E tuttavia, per guadagnarci in una fase di tempesta, è accaduto che banche di pochi scrupoli abbiano imposto ai clienti, che avevano diritto ad erogazioni rapide e senza condizioni, vincoli aggiuntivi e clausole capziose volte a coprire le banche stesse da  prestiti precedenti.

L’esperienza degli ultimi anni dimostra che prassi scorrette, ancora più gravi, sono tutt’altro che eccezionali, anche nei periodi di bonaccia, e che, nonostante gli obblighi di informazione sempre più stringenti posti dalla normativa comunitaria, il nostro sistema penale è largamente inadeguato a contrastare i raggiri posti in essere dagli istituti di credito ai danni dei risparmiatori, in genere sprovveduti, nei cui confronti è agevole mettere in atto operazioni espropriative (acquisto o vendite sconvenienti di titoli, con il carico aggiuntivo degli oneri di compravendita) raccontando mezze verità e tacendo accuratamente gli svantaggi. La linea di confine fra reati veri e propri e comportamenti spregiudicati che fanno parte del gioco è sottile, perché una dose di alea è connaturata al mercato finanziario e nessun intermediario è in grado di garantire il risultato economico auspicato, ma il grande problema è che i limiti del lecito di frequente vengono oltrepassati e che la tutela offerta ai risparmiatori dal diritto penale tradizionale, con le figure della truffa e della appropriazione indebita, appare del tutto insufficiente.

Non vi sono adeguati argini al malaffare neppure a livello amministrativo. Le autorità preposte alla vigilanza sul settore, la Consob e l’Ivass, non si occupano dei piccoli raggiri e in occasione dei grandi scandali sono sempre intervenute in ritardo comminando sanzioni ridicole, né sono state chiamate a rispondere delle loro omissioni nonostante nel 2006 sia stata prevista la responsabilità per dolo o colpa grave dei componenti degli organi di vigilanza che abbiano cagionato danno a terzi.

4. A questi sommari spunti di riflessione se ne potrebbero aggiungere molti altri, perchè le grandi crisi sono sempre momenti in cui un paese dà, oltre al meglio di sè, anche il peggio.

L’epidemia Covid può però costituire, sotto il profilo della politica criminale, una grande occasione per maturare a livello diffuso la consapevolezza che i danni sociali più grossi alla collettività non sono causati dalla criminalità di strada o dalla immigrazione irregolare, ma dai comportamenti illeciti delle classi dominanti.

È una battaglia culturale difficile, perchè ai ricchi si perdona molto, troppo. Nelle società di capitalismo avanzato come la nostra c’è una tolleranza ideologica per la criminalità dei colletti bianchi, giustificata con la necessità di non inceppare l’economia, e i loro reati godono, se non di vero e proprio consenso sociale, di un certo grado di acquiescenza. Su un piatto della bilancia si mettono gli effetti negativi delle condotte illecite, sull’altro – ben più pesante – i benefici che i comportamenti delittuosi apporterebbero alla collettività: non investire in sicurezza sul lavoro o in misure antinquinamento consente di assumere un maggior numero di persone; non pagare le tasse aumenta il denaro in circolazione e favorisce la crescita.

È la stessa logica dell’impresa che tende indirettamente a normalizzare la devianza. L’economia di mercato, improntata in astratto a principii anti oligopolio e alla tutela della concorrenza, induce ad una competizione sfrenata, spinge ad oltrepassare i margini della legalità. Si celebra chi vince, non chi vince secondo le regole. Questo fenomeno si è oggi accentuato, tant’è che fra gli studiosi è entrata in voga l’espressione “capitalismo estrattivo”, per indicare l’accaparramento di ricchezze naturali da parte dei potentati economici senza pensare alle compatibilità ambientali e alle generazioni future, ma anche la “spremitura” dei lavoratori, cui vengono imposti ritmi sempre più alienanti, ciò che da un punto di vista storico e della civiltà costituisce un notevole regresso.

Viceversa, nel senso comune prevale ancora l’idea che i delinquenti siano gli appartenenti alle classi sociali disagiate. L’associazione mentale biunivoca fra miseria e criminalità è favorita da diversi fattori. Il primo è la semplicità dei comportamenti che caratterizzano i reati dei poveri, elementari e sempre uguali, di immediata percezione. Le condotte delittuose di ricchi e potenti sono invece meno convenzionali, più originali e sfumate e molte norme che le sanzionano sono scritte appositamente in modo contorto, per consentire smagliature che le rendono di fatto inapplicabili. In questo modo, facendo leva anche su un sistema processuale inefficiente, si moltiplicano le vie di fuga.

Una seconda ragione della difficoltà di comprendere appieno i reati dei colletti bianchi risiede nella distanza temporale fra condotta ed evento. Paradigmatico è il caso delle malattie professionali – Covid a parte –, che si manifestano ad anni di distanza dall’inizio della attività lavorativa, quando ormai si pensa alla pensione, con tutte le conseguenti difficoltà non solo di accertare le cause della patologia ma anche di dare un volto ai responsabili. Accade così che per morti atroci, dall’origine ben precisa, si maledica il destino.

Ma lo stesso vale per altre categorie di reati: come ricollegare i tumori sempre più diffusi alla produzione su scala industriale di carne piena di ormoni e fitofarmaci? e i suicidi dei risparmiatori che hanno perso tutto al falso in bilancio? Per non parlare dell’evasione fiscale e della corruzione: difficile cogliere il nesso fra mancato pagamento delle tasse, dazione di tangenti, e le buche nelle strade, le file d’attesa negli ospedali e il peggioramento della qualità della vita.

E ancora, una ragione che determina una visione deformata è l’enorme divario di risorse materiali e immateriali fra datori di lavoro e lavoratori, fra grandi gruppi finanziari e piccoli investitori. Nel nostro Paese, con poche eccezioni, la proprietà dei mezzi di comunicazione è concentrata nelle mani di quegli stessi che sono causa dei problemi e l’attenzione riservata alle persone offese da alcune tipologie di illeciti è perciò minima. Giornali e televisione enfatizzano omicidi e violenze, che spesso vengono presentati come prima notizia, mentre dedicano spazi marginali a morti e infortuni sul lavoro, così distorcendo la percezione della criminalità. I delitti dei potenti sono a tutti gli effetti reati “predatori”, come quelli di strada, ma si fa credere che siano meritevoli di considerazione solo quelli commessi dai poveri e dagli emarginati, nei confronti dei quali la stretta repressiva è sempre più accentuata.

È per l’insieme di questi fattori che le vittime dei colletti bianchi, la larga maggioranza della popolazione, non si rendono conto di essere tali. Mentre chi subisce uno scippo si sente defraudato di un bene, chi si ammala perché ha respirato per anni aria inquinata non si accorge dei danni subiti. E pensa che “criminali” siano solo zingari, extracomunitari, sbandati di ogni sorta.

 

*Questo articolo si basa sulle tesi esposte nel mio libro Anche i ricchi rubano (Edizioni Gruppo Abele, 2020).

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