I dati: un caso di mercato mancante?

Maurizio Franzini dopo aver brevemente ricordato che la possibilità dei giganti dell’economia digitale di accedere gratuitamente ai dati personali fa nascere problemi in numerosi ambiti – libertà, equità, efficienza e democrazia - illustra le possibili soluzioni, distinguendo quelle di carattere normativo da quelle ispirate a logiche di mercato. In particolare, Franzini prende in esame la proposta radicale di istituire un vero e proprio mercato dei dati, sottolineandone le potenzialità ma anche le inevitabili difficoltà di realizzazione.

Nel mondo dell’Intelligenza Artificiale c’è un problema che si sta facendo sempre più serio e che sembra attrarre – finalmente – l’attenzione che merita. Ne ha scritto di recente sul Menabò, Fabio Massimo Zanzotto formulando anche un’interessante proposta sulla quale mi soffermerò più avanti.

Il problema è quello dello sfruttamento dei dati e delle conoscenze prodotte da umani inconsapevoli di cui altri umani consapevoli si appropriano “silenziosamente” e gratuitamente (Zanzotto senza troppe remore parla di “furto”) e con essi accumulano straordinarie ricchezze e non soltanto questo. Elencando di cosa si tratti sarebbe forse opportuno distinguere il caso dei dati da quello delle conoscenze ma un po’ di approssimazione sarà giustificata in queste brevi note.  Dunque, l’appropriazione silenziosa e sostanzialmente gratuita di dati e conoscenze mina la libertà individuale, che non può esistere senza una rigorosa protezione della privacy e senza un doveroso rispetto per la formazione delle preferenze di ciascuno; altera il funzionamento della concorrenza nonché di istituzioni essenziali per la democrazia; mette in pericolo il futuro del lavoro umano; impedisce – come dirò meglio in seguito – il raggiungimento dell’efficienza e altro ancora. Difficilmente tutto ciò può essere bilanciato dai vantaggi consentiti da quel “baratto forzato” che consiste nel cedere dati e conoscenze in cambio dell’accesso alla rete.

A questo “baratto”, come si può leggere in Radical Markets di E. Posner e E. Weyl (Princeton University Press, 2018), si è giunti percorrendo un sentiero che dall’originaria esperienza della piattaforma collaborativa in ambito militare e accademico, si snoda agilmente dietro l’idea – presto radicatasi nella Silicon Valley – che   “l’informazione vuole essere libera”, incrocia, poi, lo scoppio della bolla dot.com e da lì si impenna tra le difficoltà di trovare una soluzione al problema delle entrate. Questa soluzione non poteva che ruotare attorno agli users.

Page e Brin, padri di Google, considerarono seriamente l’ipotesi di far pagare l’accesso alla rete e fecero affermazioni da cui si poteva desumere che per loro la pubblicità fosse come il fumo negli occhi. Ma presto tutto cambia. Forse perché si afferma la consapevolezza che uno dei segreti del successo sta nell’ampiezza del network, e la “tassa” ne ridurrebbe l’espansione; forse perché si comprende che l’accesso ai dati e alla loro profilazione apriva nuove strade – anzi , autostrade – al business della pubblicità. Si giunge, così, a questa sorta di “baratto forzato” che richiama miliardi di persone “affascinate” da quelle che Lanier in Who Owns the Future (Simon & Schuster, 2013) chiama le Siren Servers, cioè i “suadenti” giganti della rete.

Liberamente accendiamo il nostro smartphone e “liberamente” nel senso che non subiamo alcuna coercizione fisica mettiamo masse enormi di dati a disposizione di un processo che permetterà a chi li utilizza stratosferici profitti e immenso potere. I dati, come ha scritto l’Economist, sono il petrolio del XXI secolo. Un petrolio che come la manna dal cielo (o come il bottino di un furto riuscito) costa zero o quasi a chi ne dispone.

La pubblicità, questo fenomeno invasivo che sostiene commerci spropositati ma che non ha praticamente spazio nelle teorie che narrano le virtù dei mercati, è la maggiore responsabile di tutto questo. Ma, come scrive giustamente Zanzotto, vi è altro: l’appropriazione (gratuita) di dati e di conoscenze umane a vantaggio del Machine Learning, cioè del miglioramento delle performance dell’Intelligenza Artificiale. Al di là di quello che si è già detto, si tratta di una forma quanto mai sleale di concorrenza della macchina (in realtà degli uomini che la governano e la possiedono) nei confronti dell’uomo. E che questo avvenga in un’epoca di fortissima tutela dei diritti di proprietà intellettuale (di cui beneficiano non poco le Siren Servers) potrebbe, ingenuamente, essere considerato paradossale.

Ma, come dicevo, il fronte dei preoccupati per questo stato di cose si ingrossa ed è interessante osservare che i preoccupati sono di diversa specie. C’è chi si preoccupa per la limitazione delle concorrenza (è il caso dell’Economist); chi per le violazioni della libertà e della privacy; chi per gli arricchimenti ingiustificati; chi per i rischi di perdita di lavoro e anche per l’efficienza riferita specificamente ai dati. Il ragionamento è semplice ed ha a che fare con gli incentivi: se i dati non sono pagati chi li produce non avrà alcun incentivo a migliorarne la qualità e questo si riflette, a seconda dei casi, sulle possibilità di progresso del Machine Learning o di migliorare la qualità dei servizi – latu sensu – offerti sulla rete.

Sembra, però, che ci sia anche chi cerca di trarre vantaggio da questa situazione, promettendo compensi ai fornitori di dati. Se non ho inteso male questo è il caso di una piattaforma (che preferisco non nominare, ma magari ce ne saranno altre) che cerca di attrarre users promettendo di trasferire loro parte dei ricavi che la piattaforma stessa conseguirà sfruttando a scopo pubblicitario i dati che “lascia” sulla piattaforma chi la utilizza. Si legge che “un’app consentirà agli utenti di acquistare o vendere qualsiasi prodotto a un prezzo prefissato o partecipando a un’asta e utilizzando sia le monete tradizionali che la nostra criptovaluta (perché c’è anche questa). Inoltre, caso unico, gli utilizzatori riceveranno parte dei ricavi derivanti dalla pubblicità”. Il minimo che viene da dire è che il meccanismo non sembra molto trasparente. Ma passiamo alle preoccupazioni e soprattutto alle strade che i preoccupati suggeriscono di imboccare. A grandi linee le strade sembrano essere due. Quella delle norme e quella del mercato. Esaminiamole brevemente.

Nella strada delle norme rientra la General Data Protection Regulation della Commissione Europea. Non entro nell’analisi di questo regolamento – non avrei neanche le competenze per farlo – ma escluderei che i problemi di varia natura elencati in precedenza (ed in particolare quelli di efficienza e di impatto sul lavoro e l’equità) possano essere risolti con un approccio normativo e centralizzato come questo.

Su questa stessa strada, ma con significative differenze, sembra collocarsi un’interessante iniziativa che è in corso di svolgimento in California. Si tratta di una proposta di legge, il California Consumer Privacy Act 2018, che ha come elemento distintivo il riconoscimento al possessore dei dati del diritto di impedire, per qualsivoglia motivo, il loro utilizzo. Lo Stato della California deve decidere l’ammissibilità di questa proposta alle elezioni che si terranno in novembre. Intanto si sta, prevedibilmente, organizzando la controffensiva di chi ne sarebbe danneggiato. Una controffensiva (come si legge sul New York Times del 15 maggio) che sta piazzando le sue munizioni: milioni di dollari e milioni di posti di lavoro che inevitabilmente si perderanno se la legge venisse introdotta (non a caso la campagna si chiama Protect California Jobs). Indipendentemente dall’esito che avrà questa campagna è interessante notare che la proposta riconosce il diritto del “proprietario” dei dati a bloccarne l’utilizzo ma non va oltre questo. Va oltre, invece, la proposta radicale di istituzione di un vero e proprio mercato dei dati.

Questa proposta si trova nel già citato libro di Posner e Weyl e in contributi che in vario modo ad esso si collegano come ad esempio quello di Arrieta et al. di prossima pubblicazione sull’American Economic Review. L’idea è di costruire un mercato concorrenziale nel quale si fronteggiano i produttori di dati (lato dell’offerta) e i loro utilizzatori (lato della domanda). Con un po’ di ottimismo si potrebbe sostenere che tutti o quasi i problemi che ho elencato in precedenza troverebbero soluzione. Il produttore sceglierebbe se “vendere” i dati (ede eventualmente produrli) in una condizione di sostanziale libertà, il prezzo rifletterebbe (anche) il costo della produzione del dato e questo potrebbe dare soluzione ai problemi di efficienza di cui si è detto, il pagamento dei dati limiterebbe notevolmente le possibilità di stratosferico arricchimento degli utilizzatori e, infine, dal lato degli utilizzatori potrebbero affacciarsi nuovi e più numerosi soggetti con vantaggi per la concorrenza.

I proponenti insistono molto su un altro aspetto di questa soluzione: essa permetterebbe di considerare la produzione di dati un vero e proprio lavoro e potrebbe così premiare anche quei giovani che hanno sviluppato competenze nell’interazione digitale oggi considerati non lavoratori ma consumatori di servizi digitali. Il tema meriterebbe un approfondimento ma è certo degno di attenzione il tentativo di trovare nuovi ambiti di riconoscimento e valorizzazione del lavoro nel mondo digitale.

Come è facile verificare, si tratta di proposte che non sono realizzabili da un giorno all’altro. Ma i tempi lunghi non dovrebbero essere considerati un impedimento assoluto, vista la natura e la rilevanza del problema. L’importante è imboccare la strada giusta e con la piena consapevolezza dei problemi. E a questo proposito non si può mancare di ricordare che per funzionare bene i mercati hanno bisogno di numerose condizioni e soprattutto di due: una chiara definizione dei diritti di proprietà e un sistema in grado di assicurare il rispetto delle norme, quello che si chiama spesso enforcement. Nel mercato che è stato ipotizzato i diritti di proprietà sono – giustamente – assegnati ai produttori di dati. Questo è sufficientemente chiaro. Meno chiaro è come si potrebbe garantire l’enforcement. Qui torno alla proposta di Zanzotto, alla sua Human-in-the-loop Artificial Intelligence (HitAI) che potrebbe avere un ruolo importante all’interno di una soluzione di mercato perché, come egli scrive, sostanzialmente essa permette di controllare la circolazione e l’utilizzo dei dati, eventualmente utilizzando la tecnologia del Blockchain.

In conclusione, mercati e tecnologia possono servire a dare soluzione a un problema (e più di uno) che hanno creato proprio i mercati e la tecnologia. La condizione indispensabile per realizzare questo rovesciamento è che un’attività inevitabilmente umana, quella della ricerca delle soluzioni “politiche”, venga svolta nel miglior modo possibile.

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