I cento giorni di Obama

Analizzare i primi 100 giorni di una nuova amministrazione americana (e noi siamo già a 130, quindi abbiamo qualche elemento in più) è divenuta una convenzione a partire dalla presidenza di Franklin Delano Roosevelt, quando il nuovo Presidente varò le riforme decisive del primo New Deal. Prima di allora il punto di riferimento era la cronaca di un fallimento, i 100 giorni che andavano dal ritorno a Parigi di Napoleone, dopo la fuga dall’Elba, fino alla restaurazione dei Borbone. In 100 giorni, insomma, di cose ne possono succedere.

Da allora è cambiato tutto, ma i 100 giorni rimangono l’unità di misura per osservare cosa un presidente ha fatto, avviato, dichiarato. Intanto, nei primi mesi della nuova amministrazione sono stati aperti un’enorme quantità di fronti: la semplice dichiarazione di impegno su alcuni temi è stato di per sé elemento di rottura. Obama sembra essersi impegnato nel mettere a frutto qui e ora l’enorme capitale politico accumulato durante la campagna elettorale, colpendo l’avversario repubblicano mentre è ancora a terra, usando quando necessario, tatticismi e sotterfugi (piccoli e grandi, come “l’acquisto” del senatore repubblicano della Pennsylvania Arlen Specter, che è divenuto democratico proprio allo scadere dei 100 giorni), mostrandosi disposto a fare retromarcia e cambiare opinione quando lo crede inevitabile, come nel caso del mantenimento dei tribunali militari che giudicheranno i detenuti di Guantanamo. Tra un anno si vedrà cosa è rimasto effettivamente impigliato nella rete, i temi sui quali continuare a puntare e le battaglie da abbandonare. Nel frattempo, l’agenda dell’amministrazione Bush non esiste più, è come se Obama potesse scrivere su una lavagna di scuola completamente ripulita.

Ha ereditato da Bush i problemi del passato (un’enormità di problemi, teniamolo a mente: la più grave crisi economica mondiale dagli anni ’30 e due guerre), ma può scegliere per conto proprio quali culture utilizzare per affrontarli – ed è questa la grande potenzialità che offre l’implosione del trentennio conservatore. Ora, teniamo per comodità la dicotomia politica interna/politica estera e proviamo a fare l’elenco dei fronti aperti, a cominciare da quest’ultima: la “chiusura” della guerra in Iraq; il conflitto afgano-pakistano; la tenuta e il rilancio della Nato, in crisi a causa del perdurare del conflitto afgano e delle divergenze sul tema dei rapporti con la Russia di Putin; l’avvio del processo di disarmo nucleare, portato avanti attraverso il dialogo con Mosca; la ricucitura dei rapporti con l’America latina, dove avanza la potenza regionale brasiliana; il dialogo con l’Iran; l’impegno nella ricerca di una soluzione al conflitto israelo-paelstinese.

Mondo arabo, Iran e conflitto afgano-pakistano (quello che Bush chiamava Grande Medio Oriente), sono ovviamente le questioni più importanti. Obama ha concesso la sua prima intervista televisiva da Presidente al network arabo Al Arabiya, subito dopo il ritiro israeliano da Gaza. Una guerra avvenuta nel vuoto di potere e di credibilità come problem solver della politica internazionale che gli Stati Uniti vogliono provare a colmare rivolgendosi direttamente al mondo arabo e alla potenza regionale in ascesa, l’Iran. Riappropriarsi di quella che Aaron Miller ha definito “la mistica del mediatore” è il primo passaggio, frutto però di un approccio realista: coinvolgere l’Iran nella soluzione del problema iracheno e di quello afgano mentre si scommette sulla normalizzazione dei rapporti tra i due paesi; contemporaneamente riavvicinarsi alla Siria perché essa allenti i propri rapporti con Teheran; tenere sotto controllo l’estremismo israeliano; ricucire i rapporti con la Turchia. Buon senso o gioco d’azzardo? Comunque vada, un’interessantissima miscela di realismo e ambizione.

Non si può dire lo stesso del Pakistan e dell’Afghanistan. Viene da pensare che l’invio di nuove truppe e l’impegno massiccio sul fronte – ormai unico – di questi due paesi possa essere stato uno strumento di compensazione rivolto a chi temeva, durante la campagna elettorale, un approccio troppo “pacifista”. All’annuncio elettorale è seguita una politica di rafforzamento dell’azione militare, diplomatica e politica degli Usa, molto evidente a partire da fine marzo. Esistono delle analogie tra il Vietnam e l’escalation in quello che a Washington chiamano Afpak (o Pakaf, a seconda che riteniate più importante un paese o l’altro): risuona, per esempio, l’idea della “vietnamizzazione del conflitto”, che porta in Afghanistan un numero sempre maggiore di soldati e di investimenti nelle infrastrutture militari locali: dovrebbero aiutare gli afgani a fare presto da soli, mentre ottengono l’effetto opposto di inchiodare gli Usa sul terreno. Sull’altro fronte, quello pakistano, si scimmiotta la tecnica israeliana dell’eliminazione dei leader terroristici, anche se il costo è l’alienazione della popolazione locale nei confronti del governo americano e di quello pakistano: per ogni talebano ucciso i morti civili sono cinquanta. E manca una via d’uscita politica.

Proprio la politica, al contrario, è tornata ad accoppiarsi alla parola economia. Come ha scritto Martin Wolf, “gli Usa sono tornati a essere il paese più keynesiano del mondo”, questa volta affiancati dalla Cina, l’altro gigante keynesiano dei nostri giorni. Quali sono in questo caso i fronti aperti dall’amministrazione e dal nuovo Congresso? Il costosissimo e controverso salvataggio del sistema bancario, al quale però non sta ancora corrispondendo il sostegno del credito all’impresa; la pianificazione federale di una politica industriale cruciale come quella del settore auto; la riconversione verde dell’economia americana attraverso specifiche politiche di indirizzo; il rilancio del sistema della formazione attraverso un finanziamento da 100 miliardi di dollari; la creazione di un sistema sanitario nazionale più equo, che protegga anche chi resta senza lavoro e che abbatta i costi di un modello assolutamente inefficiente; politiche di sostegno – locali e nazionali – per chi rischia di subire il pignoramento dei beni e della casa (una piaga sociale alla quale il governo fa fatica a far fronte); la discussione sulla proposta di legge che dovrebbe eliminare gli ostacoli alla sindacalizzazione di buona parte delle imprese americane (il lavoro salariato, come in realtà avveniva anche prima della crisi, è la grande vittima di questa epoca di contrazione economica); l’impegno per il rafforzamento delle infrastrutture del paese, a partire dal sistema ferroviario e in particolare di quello della dorsale del Pacifico; l’annuncio della riforma che allevierà il peso degli interessi sui debiti contratti dagli americani attraverso le carte di credito – tante, troppe – presenti nel loro portafoglio.

Ma questo è solo un elenco, che rischia addirittura di essere incompleto. Si può approfondire una delle tante storie che l’America ci offre come quella dell’accordo Obama – Fiat, ovvero il ritorno della grande politica industriale, fatta di scelte di lungo periodo e di pianificazione in investimenti e tecnologie che hanno a che fare con l’intero sistema-paese. In questo caso, pragmaticamente, gli Stati Uniti scelgono di importare il management e tenere la manodopera – e questa è già una notizia – secondo le direttive imposte da Washington; la trattativa viene portata avanti direttamente dal governo, che detiene una doppia leva di pressione: quella del credito – le imprese verso le quali la Chrysler è debitrice dipendono dal governo federale per la propria sopravvivenza, ed è quindi Washington a stabilire quanto esse effettivamente “chiederanno” indietro alla società di Detroit – e quella dell’impegno diretto a farsi garante nei confronti dell’investitore straniero. Non solo, da questo accordo si osserva quale nuova forma assumono oggi i processi di internazionalizzazione dell’economia: la strada per la fusione e la ristrutturazione delle grandi aziende globali passa per lo scambio di tecnologie, non certo attraverso il ricorso al debito e alle banche per procedere all’acquisto di grandi pacchetti azionari. Un baratto di risorse e non di cambiali.

Da un anno il modello del capitalismo finanziario americano è sotto processo, ed è evidente che ne uscirà trasformato tanto quanto il paese che lo ha promosso. Le conseguenze si sentiranno anche sul piano politico, dove è plausibile supporre che l’America divenga il paese del “primato senza egemonia”. Le considerazioni da fare sono semplici: non si potrà più mantenere un sistema di crescita basato sull’indebitamento sregolato dei singoli cittadini e delle aziende, ignorando la necessità del sostegno al reddito e alla redistribuzione della ricchezza; quest’ultimo avverrà, di fatto, attraverso un processo di civilizzazione del sistema sociale americano, più tasse ai ricchi (con aumenti moderati, in realtà) e più stato sociale, dentro la cornice culturale del modello di welfare state americano; si cercherà di rendere più “saggio” il modello di sviluppo economico americano, che non può più permettersi di saltare da una bolla speculativa all’altra. Più che la fine del capitalismo, una ventata di saggezza – speriamo duratura – per un’America più sobria e responsabile, forse più per necessità che per scelta.

Schede e storico autori