Human Technopole: dopo le critiche (fondate) la Legge di Stabilità prova a correggere il tiro

Francesco Sinopoli esamina il progetto del governo sullo Human Technopole, la nuova infrastruttura di ricerca che dovrà operare nei settori della salute, della genomica, dell’alimentazione e della scienza dei dati e delle decisioni. Sinopoli ricorda le critiche mosse alla versione originaria del progetto e segnala che, anche se la legge di Stabilità ha tentato di rispondere ad alcune di esse, resta la domanda di fondo e cioè quale sia la politica della ricerca e dello sviluppo in cui il progetto si iscrive.

Tra i progetti più discussi del passato governo c’è lo Human Technopole, una nuova infrastruttura di ricerca nei settori della salute, della genomica, dell’alimentazione e della scienza dei dati e delle decisioni che verrà collocata in una piccola porzione dell’area Expo, affidando un ruolo centrale nel coordinamento e nella gestione delle risorse alla fondazione IIT (Istituto Italiano di Tecnologia).

Il progetto presentato a suo tempo con grande enfasi dal Presidente del Consiglio Renzi ha subito ricevuto critiche dalla comunità scientifica. In particolare, è stato sottolineato come un investimento – notevole per il panorama della ricerca italiana, da sempre sottofinanziata – circa un miliardo di euro in 10 anni, fosse deciso senza alcun confronto con la comunità scientifica, al di fuori di qualunque piano nazionale della ricerca, assegnando il coordinamento e la gestione delle ingenti risorse a una fondazione di diritto privato, senza alcun bando pubblico. Dal punto di vista finanziario, al Tecnopolo verrà infatti assegnata una cifra enorme se paragonata ai bilanci attuali degli enti di ricerca. Basterebbe ricordare che il più grande ente pubblico di ricerca italiano, il CNR, con 8.400 dipendenti e migliaia di precari, ha un bilancio di circa 506 milioni di euro che appare inadeguato da molti anni.

In particolare la Senatrice a vita e scienziata Elena Cattaneo ha sottolineato come la progettazione e la realizzazione di un imponente polo tecnologico non si possa improvvisare ma debba avvenire “a valle di consultazioni pubbliche, elaborazione di rapporti, presa in carico e ridefinizione degli obiettivi e dei contenuti da parte dei policy makers”. Lo stesso presidente emerito Giorgio Napolitano, riprendendo la serrata critica della senatrice, ha censurato la scelta chiedendo al Governo un ripensamento.

Il primo attore del progetto dell’Human Technopole è stato individuato appunto nell’IIT, un ente di ricerca creato su iniziativa di Giulio Tremonti nel 2003, finanziato direttamente dal Ministero dell’Economia e Finanze, con natura giuridica di fondazione. La storia dell’IIT è molto dibattuta e non è questa le sede per raccontarla. Sarà sufficiente ricordare che, mentre l’originario obiettivo era creare una struttura che favorisse il trasferimento tecnologico e la ricerca industriale, nei fatti l’IIT è diventato un ente quasi generalista che fa ricerca al pari di enti di ricerca e università pubbliche, ma con risorse garantite direttamente dal MEF e senza i vincoli cui sono sottoposte queste istituzioni. La missione originaria di sostegno alla ricerca industriale non è mai stata rispettata e il sistema delle imprese contribuisce solo al 3% del bilancio di IIT che, peraltro, concorre anche per i finanziamenti europei e privati come gli atenei e gli enti di ricerca. Per di più, il 1° luglio 2008, l’IIT ha ricevuto in dotazione il patrimonio della Fondazione IRI (legge 133/2008). Le sole poste finanziarie della Fondazione IRI ammontavano nel 2008 a quasi 51 milioni di euro, più investimenti in obbligazioni per circa 80 milioni, cui vanno aggiunti gli interessi. Si trattava di soldi pubblici, visto che provenivano dalle spoglie della più grande holding industriale pubblica del mondo.

Il nuovo polo scientifico milanese si focalizzerà sullo studio del legame fra nutrizione, genomica, invecchiamento e aspettativa di vita, in una versione italiana di quella che viene definita “medicina di precisione”. L’obiettivo è utilizzare la genomica, i Big Data e le nuove tecniche di diagnostica per sviluppare approcci personalizzati; in particolare, per affrontare tumori e malattie neurodegenerative, da un lato e per sperimentare biotecnologie applicate all’agricoltura, dall’altro,  coinvolgendo enti di ricerca e università pubblici e privati. L’IIT, in sostanza, agirà da agenzia di finanziamento che intermedierà le risorse stanziate dal governo. Non è ancora chiaro se le imprese coinvolte (in un articolo del Corriere della Sera venivano menzionati gruppi industriali quali Bayer, Glaxo, Novartis, Unilever Sygenta, Barilla, Nestlé), avranno un ruolo da investitori o se, viceversa, faranno ricerca con i fondi stanziati dallo Stato. Rispetto alle università, ai poli ospedalieri e agli enti di ricerca, non è possibile conoscere quali obiettivi e valutazioni determineranno la scelta dei gruppi di ricerca da coinvolgere né le procedure e le modalità di coinvolgimento.

Il nuovo polo, benché interamente finanziato dallo Stato, avrà la natura giuridica di fondazione privata e, come l’IIT, non sarà sottoposto né all’obbligo di trasparenza dei bilanci, delle procedure e dell’assegnazione degli incarichi, né alle linee politico scientifiche che orientano le scelte dei progetti da finanziare. Ciò che è noto è che il progetto si articolerà in sette centri – Medical Genomics Center, Neurogenomics Center, Agri-Food and Nutritional Genomics Center, Data Science Center,Center for Computational Life Sciences, Center for Analysis, Decisions and Society, Center for Nano Science and Technology – con sede in Expo, intorno ai quali opereranno laboratori esterni situati appunto nelle rete degli ospedali e centri di ricerca che ne faranno parte.

La Legge di stabilità, da poco approvata, ha tentato di correggere il tiro e di rispondere ad alcune delle perplessità nate intorno al progetto, a partire dal ruolo dell’IIT, creando un’ennesima fondazione di diritto privato a cui affidare le risorse stanziate per il Technopole. La fondazione dovrebbe rapportarsi con l’IIT che rimane il primo soggetto partner della costituzione del nuovo polo scientifico. Alla costituzione della fondazione si destineranno, oltre che risorse dei ministeri dell’Economia e dello Sviluppo, 10 milioni di euro nel 2017, 114,3 milioni nel 2018, 136,5 milioni nel 2019, 112,1 milioni nel 2020, 122,1 milioni nel 2021, 133,6 milioni nel 2022 e 140,3 milioni a decorrere dal 2023. La Fondazione potrà avvalersi di personale, anche dirigenziale, messo a disposizione da enti e amministrazioni pubbliche oltre che di esperti e collaboratori di società di consulenza o università e enti di ricerca. Un decreto del Presidente del Consiglio determinerà i rapporti con della nuova fondazione con l’IIT e il trasferimento alla fondazione delle risorse residue per la realizzazione in area Expo di progetti scientifici e di ricerca già attribuiti all’IIT. Tuttavia, adi nodi di fondo restano irrisolti, a partire da quello fondamentale: a quale scelta di politica della ricerca risponderà il Tecnopolo?

Dopo anni di sottrazione di risorse, un investimento come quello in Human Technopole, pari a 150 milioni per dieci anni e 1500 assunzioni di ricercatori, potrebbe apparire come il segno di una nuova politica della ricerca. Persino nella retorica discorsiva della classe politica del nostro Paese è acquisito l’assunto che nessun Paese è mai cresciuto senza investimenti in aree fondamentali quali l’istruzione e la ricerca e che, in Europa, si deve creare una visione comune che assegni un ruolo centrale alla crescita trainata dall’innovazione. In realtà il Tecnopolo si iscrive in un quadro di continuità con le scelte degli ultimi anni. Ridurre a pochi atenei “di eccellenza” le università italiane attraverso la lenta dismissione operata con un meccanismo selettivo di distribuzione dei tagli ai bilanci di ateneo e allocare eventuali ulteriori finanziamenti al di fuori delle istituzioni pubbliche di ricerca esistenti.

Un ateneo su tre rischia oggi di finire strangolato dall’aumento a dismisura della quota premiale nell’assegnazione del fondo ordinario – per altro di dimensioni ormai molto esigue – effettuata sulla base della VQR combinata con criteri di sostenibilità finanziaria per la determinazione delle opportunità di reclutamento. A questo si affianca la politica di chiusura e accorpamento degli enti di ricerca, 15 operazioni di questa natura solo negli ultimi 8 anni.

Si è, quindi, scelto di sottrarre risorse al corpo già esangue delle nostre infrastrutture per drenarle verso realtà che dovrebbero nascere “pure” senza le patologie che il sistema della ricerca e dell’università hanno incubato negli anni. Si tratta di una visione che si auto-accredita come rivoluzionaria e innovativa ma che nei fatti ha prodotto semplicemente un progressivo indebolimento nella capacità del nostro paese di fare ricerca. Certamente l’autoreferenzialità di una parte del sistema combinata con l’indifferenza del sistema produttivo per l’innovazione tecnologica, determinata dalla storia delle nostre imprese, hanno reso possibile un attacco progressivo alle infrastrutture della ricerca senza che si sia davvero potuto opporre una capacità critica in grado di invertire la rotta.

Mariana Mazzucato ci spiega nel suo “Lo Stato innovatore” che la differenza vera tra il sistema della ricerca negli Stati Uniti e in Europa è semplicemente nel fatto che in Usa si fa una maggiore quantità di ricerca in un maggior numero di luoghi e istituzioni. Lo svantaggio nella capacità di produrre innovazione non è un problema di difficoltà nel “trasferimento” di conoscenza dai centri di ricerca verso le imprese, ma nella minore quantità totale di ricerca che si produce, oltre che naturalmente nella presenza di aziende più deboli e meno innovative. Consiste, dunque, nella sostanziale mancanza di una politica della ricerca e dello sviluppo accompagnato da investimenti diretti e diffusi. Ciò sarebbe necessario a maggior ragione in Italia dove persiste tra gli altri un problema colossale di specializzazione produttiva che nessuna presunta eccellenza o pacchetto di incentivi potrà risolvere.

Tra l’altro è utile osservare che l’attenzione che sembra si voglia porre in modo crescente sui brevetti, dalla nascita dell’IIT in poi, non appare la strategia più solida se l’obiettivo è la produzione di innovazioni qualitativamente rilevanti. Diffusa è oramai l’opinione che le tendenze all’incremento della brevettazione rischiano di ridurre il tasso di innovazione perché impediscono alla ricerca scientifica di progredire in modo aperto ed esplorativo. A questo proposito è molto interessante un recente studio di Massimo Florio, Stefano Forte e Emanuela Sirtori, che propone un’analisi costi/benefici economici del CERN senza prendere in considerazione i benefici attesi della ricerca di base nel lungo periodo. Lo studio analizza invece il rendimento del CERN come macchina che acquisisce input e genera output per ricercatori e imprese e rileva un bilancio positivo di 3 miliardi di euro su un orizzonte trentennale. Secondo gli autori della ricerca, tra gli elementi trainanti di tale surplus ci sarebbe proprio l’assenza della proprietà intellettuale, perché al CERN si brevetta poco o nulla e si distribuisce software libero che viene utilizzato in molti ambiti.

In conclusione, il rischio che l’investimento nello Human Technopole non sia la strada per rilanciare il nostro sistema di ricerca ma possa accompagnarne l’indebolimento appare concreto. Il nuovo che si vuole costruire non può e non deve avvenire drenando (indirettamente) le scarse risorse fuori dalle strutture di ricerca esistenti, così contribuendo a decretarne la scomparsa. Serve oggi un investimento nel fondo ordinario degli enti di ricerca e delle università, un reclutamento straordinario e una vera governance di sistema capace di rispondere ad una strategia di politica dello sviluppo di cui la ricerca è un asset fondamentale.

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