Homeless, città, identità: un mix utile per esplorare l’invisibile?

Veronica Polin dà conto dei risultati di una indagine, realizzata con M. Bertani e pubblicata nella sua interezza nel volume "Homeless e città. Una relazione identitaria da esplorare", sulle persone con grave disagio abitativo. Dall’indagine, condotta a Verona con l’obiettivo di analizzare il rapporto di queste persone con la città emergono interessanti (e in parte inattesi) spunti per comprendere le identità in trasformazione nonché i bisogni di vita e di riconoscimento, i valori e le idee di giustizia degli homeless.

Nelle società occidentali contemporanee, gli homeless rappresentano una delle forme più estreme e gravi di povertà. È un tipo di povertà che segna in modo profondo: la perdita (temporanea o duratura) dell’abitazione che si considera “casa”, elemento distintivo di questa forma di povertà, è un evento traumatico che impone al senza dimora di affrontare una vera e propria crisi di vita e di identità. Una crisi che difficilmente si accetta: lo stato di homeless non è quasi mai, diversamente da altre epoche storiche, l’esito di una scelta razionale motivata da una preferenza per un particolare stile di vita.

Un interessante filone di studi, piuttosto recente, mette in discussione l’esistenza di un’identità ad hoc per gli homeless e sottolinea l’importanza di considerare e studiare l’essere homeless come un’esperienza soggettiva e umana che può avere un impatto sulle identità, secondo un processo che va compreso e che non ha esiti deterministici (McCarthy L. 2013 “Homelessness and Identity: A Critical Review of the Literature and Theory”, in People, Place and Policy, 7(1), pp. 46-58; Parsell C. 2018 The Homeless Person in Contemporary Society, London, Routledge). L’evidenza empirica prodotta sinora da questo filone di ricerca sembra confermare che le identità delle persone senza dimora, come quelle di qualsiasi altra persona, sono poliedriche, fluide, contingenti e talvolta agite in modo volontario e non possono essere incasellate in un’unica rigida identità stigmatizzata.

Gli interessanti e innovativi risultati di questi primi studi spingono a cercare di conoscere meglio come le persone che vivono questo tipo di esperienza si raccontano, narrano e agiscono le loro diverse identità, nell’ambito di uno schema teorico di formazione e trasformazione dell’identità di tipo processuale e relazionale. Da questa visione siamo partiti per progettare e realizzare una ricerca qualitativa per esplorare le trasformazioni identitarie in atto in situazioni di grave disagio abitativo. Lo abbiamo fatto attraverso l’analisi di alcuni aspetti relazionali e processuali che possono influenzare questo percorso e che potrebbero aiutare a disegnare misure di policy in grado di coniugare questioni redistributive con bisogni identitari di riconoscimento, secondo un’innovativa visione di giustizia sociale. Se è intuitivo immaginare che un’identità sia plasmata dalle relazioni con le persone, non si deve dimenticare che per alcuni individui le relazioni identitarie di riferimento riguardano luoghi fisici (place identity). È questo il caso delle persone senza dimora che, come dimostrato in letteratura, una volta arrivate in strada tendono a perdere definitivamente i legami affettivi con familiari e amici, spesso senza che questa perdita sia compensata da altre relazioni sociali durature e significative. La città rappresenta lo spazio fisico e sociale di riferimento per gli homeless: una relazione significativa ma ancora “invisibile” perché poco studiata in letteratura.

Crediamo, e questa intuizione ci ha guidato nella nostra ricerca con risultati in parte inattesi e sorprendenti, che rendere “visibile” la relazione tra città e senza dimora possa raccontare molto della loro esistenza, dei loro bisogni, dei loro spostamenti e più in generale della loro identità (personale, sociale, lavorativa) e di come quest’ultima affronti le esperienze di vita attraverso strategie, crisi, ripensamenti e adattamenti. Il nostro studio, i cui risultati sono stati pubblicati nel volume dal titolo Homeless e città. Una relazione identitaria da esplorare (Veronica Polin e Michele Bertani, Giappichelli 2020), è stato realizzato nella città di Verona coinvolgendo, grazie alla collaborazione di tre organizzazioni veronesi, persone adulte che, al momento dell’invito a partecipare alla ricerca, erano in condizione di homeless di diversa intensità. Da quella più soft, caratterizzata dalla residenza in centri e strutture di accoglienza, che possono anche attivare progetti di accompagnamento al lavoro e/o reinserimento sociale oppure offrire semplicemente un luogo sicuro e accogliente, fino alla forma più hard, dove la casa per la notte è la strada.

Nell’ambito del disagio abitativo caratterizzato dalla possibilità di accedere ad una struttura di accoglienza, abbiamo tenuto ulteriormente distinti i soggetti ospitati in centri e che non avevano sperimentato la vera e propria vita in strada, da coloro che invece l’avevano sperimentata e stavano provando, attraverso l’accesso ad un alloggio di seconda accoglienza, a uscire dalla condizione di homeless. Il nostro campione, che precisiamo subito non può considerarsi statisticamente significativo, è composto da 13 individui che hanno partecipato all’intero percorso di ricerca. Persone di genere sia femminile sia maschile, prevalentemente di nazionalità italiana, un terzo con età inferiore a 40 anni e in questa situazione da meno di due anni (circa l’80 per cento).

Per la raccolta dei dati, iniziata nel 2016, è stato adottato un approccio qualitativo partecipativo e inclusivo, che ha messo gli hard-to-reach al centro e ha consentito di cogliere diverse sfumature di questo rapporto con la città, difficilmente rilevabili attraverso indagini quantitative. Partendo da una visione dell’homelesness che vuole superare il classico luogo comune della devianza e dell’esclusione sociale, e slegata da un certo stereotipo diffuso di marginalità e passività, in questo studio i soggetti coinvolti nella ricerca sono stati considerati a tutti gli effetti attori sociali in grado di svolgere un ruolo attivo e fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi conoscitivi della ricerca.

Il disegno empirico della ricerca si è avvalso inoltre di un approccio multi-method basato sull’osservazione dei loro scatti fotografici (Participant driven photo elicitation) e sull’ascolto delle loro voci di esperti (Focus Group). A ogni partecipante è stata consegnata una macchina fotografica analogica usa-e-getta, con il mandato, volutamente poco direttivo, di fotografare cose, persone e luoghi significativi nella loro vita quotidiana. In seguito alla realizzazione degli scatti fotografici, sono stati organizzati quattro Focus Group in presenza – uno per ogni forma di disagio abitativo considerato -, per chiedere ai “fotografi sociali” di descrivere e motivare le loro scelte fotografiche, di raccontare il senso delle diverse immagini scattate e di discutere tra loro delle molteplici dimensioni della città.

I partecipanti hanno scattato complessivamente 245 fotografie (visibili nella sezione digitale del volume) e ne hanno commentato un’ottantina durante i FG. Il libro contiene un’analisi denotativa (con relativa content analysis) fatta dagli autori su tutte le immagini, un’analisi connotativa limitata agli 83 scatti selezionati dai partecipanti e un’analisi tematica dei contenuti emersi durante i Focus Group. Risulta veramente difficile sintetizzare in poche righe la ricchezza di informazioni, percezioni ed emozioni sulla città ottenuta con questo progetto, che ha richiesto agli autori un lungo lavoro di codifica, analisi, interpretazione della notevole mole di materiale empirico. Preferiamo dunque condividere alcune riflessioni riconducibili alla parte strettamente visualdella nostra ricerca, invitando tutti coloro che sono interessati ad approfondire i diversi temi emersi e le possibili implicazioni di policy a leggere l’intero volume.

L’aspetto emotivo, affettivo, relazionale, simbolico, istituzionale e materiale della città è emerso in modo chiaro nei vari significati che essa assume dalle parole utilizzate dai partecipanti alla ricerca per raccontare il senso delle immagini scattate. Con nostro stupore, hanno parlano di benessere anche se si trovano in oggettive condizioni di profondo malessere. Hanno raccontato di quanto bella sia Verona, mostrando quasi un sentimento di orgoglio nell’essere cittadino di questa città, dell’esistenza nello spazio urbano di luoghi particolari in grado di donare serenità, svago, pace e conforto nei momenti difficili e di consentire il contatto con la parte più profonda di sé (Figura 1).

Lavoro e casa rappresentano ancora importanti riferimenti identitari, anche se ridefiniti nella loro declinazione concreta. Hanno mostrato la loro “casa”, una casa che può essere semplicemente costituita da un materasso posto su un terrazzo di un condominio; hanno parlato del loro lavoro, un lavoro spesso discontinuo e precario svolto ai limiti della legalità o all’interno dell’economia regolare vissuto, comunque, con impegno personale e serietà. Hanno parlato di ricordi che riaffiorano vedendo alcuni luoghi di vita passata. Hanno anche condiviso riflessioni sul senso dell’esistenza associato a simboli della città, come un orologio o un trenino turistico o un fiume.

Insieme a una città fatta di spazi e persone che accolgono e che aiutano c’è però anche una città, rappresentata principalmente da alcune istituzioni pubbliche, che non aiuta sia perché assente nel dare risposte a specifici bisogni, sia perché si caratterizza per un agire vissuto da loro in modo violento e privo di ragionevolezza. Nella nostra ricerca, diversamente da altri lavori empirici, la dimensione urbana ostile non è associata dai partecipanti a scelte architettoniche e/o a divieti imposti dai policy-maker locali, si pensi, ad esempio, alla panchina con la separazione per evitare che venga utilizzata per dormire. Si tratta invece di una violenza agita in momenti di vulnerabilità (ad esempio, durante i tentativi di dormire in qualche posto, figura 2) o una violenza agita tramite silenzi che si traducono in assenza di adeguate misure di policy finalizzate a dare loro una risposta efficace di cura e di opportunità di vita; in sintesi si potrebbe definire, alla Honneth, una violenza derivante da mancato riconoscimento della loro dimensione umana. Hanno raccontato di quanto questa esperienza stia trasformando le loro identità che però sono ancora vive e poliedriche, portatrici di bisogni sia basilari (come il dormire in un luogo protetto) sia di riconoscimento sociale e istituzionale (attraverso un lavoro dignitoso e forme mirate di aiuto da parte dello Stato). Sono emerse anche visioni di sé e del mondo nitide e razionali.

L’approccio metodologico utilizzato non permette alcuna generalizzazione, ne siamo consapevoli. Replicare il nostro studio in altri contesti urbani è auspicabile, così come riuscire a testare alcune ipotesi attraverso field experiment. Crediamo comunque che le loro narrazioni possano aiutare ad accendere luci di conoscenza là dove spesso regna il buio.

 

Figura 1. “La città che aiuta”.

…..questo è il tetto di un palazzo di Verona (vado lì) proprio per il clima che c’è lì. La pace, proprio. È anche un lusso diciamo a volte essere in questa condizione perché magari posti così persone che hanno una vita più regolare non li vedrebbero mai o, anche se li vedono, non li vedrebbero mai con degli occhi come uno nella nostra situazione.” (T., 29 anni, senza dimora, italiano).

 

Figura 2. “La città che non aiuta”.

 “Quando arriva la polizia e trova la porta chiusa spacca tutto per entrare….è così.” (A., 45 anni, senza dimora, marocchino).

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