Harvard in Australia: gli ambiziosi e rischiosi programmi del nuovo governo conservatore

Elisabetta Magnani illustra il progetto di riforma delle Università presentato dal nuovo governo conservatore australiano. Magnani richiama le origini culturali di quel progetto e ne sottolinea oltre alle grandi ambizioni i rischi, che possono mettere in pericolo uno dei pilastri su cui si è basato il contratto sociale australiano e cioè l’inclusione e l’accesso ai benefici della crescita.

Il programma di politica fiscale che il nuovo governo australiano capeggiato da Tony Abbott ha presentato il mese scorso impone una svolta reazionaria al contratto sociale che ha dato forma alla società australiana dai suoi inizi coloniali. Si tratta di un contratto sociale che ha fatto perno su tre imperativi fondamentali: quello di accumulazione e dispossesso (la famosa clausola della “Terra Nullius” che fino al 1992 ha permesso lo sfruttamento di suolo e sottosuolo senza alcun riconoscimento dei diritti aborigeni); quello di esclusione, attraverso politiche migratorie apertamente discriminatorie e razziste che fanno dell’Australia un pariah nella difesa dei diritti umani;e, infine, quello di inclusione e accesso selettivo ai proventi dello crescita economica per i vari strati sociali della cittadinanza, per mezzo di una gamma di politiche, legislazioni e programmi di servizi sociali che hanno reso il modello capitalistico australiano così diverso da quello degli Stati Uniti.

Quello di Tony Abbott è un programma ambizioso perchè si articola su tutti e tre i piani, con soluzioni di continuità e discontinuità rispetto alle grandi direttrici di accumulazione, esclusione e inclusione selettiva appena sopra ricordate. Il maggiore senso di discontinuità si evidenzia nel programma di politica sociale che ha al suo centro la politica dell’istruzione e quella sanitaria.

Salito al potere nel settembre 2013, dopo due controversi mandati laburisti, il governo conservatore di coalizione di Tony Abbott si è presentato con la premessa di restaurare la fede cieca non tanto nei mercati quanto nei poteri forti dell’economia multinazionale. “Australia is open for business!”è stato il mantra religiosamente ripetuto già pochi minuti dopo l’annuncio della vittoria e rispolverato pochi giorni fa all’apertura di Wall Street, durante la prima visita ufficiale a Barack Obama. Cavalli di battaglia del governo Abbott sono stati dall’inizio la lotta alla mining tax, con cui il governo laburista di Kevin Rudd intendeva finanziare le crescenti spese per la salute pubblica, il graduale smantellamento del programma pubblico di copertura sanitaria Medicare, la riforma dell’assistenza ai disoccupati, con tagli drastici del sussidio di disoccupazione per coloro che hanno meno di 30 anni, e infine la riforma universitaria. A chi pensasse che questo è un programma economico all’insegna dell’ “austerity” cara a molti in Europa, forse basta ricordare il fervore con cui Abbott sta battagliando in Parlamento per far passare il suo generosissimo (e non sottoposto alla prova di mezzi) sussidio di maternità (fino a $75.000), da finanziare con risorse pubbliche.

Per entrare nel dettaglio di ciò che viene proposto per le università, le politiche volute dal ministro dell’Istruzione Christopher Pyne prevedono: un taglio del 20% al finanziamento pubblico controbilanciato dalla liberalizzazione delle tasse universitarie, l’estensione dei programmi di credito agevolato per gli studenti ai quali applicare i tassi di interessi di mercato invece della semplice indicizzazione al tasso d’inflazione. Il ministro Pyne ha motivato la liberalizzazione delle tasse in base ai “significativi benefici privati che derivano dall’istruzione universitaria” che, in quanto privati, non possono essere sussidiati dai cittadini che non vanno all’università. La logica di continuità con il passato è chiara se si pensa che, con pochissime eccezioni, i Rettori universitari Austaliani hanno da tempo fatto propria la logica del mercato come istituzione in grado di gestire accesso e fruizione dei servizi di istruzione universitaria. Negli ultimi anni del suo governo conservatore (1996 – 2008), John Howard ha lasciato le università libere di decidere l’incremento delle tasse universitarie che comunque non doveva superare il 25%. Quasi tutte le università hanno scelto l’aumento massimo consentito. Anche riconoscendo la continuità con le politiche conservatrici e non del recente passato, non è difficile cogliere il carattere iperbolico di una retorica politica che presenta la società come un groviglio di interessi privati: non siamo lontani dal momento in cui gli ospedali saranno considerati un interesse privato perchè alcuni potranno permettersi ben più costosi e ben più sofisticati interventi (ad esempio quelli genetici) per la gestione della propria (privata) salute.

Gli aumenti di cui parlano le proiezioni più attendibili sono ben più alti, nell’ordine del 50-70%. Il modello statunitense si profila come il più appetibile per il Ministro Pyne perché con un sistema di finanziamento che si basa sulla legge della domanda e dell’offerta e sulla competizione tra università (e tra università e istituti para-universitari), “l’Australia potrebbe avere la sua Harvard”. Questa logica è del tutto coerente con la retorica nazionalista dei “rankings above all”. Ma non è affatto chiaro quale livello le tasse universitarie dovrebbero raggiungere per adeguare il finanziamento universitario a quello statunitense. Infatti, negli Stati Uniti le università private fruiscono di circa $30 miliardi in transferimenti privati ogni anno, grazie alla diffusa pratica delle donazioni degli alumni che non esiste in Australia. È lecito chiedersi quale sia il prezzo che si vuole pagare per abbracciare davvero la logica della competizione con le ivy leagues del sistema Americano.

Si può, anzi, si dovrebbe discutere dei vantaggi e degli svantaggi di un sistema universitario che, innalzando a dismisura le tasse universitarie, di fatto impedisce l’accesso ai ceti meno abbienti. Fa digrignare i denti la sortita del mio Rettore, Fred Hilmer, quando annuncia che le università australiane trarrebbero beneficio dalla liberalizzazione delle tasse universitarie, perchè ciò produrrebbe “diversificazione del prodotto”. Qui l’ipotesi di fondo è che si possa tranquillamente equiparare, ad esempio, l’ istruzione con i prodotti per la cura orale: i consumatori trarrebbero vantaggio dalla diversificazione del prodotto perchè i denti (e i figli) di ciascuno sono diversi da quelli degli altri. Comunque, l’applicazione di questa logica avrà l’effetto di una “self-fulling prophecy” perchè produrrà la disuguaglianza che l’argomento richiede per la sua coerenza interna. Di certo, la proliferazione di programmi, diploma e lauree e la loro inesorabile gerarchizzazione finiranno per legittimare la polarizzazione economica e sociale che abbiamo visto crescere in Australia, come negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dalla fine degli anni Settanta.

E’ commovente la bella intenzione di usare parte dei proventi derivanti dalle esorbitanti tasse universitarie per rinvigorire un programma di borse di studio per le famiglie svantaggiate. L’ironia non è fuori luogo: secondo il rapporto OCSE “Education at a Glance 2012” se si escludono gli studenti stranieri, che fanno dell’università australiana una delle industrie dell’export più profittevoli, il tasso di completamento dell’istruzione universitaria in Australia è già al di sotto della media OCSE. Secondo lo stesso rapporto, la spesa delle famiglie per gli studi universitari è già alle stelle in paesi come Cile, Corea del Sud, Gran Bretagna, Giappone e Australia (in questo ordine), dove “l’equilibrio tra finanziamento pubblico e privato è da tempo una fonte di forti preoccupazioni per i suoi effetti sull’ equità nell’ accesso all’istruzione”.

Curiosamente, un programma così ambizioso non ha avuto bisogno di grandi annunci e poco se ne è parlato in campagna elettorale. Al contrario, Tony Abbott si è presentato come il moderato dell’ultima ora e, come in tutte le campagne elettorali degli ultimi venti anni, la retorica politica ha dato ampio spazio al rinvigorimento della politica di esclusione e di difesa dei confini nazionali dagli “asylum seekers” per cui l’Australia è tristemente famosa.

Per passare al Senato il programma di politica fiscale del maggio scorso deve quindi convincere ex-post sulla fondatezza della logica dell’emergenza adottata dal ministro delle Finanze che appare piuttosto strampalata sia quando fa riferimento all’invecchiamento della popolazione si quando richiama il “dissennato” deficit di bilancio lasciato da “irresponsabili governi laburisti” (all’1,2%!) o l’elevato debito pubblico, che in Australia nel 2013 era ancora al 20% del PIL !). A soli pochi anni dall’inizio della crisi economica globale, per diventare legge il Federal Budget deve soprattutto nascondere il vuoto politico su cui si regge questo governo ed offrire come panacea di tutti i mali le virtù del mercato monopolistico e corporativo, chiamato a gestire grandi processi di ristrutturazione economica dove de-industrializzazione, global value chains, multinazionali e politiche neo-liberali alimentano la fame di posti di lavoro, in Australia come nel resto del mondo.

Di fronte a questo vuoto politico, non sorprende che politiche supply-side emergano come vincenti. Cosa c’è di meglio di (i) misure che sviano dal centro del dibattito la inadeguata politica industriale che dovrebbe creare occupazione (e non lo fa), (ii) misure che limitano la creazione di capitale umano limitando l’accesso all’università; (iii) misure che “normalizzano” le disuguaglianze e ridimensionano le aspettative economiche e sociali dei giovani rispetto al loro futuro?

Personalmente, mi auguro di assistere ad una valutazione critica della logica corporativa che celebra le virtù del mercato e ne dimentica i vizi, specialmente quando questa logica viene applicata alla politica dell’istruzione. Più che creare la Harvard dell’emisfero meridionale, la vera sfida per l’Australia è assicurare equità d’accesso all’università e prospettive d’occupazione dei giovani.

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