Haneke e il “male oscuro” dell’Europa

Recente vincitore della Palma d’Oro al festival del cinema di Cannes,
il film di Michael Haneke “il nastro bianco” è un’opera misurata
dall’ambizione smisurata. Per uno storico europeo essa richiama alla
mente le ammonizioni di Marc Bloch a temere “l’idolo delle origini”:
quel feticcio alla ricerca del quale viene sacrificata ogni
narrazione, complessità e scampolo di umanità. Haneke crea un’opera
tutta intesa a ricercare le origini del male europeo che sembra a lui
annunciarsi nella Grande guerra e poi nella disposizione al male di
una generazione corrotta, disponibile a subire il fascino di fascismo
e nazismo.
Sono tempi di crisi questi per l’integrazione europea e per la sua
economia. Aleggia lo spettro di una disoccupazione continentale
attorno al 10 per cento, della guerra fra poveri che prende di mira i
più indifesi e diversi, in primo luogo gli immigrati. La prospettiva
di vita per i nostri giovani è tutto tranne che chiara, educati
all’edonismo più superficiale ed insieme al passivo piegare la testa
nei luoghi di lavoro. In Europea dell’Est il ricongiungimento con
l’Occidente ha fatto rinascere religiosità estreme e organizzazioni
neofasciste.
Per tutte queste ragioni ed altre ancora il film del regista
austriaco, che  uscirà nelle sale italiane distribuito dalla Lucky Red
in autunno, parla direttamente all’oggi. Ci troviamo in un villaggio
agricolo della Germania protestante in un anno, quello fra il 1913 e
il 1914, sul quale incombe la minaccia di qualcosa. La religione, il
rispetto per i parenti e per le classi sociali superiori sembra
l’amalgama che serra un mondo di contadini, maestri di scuola, medici,
preti e baroni e che dà la forza di raccogliere e macinare grano dal
quale tutta la comunità trae alimento. Il villaggio è bello ma non
incantato. Con il proseguire della narrazione accadono una serie di
eventi macabri, giochi sempre più crudeli, sanguinosi e infine
mortali, che espellono dal villaggio le pochissime forse positive che
vi risiedono. La società è ordinata ma malata. I contadini più deboli
soccombono senza sapersi organizzare. La comunità paesana, superato il
trauma della Grande guerra, che non offre alcuna speranza né cambia
alcunché, viene lasciata in preda alla sua gioventù, incolpevole se
non del fatto di assorbire più degli altri la malvagità e la
corruzione dell’aria che si respira.
Non è un film per tutti, nel senso che il suo linguaggio è quello
della raffinata e apolide comunità dei laureati. Non ha niente
dell’ottimismo di un’altra epopea rurale che è quella raffigurata da
Bertolucci in “Novecento”, l’Emilia Romagna a cavallo della seconda
guerra mondiale. D’altronde “Novecento” era stato scritto e diretto
con un Partito comunista al 35 per cento dei consensi e con Grecia,
Spagna e Portogallo che si liberavano dai regimi autoritari: gli anni
Settanta sembravano annunciare liberazione e non schiavitù. Non c’è
ironia in Haneke e non c’è colore. Tutto, dai dialoghi alle istantanee
di una pianura di grano e alberi, sono un bellissimo bianco e nero che
allo stesso tempo lascia la sensazione di un’epoca lontana ma anche
della fredda cattiveria scientifica della nostra età disillusa.
Haneke rientra così, che lo sappia o meno ¬ ma è probabile che lo
sappia ¬ in un filone di storiografico prevalentemente anglosassone
teso a ricordarci come l’Europa sia il luogo della nascita dello
scontro di classe, della violenza etnica, della selezione razziale e
di guerre di annichilimento sempre più feroci. Mark Mazower nel suo
The Dark Continent (in italiano: “Le ombre dell’Europa”) ci ha
spiegato come la democrazia in Europa occidentale sia stata un
prodotto fragilissimo e fortemente sensibile alle sirene fasciste.
Sono tesi che, così come l’utilizzo del digitale bianco e nero, sono
belle, convincenti, fascinose e colte, ma anche stranamente distanti
da una realtà che non riescono pienamente ad afferrare. Se nel film
l’unico elemento vagamente positivo sembra essere l’amore fra due
giovani innocenti e quello fra una madre e suo figlio, quindi il bene
ricondotto alla sua dimensione familistica, la storia dell’Europa,
nelle sue tragedie come nelle sue luminose realizzazioni, è forse
soprattutto altro. Il colore epico di Bertolucci ci ricorda come
l’organizzazione sociale abbia anche permesso un miglioramento dei
rapporti sociali e delle condizioni di vita, la presa diretta di
“Gomorra” ci racconta che il mondo oggi è un’anarchica giungla urbana
governata dal denaro o dal desiderio di potere ad esso associato. E
quanto è lontano il rigido protestantesimo teutonico dalle strade
polverose e caotiche di Scampia! E forse il “male oscuro” dell’Europa
è proprio questa ossessione di classi dirigenti, politiche e
intellettuali, di tornare sempre a fare leva, per vincere le elezioni
o spiegare quello ciò che hanno intorno, su sulla paura per il diverso
e l’invida per il prossimo. Una tendenza che investe in pieno gli
intellettuali che, al contrario di Saviano, sembrano adagiarsi nella
certezza di far parte di un sistema e di una società votata al male.
Di tutte queste riflessioni e di molte anche ancora, che non possono
non affacciarsi in due ore e mezzo di corposo spettacolo, lo
spettatore non potrà che essere riconoscente ad un regista coraggioso
e importante.

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