ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 171/2022

30 Aprile 2022

Guai ai piccoli

Annalisa Cicerchia basandosi sul recente Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile dell’Istat documenta il crescente stato di disagio dei giovani, dovuto all’aggravarsi di vecchi problemi e al manifestarsi di nuovi.

Come ogni anno, il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), pubblicato dall’Istat, offre ai suoi lettori la possibilità di esplorare, attraverso 153 indicatori divisi per 12 temi principali, la condizione del Paese, con dati declinati per genere, età e territorio. Oltre a statistiche di contesto (come quelle sulle dotazioni, i servizi, le caratteristiche del territorio, ecc.), il benessere delle persone viene ritratto, tanto con la misurazione di comportamenti, con osservazioni di tipo oggettivo, quanto con la rilevazione di atteggiamenti, restituiti attraverso indicatori soggettivi, sparsi nei diversi domini su cui è costruito il sistema.

Il volume è corredato di tavole di dati che tracciano gli andamenti nel tempo dei fenomeni osservati, rilevando progressi, anche se lenti, come quello della percentuale di persone con il diploma, stagnazioni, come il tasso di mortalità evitabile, e regressioni, come è accaduto per l’aumento dei NEET tra il 2008 e il 2019.

Il sismografo statistico ha registrato con un sussulto gli impatti della pandemia, le cui ricadute hanno segnato uno spartiacque per quasi tutti i fenomeni sottoposti a osservazione. Per molti di essi, gli scenari pre-covid sono profondamente diversi da quelli successivi al 2020, e quasi tutti in peggio.

L’attenzione all’equità è un tratto costitutivo del BES, come traspare dal suo nome. I dati documentano configurazioni vecchie e nuove dei divari: territoriali, di genere, di età. Nel Rapporto appena pubblicato, i dati quantificano alcune manifestazioni di ripresa in territori solitamente svantaggiati, accanto all’aggravarsi di disuguaglianze e ritardi storici, soprattutto a carico delle donne.

Su una cosa gli indicatori di tutti i domini sembrano invece convergere: un peggioramento diffuso e profondo delle condizioni dei più giovani, bambini e adolescenti compresi.

Il nostro Paese mostra da anni, nei confronti dei giovani, un’inabilità quasi strutturale ad agire, tale da far pensare, più che ad avversione, insofferenza o incomprensione, a una inveterata incapacità di percepirne l’esistenza e di vederne l’importanza in termini utili per ispirare strategie politiche.

Siamo entrati nella tempesta pandemica già in grandissimo ritardo nei tassi di occupazione giovanile. Nel 2019, ai nostri giovani di 25-34 anni mancavano ancora 7,5 punti percentuali per recuperare i livelli perduti dopo il 2008. E così, leggiamo nel Rapporto BES, in Italia il tasso di occupazione dei giovani 25-34enni continua a rimanere il più basso di tutti i paesi europei (56,3% tra 25 e 29 anni e 68,5% tra 30-34 anni). La nostra distanza con l’Europa è andata crescendo e nel 2019 era arrivata ad essere la più ampia: -18 punti percentuali per i giovani fra 25 e 29 anni e -11 per i 30-34enni. La lettura secondo il genere rivela una ulteriore penalizzazione per le donne, soprattutto nella fascia di età 25-29 anni (da -14 nel 2008 a -20 nel 2019, rispetto a -8 e -17 dei coetanei maschi e rispetto a -8 e -14 delle donne di 30-34 anni).

L’arrivo della pandemia ha sferrato un colpo formidabile alla situazione, già debolissima, dei nostri giovani nel mercato del lavoro. In Italia, il loro tasso di occupazione ha perso 3,5 punti percentuali nel secondo trimestre 2020 rispetto al periodo corrispondente del 2019, mentre la perdita media dell’Ue27 è stata contenuta entro 2,3 punti. Anche nel 2020, alle donne che vivono in Italia è toccata la sorte peggiore, con una perdita di quasi 5 punti nel loro già modesto tasso di occupazione, mentre per gli uomini i punti in meno sono stati 2,2. Questa penalizzazione è peraltro in controtendenza rispetto a quello che si è rilevato nel resto della Ue27, dove le giovani hanno perso 1,9 punti e i giovani 2,7.

Nel primo trimestre 2021 si è verificato un calo ulteriore. Nella media Ue27 il tasso di occupazione ha ceduto 1,5 punti rispetto al primo trimestre dell’anno precedente (2020), ma in Italia è retrocesso di 3,3 punti: -3,6 per le donne e -2,9 per gli uomini.

I giovani tra 15 e 29 anni che non sono inseriti in un percorso scolastico o formativo e neppure impegnati in un’attività lavorativa, noti come Neet (Not in Employment, Education or Training), da noi, sono così numerosi da porre il nostro Paese al vertice di una non invidiabile classifica.

Nel 2008, la quota media europea dei Neet era il 13,1%, e in Italia il 19,3% Nel 2014 – al culmine della crisi occupazionale – oltre un giovane residente in Italia su quattro era Neet (26,2%, 10 punti percentuali al di sopra della media Ue27).

Il fenomeno ha poi seguito un lento andamento discendente, fino al 2019, pur senza ritornare, da noi, ai valori del 2008, ma fermandosi 2,9 punti sopra. Nel 2021 è arrivato al 23,1%. L’incidenza della condizione di Neet, nel 2021, è di circa 4 punti più alta tra le giovani che tra i giovani.

Strettamente correlato è un altro nostro triste primato, quello degli abbandoni precoci dei percorsi di istruzione e formazione, senza avere completato il ciclo e senza avere conseguito un titolo, da parte dei ragazzi fra 18 e 24 anni. Gli Elet (Early Leavers from Education and Training) in Italia, nel 2021, sono il 12,7%, mentre il limite massimo stabilito nell’Unione è il 10%, traguardo che la media degli altri paesi ha già raggiunto.

Dall’altro capo del continuum, ai giovani più istruiti e con le migliori qualificazioni, l’Italia continua a non offrire opportunità adeguate. Sono in tanti ad andarsene all’estero. “Il bilancio delle migrazioni dei cittadini italiani 25-39 anni con un titolo di studio di livello universitario si chiude con un saldo dei trasferimenti di residenza da e per l’estero di -14.528 unità”. Il Mezzogiorno, nel solo 2020, ha perso 21.782 giovani laureati.

Le statistiche economiche di contesto descrivono un paese perfettamente inospitale per i giovani. Quelle sulla salute mostrano derive pericolose: tra i 14 e i 19 anni, a causa della impossibilità per molti di svolgere in modo continuativo l’attività sportiva, la sedentarietà dei ragazzi, è passata dal 18,6 al 20,9%. Nel 2021, tra i minori di età compresa fra 14 e 17 anni si osservano quote elevate di consumatori di alcol a rischio (23,6%), addirittura più alte di quelle rilevate tra i giovani di 18-24 anni (15,9%).

E cresce la tendenza a rinchiudersi in se stessi, mentre cala la voglia di fare e di impegnarsi. La partecipazione sociale, nella fascia 14-24 anni, perde 10 punti in un solo anno, fra il 2020 e il 2021. L’attività di volontariato, che nel 2020, nonostante la pandemia, era rimasta stabile, nel 2021 ha coinvolto il 5% in meno di ragazzi tra 14 e 19 anni.

Sono comportamenti che fanno trapelare un disagio profondo e diffuso. Quando proviamo a chiedere ai ragazzi come stanno, come va la vita, le risposte sono preoccupanti.

In una fase della vita nella quale le relazioni tra pari sono della massima importanza, la soddisfazione per le relazioni con gli amici è diminuita in modo tangibile. Tra i ragazzi di 14-19 anni, il gruppo di chi si definisce molto soddisfatto ha perso, in due anni, 6,5 punti.

Tra il 2019 e il 2021, la percentuale di giovani di 14-24 anni che si vedono con gli amici almeno una volta a settimana è crollata dall’89,8% al 73,8%. Ha perso terreno (-4 punti) anche la percentuale di chi si dichiara molto soddisfatto delle proprie relazioni familiari. “Non è difficile intuire le ragioni di questa disaffezione: nel 2021, il protrarsi delle difficoltà per genitori e figli nel condividere gli spazi domestici anche per lavorare e seguire le lezioni, le ridotte possibilità di frequentare i compagni di studi dovute all’alternanza della didattica in presenza e a distanza per buona parte dell’anno scolastico o accademico, le limitazioni nella possibilità di praticare attività sportive e ricreative hanno contribuito a una sorta di desertificazione degli affetti, che ha eroso le basi della soddisfazione dei giovani”.

Perfino nelle regioni del Mezzogiorno si restringe la quota di ragazzi tra 14 e 19 anni che dichiarano di avere parenti, amici o vicini su cui contare: dall’86,1% al 78,3%. E si contrae dal 78,4% al 74,8%, in tutta Italia, la percentuale di giovanissimi certi di poter contare, in caso di necessità, sugli amici.

Sono bastati tre anni, tra il 2019 e il 2021, per fare affiorare un fenomeno senza precedenti. I giovani tra 14 e 19 anni sono infatti gli unici residenti in Italia per i quali gli indicatori del BES misurano un deterioramento significativo della soddisfazione per la vita. Nel 2019, la percentuale di chi si dichiarava molto soddisfatto era quasi il 57%. Nel 2021 è scesa al 52,3%.

Nessuna sorpresa, allora, se le condizioni di benessere psicologico dei ragazzi di 14-19 anni, nel 2021, sono peggiorate perfino rispetto al 2020.

Il punteggio di questa fascia di età (misurato su una scala in centesimi) è sceso in un solo anno di quasi 5 punti, a 66,6 per le ragazze e di 2,4 punti, a 74,1, per i ragazzi.

Nel 2019, gli adolescenti insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale erano il 3,2% del totale. Nel 2021, la percentuale è raddoppiata (6,2%). Si tratta di circa 220 mila ragazzi tra i 14 e i 19 anni, che si sentono insoddisfatti della propria vita e si trovano in una condizione di scarso benessere psicologico.

Se oggi dovessimo definire un’agenda di politiche giovanili, da costruire con rapidità, ma non con illusioni emergenziali, oltre che alle politiche del lavoro, dovremmo pensare alle politiche che favoriscono l’acquisizione di life skill fondamentali e di capacità relazionali, l’empowerment, la sperimentazione di esperienze ricche e stimolanti sotto il profilo sociale, culturale, psicofisico, la possibilità di diventare indipendenti e responsabili prima di diventare scoraggiati. Le famiglie, da sole, non possono assicurare questo indispensabile processo di crescita e di sviluppo, che per sua natura si svolge in gran parte fuori dalle mura di casa. La scuola ha fatto il possibile, ma è stata messa fuori gioco gravemente e a lungo e stenta anche a portare a compimento le sue funzioni essenziali. La risposta deve venire da un ripensamento radicale dei servizi educativi, culturali, sportivi, ricreativi sul territorio, soprattutto nelle aree periferiche e meno privilegiate, per contrastare centimetro per centimetro l’allargarsi delle disuguaglianze. In teoria, il PNRR offre una importante iniezione di risorse perché questa trasformazione possa avviarsi, ma la capacità progettuale delle amministrazioni locali, soprattutto nei piccoli comuni, sta già mostrandosi molto debole. C’è da augurarsi che, con opportuni interventi di orientamento, strategia, e anche di assistenza tecnica, la pioggia di soldi sia destinata a costruire qualche parcheggio in meno e qualche biblioteca, qualche spazio per la socialità, o qualche centro culturale per la musica e l’arte in più.

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