Gramsci e il primato della politica

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Foto di Antonio Gramsci 1891-1937
Inutile negarlo, Gramsci è un intellettuale che appartiene profondamente al suo secolo, a quel Novecento che « Non è uscito dall’età del ferro planetaria» come dice Edgar Morin, anzi « vi è sprofondato». Per meglio dire, di quel secolo è il maggiore pensatore politico italiano e uno dei maggiori dell’epoca: ma di questa porta i segni, le stimmate tragiche, ed anche – è obbligatorio aggiungere – la grandezza. Ma che significa appartiene? Non voglio affatto dire che il suo pensiero si limiti ad essere un mero calco spirituale, la registrazione, il rispecchiamento di una fase della storia del mondo ormai tramontata. Certamente, il lascito di Gramsci è anche questo: come accade a tutti i soggetti che hanno la ventura di lasciare un’impronta nella storia umana. Ogni pensatore lavora con i materiali della propria epoca e alla fine si consegna ad essa. Il progetto rivoluzionario di Gramsci, ad esempio, rimane interno all’industrialismo di primo Novecento. E anche la sua posizione di fronte al taylorismo – lui che con grande lungimiranza aveva per primo intravisto e affrontato il nodo dell’Americanismo e del Fordismo – rimane dentro a quell’orizzonte. Ciò per limiti conoscitivi legati alla sua esperienza personale, e anche per la sua condizione di recluso, « ma forse ancor di più » – come osservò Franco De Felice – per « l’adesione profonda di Gramsci alle forme in cui avveniva la costruzione del socialismo in Unione Sovietica ».Un legame, dunque, ai miti produttivistici del ‘900 che oggi, di fronte agli squilibri ambientali planetari, appare come una datazione limitativa della sue idee.
E tuttavia l’elaborazione teorica (e il vasto lavorìo culturale) dello studioso sardo sconfina, va oltre i limiti cronologici del suo tempo. Come sempre accade ai complessi organismi di pensiero – da quello di Machiavelli a quello di Marx, tanto per fare degli esempi – essi continuano a vivere dentro contesti e scenari diversi rispetto a quelli che li hanno generati. Almeno una parte di quell’ universo di idee continua a vivere, a lampeggiare sotto la coltre del tempo, a parlarci con la lingua viva di problemi universali sempre aperti. D’altra parte, come si spiegherebbe altrimenti la ben nota fortuna internazionale dei suoi scritti – ricordata di recente anche da Simonetta Fiori su « La Repubblica» del 24 febbraio – che continua ad accrescersi con gli anni ? Ovviamente, la coltre di silenzio stesa sul suo nome nella sua patria di origine non fa testo.E’ solo una non necessaria riprova dell’inospitale deserto che è diventata la cultura corrente della politica italiana.

Gramsci vive ancora e dialoga con noi, a mio avviso, perché egli ci parla ancora della centralità della politica, non solo per vincere le battaglie di classe (antico termine che la retorica dei poteri dominanti è riuscita a rendere obsoleta) ma per governare la società, per dare al mondo un ordine necessario.Ricordo che egli si era trovato a fare il suo apprendistato in una fase storica, il primo dopoguerra, nella quale la disgregazione minacciava l’intera compagine sociale del nostro Paese. E già allora – come scriveva nel 1919 su «L’Ordine Nuovo» – egli vedeva nella lotta politica il mezzo per « arrestare il processo di dissolvimento del mondo civile e gettare le basi di un ordine nuovo nel quale sia possibile una ripresa delle attività utili e uno slancio vitale energico e rapido verso forme più alte di produzione e di convivenza. » Val la pena a questo proposito rammentare che Gramsci, elaborando a suo modo la lezione del marxismo, di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre introduce nel movimento socialista italiano una concezione della politica, che fa piazza pulita delle vecchie retoriche, che impianta l’azione di partiti e movimenti sulla conoscenza circostanziata e sistematica della realtà sociale. Scriverà ai giovani della FGCI nel 1923, riflettendo sulla sconfitta ancora bruciante del movimento operaio in quegli anni:« Noi non conosciamo l’Italia. Peggio ancora: noi manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l’Italia, così com’è realmente e quindi siamo nella quasi impossibilità di fare previsione, di orientarci, di stabilire delle linee d’azione che abbiano una certa probabilità di essere esatte». Lo studio, l’indagine, la conoscenza delle strutture profonde della società, la dinamica delle classi, tutto questo vasto lavorìo culturale, secondo Gramsci, doveva precedere e accompagnare l’ azione politica. Ognuno può oggi osservare d’intuito quale siderale distanza separi la straordinaria attualità e superiorità di questo modo di pensare la politica rispetto alla pratica dei sondaggi che orienta l’azione dei partiti nel nostro tempo.Un precipizio culturale e morale che ha ridotto i cittadini e i ceti sociali, e perfino quel che rimane dei militanti, a consumatori dei prodotti del marketing politico, penalizzandoli doppiamente. In primo luogo perchè li priva di ogni reale partecipazione democratica, assimilandoli al ruolo unidimensionale di passivi fruitori di pubblicità elettorale. In secondo luogo perché li costringe a consumare “prodotti” di sempre più scadente qualità.
Occorre peraltro aggiungere che alcuni dei fenomeni a cui qui si accenna solo in piccola parte sono esclusivamente italiani.I processi di messa in crisi dello Stato-Nazione che le Transnational Corporations, coi loro vasti e crescenti interessi planetari vanno realizzando, ridimensionano progressivamente il ruolo dei governi nazionali. In questa medesima direzione si muovono istituzioni internazionali- dal WTO al FMI – che sottraggono autonomia d’azione ai poteri democraticamente eletti e dunque riducono la forza di governo della politica . Dal canto loro, con un processo di autodissolvimento che meriterebbe una analisi specifica, anche i partiti – di destra come di sinistra – lavorano alacremente per rendere definitiva la loro crescente irrilevanza. Puntando tutte le proprie carte di iniziativa politica su liberalizzazioni e privatizzazioni, privatizzazioni e liberalizzazioni, suonando la grancassa di questa misera retorica liberista , neppure si accorgono che vanno svalutando agli occhi del mondo ogni funzione pubblica, e quindi anche la loro.
Ma torniamo a Gramsci. Come molti studiosi di questo grande intellettuale e dirigente hanno da tempo sottolineato, la sua attualità, il segreto della sua non interrotta fortuna, risiede nella formulazione e nelle riflessioni sulla questione dell’egemonia. E’ con tale nucleo del suo pensiero che egli continua a parlarci e a orientarci, a offrirci ancora indirizzi per la lotta politica di oggi. «Ci può e ci deve essere – egli scriveva nel 1929 – una “egemonia politica” anche prima dell’andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica ». Le classi possono limitarsi a un ruolo di dominio, ma possono e debbono svolgere un ruolo dirigente Ecco il cuore della questione: il potere delle idee, la forza persuasiva dei progetti di riorganizzazione più equa della società, la capacità di intercettare e rappresentare realmente gli interessi generali, la prefigurazione di un nuovo ordine mondiale possono ridare alla politica quella centralità che oggi appare così manchevole eppure così drammaticamente necessaria. Benché indubbiamente Gramsci si muovesse nella sua elaborazione entro un’ottica rivoluzionaria – com’era allora naturale – le sue intuizioni aiutano oggi le prospettive di una lotta politica di nuovo necessariamente radicale, ma fondata sul metodo democratico, sulla conquista del consenso.

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