Gli studenti e la corruzione: un commento al sondaggio della Sapienza

Maurizio De Giovanni partendo proprio dai risultati del sondaggio e, in particolare, da quelli riguardanti, da un lato, il giudizio morale che gli studenti danno della corruzione e, dall’altro, i loro effettivi comportamenti, fornisce un’interpretazione di quella che sembra essere un’evidente contraddizione. Con il suo stile di scrittore acuto, penetrante e franco De Giovanni chiama in causa i valori ai quali i giovani vengono educati e, dunque, le responsabilità dei padri.

Non so voi, ma quando mi trovo di fronte ai rapporti percentuali che derivano da sondaggi, analisi, indagini di mercato e simili provo un senso di smarrimento. Tutti quei dati mi sembrano ogni volta interpretabili in vari modi, spesso opposti fra loro a meno che non riportino semiunanimità bulgare e a quel punto lo smarrimento è di altra natura.

Quando poi le domande (e le risposte) raccontano dell’universo giovanile, la mia lettura diventa trepidante e preoccupata. Mi cullo nella convinzione che i ragazzi siano nettamente migliori di noi, che abbiano un senso del presente e quindi del futuro non inficiato da pregiudizi sclerotici formati dall’errata lettura del passato; sono consapevole del fatto che la nostra incerta, balbettante, pressappochista e ipergaudente generazione sia la prima, da quella incolpevole della seconda guerra mondiale, a lasciare ai propri figli un mondo decisamente peggiore di quello ereditato. E quindi spero e credo che questi ragazzi, a partire da quelli ormai pronti a prendere le redini del comando da noi mollemente ma caparbiamente mantenute fino ad oggi, riusciranno a fabbricare un pianeta migliore.

La mia granitica convinzione è anche (forse soprattutto) frutto di un’egoistica speranza: mi piacerebbe poter godere immeritatamente la vecchiaia assistendo a una bella ripresa, che non abbia solo risvolti economici ma anche di valori, che cavalchi un’onda di ottimismo sorridente ma non esaltato, un entusiasmo gentile che sia anche un po’ incosciente ma che abbia in sé i semi di un futuro venato di rosa.

Ecco perché la lettura dei dati del sondaggio sulla corruzione presso gli studenti della Facoltà di Economia dell’Università della Sapienza mi hanno davvero scosso. A freddo e razionalmente non mi sento di gridare all’orrore o anche di scandalizzarmi più di tanto: si tratta di ragazzi che hanno già piena cognizione di come tristemente funziona il mondo, e aspettarsi che si gridi all’untore quando ci si trova di fronte all’eventualità di prendere, mantenere o migliorare un lavoro in questo tempo di guerra è davvero troppo. Ma all’indomani dell’affaire Venezia, con le pagine dei giornali invase dal terremoto di tangenti che vorticavano attorno al Mose come il vento di un tornado, dopo l’Expo milanese inficiato dalla corruzione a tutti i livelli, ci si sarebbe aspettato almeno il prevalere dell’istinto di conservazione: con la corruzione, ragazzi, si va in galera. E si perdono assai facilmente le posizioni di potere guadagnate con fatica.

Invece, eccoci di fronte al risultato che i più cinici avrebbero facilmente previsto. In sintesi, la corruzione è una gran brutta cosa ma se può aiutare a risolvere la questione, be’, c’è di peggio.

Invece no. Non c’è di peggio.

Perché è la corruzione, a ben guardare, il delitto peggiore; quello contro la fiducia, contro il futuro. Il delitto odioso di chi ha sempre sognato una poltrona e non una funzione, per il bene proprio e il danno alla collettività. Domande secche e risposte secche nel rapporto del sondaggio: freddi numeri e tristi percentuali.

Quel 43% circa che ritiene che la corruzione sia necessaria per avere successo nella vita, soprattutto: molti ragazzi che studiano, che ridono, che bevono una birra e che suonano la chitarra in piazza dopo una giornata sui libri; quelli il cui pensiero ci fa sentire sporchi e sbagliati, quelli che dovrebbero accusarci di avergli inguaiato il futuro si sentono invece pronti a fare anche di peggio per il proprio tornaconto personale.

E’ il fattore etico che è morto, diranno i vittoriosi cinici. Perché proteggere un valore che è necessario alla collettività, se quello che insegniamo ai nostri ragazzi è sempre e comunque il perseguimento del benessere personale? Se gli abbiamo detto fin da piccolissimi che l’importante è vincere, prevalere, fare fortuna? Se continuiamo a dire che se non ci si può permettere quel prodotto, quella macchina, quel vestito o quell’orologio non ci si può aspettare un soddisfacente riconoscimento sociale? E’ la persona contro la comunità, baby: ci si deve rassegnare.

Qualche anno fa si gridò allo scandalo quando, pur senza la veste scientifica del sondaggio, si volle chiedere ai bambini delle elementari di Scampia chi avrebbero voluto essere e la gran parte mise in cima ai modelli i boss della camorra. Perché? Per uccidere, per usare violenza, per prevaricare? No: per avere donne, soldi, auto di lusso, bei vestiti e riconoscimento sociale.

In una parola: avere successo nella vita.

I bambini di uno dei posti più degradati del mondo, la patria della criminalità organizzata, la piazza di spaccio più ampia d’Europa alla fin fine hanno lo stesso target dei colti studenti, prossimi brillanti professionisti, di una delle più prestigiose università del paese. C’è da esserne fieri, a pensarci: vuol dire che il gap tra i due contesti è meno ampio e profondo di quanto ci si aspettava.

Al di là della fragile e torbida ironia, i segnali che arrivano dal secco gioco di domande e risposte, quello che non consente i distinguo e i ricorsi all’equivoco, definiscono un quadro morale che non lascia immaginare nulla di rivoluzionario nell’immediato futuro. E che ci conferma che le colpe dei padri ricadono sui figli, che sono prontissimi a recepire l’insegnamento di chi li precede.

Purtroppo.

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