Gli italiani emigrati all’estero. Effetti sulle imprese

Emanuele Di Carlo si sofferma sul fenomeno dell’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera e si chiede quali siano i suoi effetti sulle imprese italiane. Utilizzando dati INPS, Di Carlo individua una diminuzione del numero di imprese e una perdita di capitale umano specifico con conseguenze negative per produttività e salari, solo in parte compensate dai maggiori investimenti in capitale fisico. Questi effetti negativi sono concentrati nelle imprese in cui è intenso l’utilizzo di lavoro altamente qualificato.

Il fenomeno degli italiani emigrati all’estero ha raggiunto dimensioni difficili da trascurare. Secondo le stime ISTAT negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso circa 500 mila residenti (la metà ha meno di 35 anni), che si sono trasferiti all’estero principalmente per motivi di lavoro. Una fuga di lavoratori che rappresenta una perdita di competenze e di capitale umano per il nostro paese.

Un aspetto fin ora poco dibattuto e studiato riguarda come le conseguenze di queste emigrazioni si ripercuotono sulle imprese italiane che ne vengono coinvolte per almeno due motivi: non solo perdono quei lavoratori che si traferiscono all’estero, ma hanno anche un bacino di lavoratori più esiguo da cui attingere nuove competenze.

Vi è una dimensione specifica dell’emigrazione che può aiutare a quantificare le ripercussioni a livello di impresa: il lavoro transfrontaliero. I lavoratori transfrontalieri prestano lavoro in una nazione diversa da quella di residenza dove rientrano quotidianamente (o settimanalmente). Il lavoro transfrontaliero in Italia si concentra principalmente nelle regioni del nord che confinano con la confederazione elvetica, la cui ricca economia attira da più di cinquant’anni i lavoratori italiani. La concentrazione dei frontalieri nei territori di confine con la Svizzera insieme alla liberalizzazione del mercato del lavoro tra Svizzera e Unione Europea negli anni 2000 permette di far luce su quali possano essere le conseguenze dell’emigrazione per le imprese che perdono questi lavoratori.

L’adesione della Svizzera alla libera circolazione delle persone ha prodotto un incremento senza precedenti nel numero di lavoratori frontalieri. Confrontando le aziende italiane collocate in comuni più vicini al confine con quelle più lontane, prima e dopo la liberalizzazione del mercato del lavoro, è possibile studiare l’effetto sulle imprese della perdita di personale che inizia a lavorare per imprese che si trovano in Svizzera e della riduzione dell’offerta di lavoro nelle aree in cui queste imprese operano.

Il contesto italo-svizzero tra il 1994 ed il 2015 A cavallo dei primi anni duemila l’entrata in vigore del trattato sulla libera circolazione delle persone tra Svizzera ed Unione Europea ha determinato un forte incremento dei lavoratori che ogni giorno attraversano la frontiera per recarsi al lavoro. Oggi lavorano in Svizzera circa 300 mila italiani. Nel periodo oggetto di studio i lavoratori frontalieri sono passati da poco più di 20 mila a quasi 80 mila unità (figura1).

Figura 1 – Frontalieri italiani in Svizzera

Fonte: dati ZEMIS e INPS

La graduale eliminazione delle barriere legali ha reso possibile per un maggiore numero di lavoratori italiani accedere ai salari più elevati pagati in Svizzera. Il salario medio nel periodo di studio è infatti di 1.800 euro nelle aree di confine italiane, mentre nei cantoni svizzeri a pochi chilometri di distanza è di circa 4.200 euro. L’incremento nel numero di frontalieri è stato particolarmente marcato per i lavoratori più qualificati e con istruzione terziaria: per questi il gap salariale è ancora più forte, 2.200 contro 6.000 euro.

I transfrontalieri risiedono in gran parte in comuni dai quali è possibile raggiungere in auto il confine entro trenta minuti. Nei comuni oltre 30 minuti dalla frontiera invece, la percentuale di lavoratori frontalieri è prossima allo zero (figura 2). Questa distribuzione dei lavoratori nelle aree di confine permette di stimare il deflusso di lavoratori dalle aziende italiane prossime al confine e la performance economica di queste ultime, confrontandola nel tempo con quella di aziende collocate in comuni limitrofi più distanti (i.e. a oltre 30 minuti dal confine).

Figura 2 – Frontalieri italiani in Svizzera per comune

Il deflusso di lavoratori e la perdita di produttività delle aziende italiane Analizzando i dati INPS sulla totalità delle aziende e dei lavoratori nelle aree di confine, emerge come a seguito delle liberalizzazioni le aziende italiane delle aree di confine hanno subito un deflusso di forza lavoro. Le imprese a meno di 15 minuti dal confine hanno perso ogni anno circa mezzo punto percentuale in più della loro forza lavoro originaria rispetto a quelle oltre 30 minuti (figura 3 pannello a). In circa 15 anni (figura 3 pannello b) le imprese più vicine al confine hanno perso almeno 12 punti percentuali in più della loro forza lavoro – 4 punti percentuali per le imprese tra 15 e 30 minuti – e subito un turnover quasi doppio rispetto alle imprese oltre 30 minuti.

Per quanto riguarda la natalità e la mortalità delle imprese, l’entrata netta delle aziende nelle aree entro 30 minuti è stata inferiore di 2 punti percentuali rispetto alle aree oltre 30 minuti, con una perdita di circa un centinaio di aziende.

Le imprese rimaste sul mercato hanno cercato di mantenere costante il numero di occupati reclutando nuovi lavoratori a stipendi mediamente più bassi (meno 1,4%) e aumentando gli investimenti in capitale fisso (più 4%). Ne è comunque risultato un calo nella produttività (valore aggiunto per addetto e produttività totale dei fattori) dell’8%, rispetto al gruppo di imprese più distanti.

I settori a più alto contenuto tecnologico sono i più colpiti Analizzando i risultati per diversi settori di attività economica, si scopre che la perdita di produttività si concentra nel manifatturiero e soprattutto nelle industrie ad alto contenuto tecnologico (es. farmaceutiche, chimiche). Queste ultime mostrano una riduzione del salario medio tramite una crescita salariale inferiore per i neoassunti. Analizzando i lavoratori neoassunti, questi ultimi non risultano meno qualificati per sé. Di conseguenza, la perdita di produttività è verosimilmente attribuibile a una carenza di personale con capitale umano specifico per l’azienda. In altri termini, vi è una carenza di lavoratori con competenze acquisite sul campo, competenze che richiedono tempo per essere assimilate e che risulta difficile formare e trattenere in un contesto di elevato turnover. Gli effetti appaiono più mitigati per le imprese del manifatturiero tradizionale (es. tessili, legno), dove le perdite in produttività non si ripercuotono sui salari, ma solo in termini di valore aggiunto.

Non si riscontrano effetti negativi, invece, nel settore dei servizi tradizionali (alberghiero, commercio, ristorazione, servizi della persona). Le imprese hanno anzi una probabilità più alta di entrare in questi settori a più basso valore aggiunto a seguito della liberalizzazione del mercato del lavoro.

Figura 3 – Uscita dei lavoratori dalle imprese italiane

Fonte: dati INPS

Gli effetti negativi dell’emigrazione dei lavoratori sembrano quindi agire principalmente attraverso due canali: una diminuzione del numero di imprese operanti sul mercato e una perdita di produttività, che si traduce anche in minori salari. L’evidenza empirica suggerisce che l’apertura del mercato svizzero ha comportato una perdita di capitale umano specifico all’impresa, scarsamente reperibile sul mercato del lavoro, generando perdite in termini di produttività e salari, solo in parte compensate dai maggiori investimenti in capitale fisico.

Il rischio è di instaurare un circolo vizioso dove la perdita di lavoratori con elevate competenze possa ulteriormente deteriorare il sistema produttivo, sempre meno in grado di attrarre lavoratori qualificati per i quali sarà più probabile trasferirsi all’estero.

Quali strumenti e prospettive L’emigrazione può avere effetti molto positivi se di natura temporanea e finalizzata ad accumulare nuove competenze all’estero. La letteratura mostra come gli incentivi al rientro sono più forti, specialmente per i professionisti più qualificati, quando la nazione di origine ha ampie prospettive di crescita.

Al fine di mitigare le conseguenze negative dell’emigrazione sulle imprese è essenziale ridurre il gap salariale (con altre nazioni) dei lavoratori, specie quelli più qualificati, e incentivarne il rientro e l’assunzione da parte delle imprese. In questo senso due vie sono percorribili in parallelo. Da un lato, può essere efficace potenziare e spronare le aziende a sfruttare le recenti misure di incentivo all’innovazione per favorire aumenti di produttività attraverso investimenti in ricerca e sviluppo, nella digitalizzazione e nell’efficientamento dei processi, permettendo alle aziende di pagare salari più elevati. Dall’altro lato, può essere efficace non solo potenziare gli incentivi per i lavoratori che rientrano in Italia o più in generale per aumentare il flusso di lavoratori ad alta qualifica dall’estero, ma fornire anche, preservando i saldi di finanza pubblica, incentivi alle imprese che li assumono.

 

*Le opinioni espresse sono esclusivamente quelle degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell’INPS e dell’Istituzione di appartenenza.

*Questo articolo esce in contemporanea su Lavoce.info

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