Gli investimenti in infrastrutture riducono le disuguaglianze?

Chiara Ricci analizza un recente lavoro di Hopper, Peters e Pintus sulla correlazione tra la spesa per infrastrutture e la disuguaglianza dei redditi che utilizza dati longitudinali riferiti agli stati federati statunitensi nel periodo 1950-2010. I risultati, nonostante i limiti dell’analisi empirica proposta, offrono sostegno alla tesi che maggiori investimenti in infrastrutture favoriscono una riduzione delle disuguaglianze. Ricci conclude richiamando gli strumenti di policy indicati dagli autore per favorire il finanziamento delle opere infrastrutturali.

Il tema del rilancio degli investimenti in infrastrutture per favorire la ripresa dell’economia è di grande attualità nel dibattito di politica economica degli ultimi anni in Europa, negli Stati Uniti, in Asia e nei paesi in via di sviluppo. Le politiche infrastrutturali rientrano, infatti, tra le priorità dei governi nazionali e delle istituzioni europee e internazionali che hanno predisposto strategie e investimenti in questo ambito allo scopo di favorire lo sviluppo economico. A livello globale, gli investimenti in infrastrutture, analogamente a quelli in innovazione, in ricerca e sviluppo e in formazione, sono ritenuti, infatti, tra i fattori decisivi per la crescita e la competitività di un Paese. Sull’impatto macroeconomico della spesa per infrastrutture si discute molto e le evidenze empiriche sono discordanti. Tuttavia, la comune convinzione è che gli investimenti pubblici in opere strutturali siano una delle componenti più importanti della domanda aggregata poiché possono, da un lato, sostenere la domanda nel breve termine, dall’altro, contribuire a migliorare il reddito potenziale nel lungo periodo innalzando la produttività totale e quella dei singoli fattori privati. Inoltre, è profondamente radicata l’idea che dalla dotazione infrastrutturale dipenda la coesione sociale ed economica come dimostra, ad esempio, la rilevanza riconosciuta agli interventi per la realizzazione di opere nel settore dei trasporti, dell’energia, dell’edilizia sociale e del dissesto idrogeologico nell’ambito delle politiche di sviluppo comunitarie.

Un recente articolo di E.Hopper, S.Peters e P. Pintus (“To What Extent Can Long-Term Investments in Infrastructure Reduce Inequality?”, 2017) esamina la spesa per infrastrutture e la disuguaglianza dei redditi allo scopo di verificare se esiste una correlazione tra queste due dimensioni. Più specificamente, gli autori si propongono anche di indagare se gli investimenti in infrastrutture hanno effetti differenziati sulla disuguaglianza nella parte bassa e quella alta della distribuzione dei redditi.

La ricerca prende spunto dai molti studi econometrici che, a partire dai lavori di Simon Kuznets, hanno indagato il nesso di causalità tra crescita e disuguaglianza, ed in particolare gli effetti della seconda sulla prima, con risultati incerti e non convergenti. Secondo alcuni di essi, questi effetti sarebbero di segno negativo (una più elevata disparità di reddito riduce la crescita) secondo altri, invece, di segno positivo (una maggiore disuguaglianza incrementa la crescita). Il filone di studi più recente in questo ambito ha però dimostrato che la relazione può dipendere dalla parte della distribuzione che si considera. Ad esempio, Voitchovsky (“Does the Profile of Income Inequality Matter for Economic Growth?”, 2005) mostra che la disuguaglianza nella parte superiore della distribuzione del reddito favorisce la crescita economica mentre una maggiore disparità nella parte bassa ha effetti negativi. Dal canto suo, Milanovic (“Global Inequality, A New Approach for the Age of Globalization”, 2016, i cui aspetti salienti sono riportati in una precedente scheda del Menabò) sostiene che alti livelli di disuguaglianza riducono il tasso di crescita di reddito dei più poveri ma incrementano quello dei ricchi. Da questa breve rassegna, risulta quindi chiaro perché l’analisi della relazione tra spesa per infrastrutture e disuguaglianza sia molto complessa. Essa, infatti, non può prescindere dall’interrelazione tra disuguaglianza, redistribuzione e crescita che, come si è appena visto, sono molto controversi.

Consapevoli di questi limiti, Hopper, Peters e Pintus offrono con la loro analisi un contributo a supporto della tesi che maggiori investimenti in infrastrutture favoriscono la mobilità geografica e la riduzione delle disuguaglianze.

Nell’analisi empirica gli autori considerano un campione di dati longitudinali relativo agli stati federati statunitensi per i quali, oltre a disporre di dati facilmente accessibili e affidabili per il periodo 1950-2010, sono osservabili differenze significative sia nei livelli di disuguaglianza registrati nel tempo tramite l’indice di Gini (calcolato, rispettivamente, sull’intera distribuzione del reddito, sul 40% della parte alta e sul 40% della parte bassa della distribuzione) che nei valori di spesa per infrastrutture.

I dati sugli investimenti sono di fonte US Census Bureau: si tratta di stime annuali della spesa dei singoli stati statunitensi su un periodo di 60 anni. Poiché questa banca dati è molto estesa e comprende numerose categorie di investimento, Hopper e gli altri ricercatori si focalizzano sui finanziamenti che ritengono maggiormente strategici, ossia quelli per opere nel settore dei trasporti (strade, autostrade, ponti, ferrovie etc.) e nel settore dell’edilizia scolastica (manutenzione, messa in sicurezza e costruzione di scuole) nel quale includono la spesa per acquisto di mezzi di trasporto per gli studenti. Con un modello econometrico ad effetti fissi, gli autori stimano una correlazione negativa tra l’indice di Gini e la spesa per infrastrutture, indipendentemente dal fatto che si tratti di quella dedicata ad opere nel settore dei trasporti o quella per favorire l’istruzione. In altre parole, gli stati che hanno investito importi crescenti nell’arco di un decennio per la mobilità e/o il sostegno alle infrastrutture per l’istruzione mostrano disparità di reddito inferiori alla fine del periodo di riferimento.

Valutando la dimensione dei coefficienti stimati, gli investimenti in infrastrutture per la mobilità sembrano avere un maggiore impatto sulla disuguaglianza rispetto a quelli per l’istruzione. Ciò è spiegato con il fatto che in molti stati negli ultimi anni si è verificata una riduzione in termini reali della spesa per i trasporti, mentre solo in pochi casi si registrano tassi di crescita negativi della spesa per l’istruzione. Inoltre, in generale, si osserva un effetto relativamente più elevato della spesa per opere infrastrutturali sulla disuguaglianza tra gli individui che si collocano nel 40% più basso della distribuzione dei redditi. Come mettono in luce gli autori, i risultati emersi non appaiono trascurabili dal punto di vista economico in quanto, ad esempio, un aumento del 7% della spesa pubblica per infrastrutture nell’arco di dieci anni comporterebbe, a parità di altri fattori, una riduzione del Gini pari a 0,003 in media.

A partire da questa evidenza, il secondo obiettivo del lavoro è quello di presentare possibili strumenti di politica economica in grado di superare i molti ostacoli al finanziamento degli investimenti in opere pubbliche nei paesi avanzati e in via di sviluppo. Gli autori approfondiscono, in particolare, i contratti di Partenariato Pubblico-Privato (PPP) che negli ultimi tempi hanno assunto sempre maggiore interesse anche in Europa come possibile forma di investimento a disposizione degli enti locali. Tali contratti costituiscono una forma di cooperazione tra settore pubblico e privato finalizzata alla realizzazione di opere e alla gestione di servizi. Poiché le operazioni di partenariato per l’ente pubblico devono costituire una opportunità per realizzare opere pubbliche alle migliori condizioni sia dal punto di vista finanziario che tecnico, i tre autori sostengono che un terzo attore, come una banca di sviluppo, dovrebbe svolgere un ruolo rilevante; in particolare potrebbe contribuire a ridurre i rischi connessi al progetto e a ripartirli in modo più efficiente. Inoltre, indicano altre politiche che potrebbero essere adottate: le piattaforme di investimento, oggi largamente promosse dalle istituzioni internazionali, e le entrate fiscali derivanti dai profitti rimpatriati che potrebbero svolgere un ruolo significativo nel finanziamento della spesa in infrastrutture.

In conclusione, l’analisi di Hopper, Peters e Pintus offre utili elementi per una valutazione più robusta dell’impatto che la spesa per investimenti in infrastrutture può avere sulle condizioni di vita dei cittadini e richiama l’attenzione sull’importanza di effettuare analisi tempestive sulla qualità della spesa per investimenti anche per limitare un rischio che è stato documentato da diversi studi, quello che i potenziali benefici degli investimenti pubblici vengano persi a causa di inefficienze nella loro gestione. Le amministrazioni locali dovrebbero dotarsi di questa capacità di valutazione socio-economica degli investimenti, dal punto di vista micro, superando una deficienza che oggi sembra essere piuttosto generalizzata.

In Italia il primo passo fondamentale per massimizzare gli effetti positivi della spesa per infrastrutture è rappresentato dalla piena attuazione del quadro normativo esistente, delineato nell’ambito del processo di riforma del Bilancio dello Stato, che regola l’intero processo di realizzazione di opere pubbliche sulla base dei concetti interdipendenti di programmazione, monitoraggio e valutazione. Non occorrono studi specialistici per sostenere che se migliorasse la capacità di allocazione e realizzazione degli investimenti per date risorse finanziarie si ridurrebbe la persistente disuguaglianza nelle dotazioni infrastrutturali, in termini fisici, sia tra l’Italia e i principali Paesi europei, sia tra il Mezzogiorno e il resto del territorio nazionale.

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