Gli equilibristi sul filo del deficit che fa scendere il debito

Roberto Tamborini osserva che la ragione principale delle critiche alla "Finanziaria del popolo" delineata nella Nota di aggiornamento al DEF riguarda l'impatto del deficit programmato del 2,4% per il 2019 sul già elevatissimo debito pubblico italiano. Richiamando l'idea del governo secondo cui se il deficit fa crescere il Pil più del debito, il rapporto debito/Pil scende, con la conseguenza che i creditori dello Stato italiano si rassicurano e lo spread non sale, Tamborini si chiede se tale idea abbia solidi fondamenti

La “Finanziaria del popolo” delineata nella Nota di aggiornamento al DEF del nuovo governo suscita molte preoccupazioni e critiche da parte dei partiti di opposizione, esponenti dell’industria e della finanza, numerosi economisti ed esperti, la Commissione europea. La ragione principale riguarda l’impatto del deficit programmato del 2,4% per il 2019 sul già elevatissimo debito pubblico italiano (sebbene nell’ultime dichiarazioni si parli di una successiva riduzione). Ci sono numerosi altri aspetti (più importanti?) della politica fiscale giallo-verde che possono essere discussi, tuttavia qui esamineremo solo questo problema, che al momento appare come il più caldo.

La Commissione europea potrebbe bocciare il piano in quanto, pur rimanendo entro il limite del 3% di disavanzo, esso vìola l’impegno dei paesi ad alto debito a farlo diminuire in maniera adeguata. Il famigerato Fiscal Compact, sottoscritto dall’Italia, richiederebbe un taglio del rapporto debito/Pil di un ventesimo all’anno per la parte eccedente il 60% , vale a dire circa 3,5 punti di Pil per l’Italia. Una cifra del tutto irrealistica, che la Commissione potrebbe non mettere in conto, ma ciò non significa che potrà far passare una manovra che faccia aumentare il debito/Pil. La gran parte dei paesi europei non è disposta a convivere con un condòmino che può far crollare l’intero edificio da un momento all’altro. Alcuni esponenti della maggioranza di governo sono convinti, e vogliono convincere il resto del mondo, che la manovra in disavanzo non avrà effetti sul debito, o potrà ridurlo, grazie al suo effetto sulla crescita del Pil (altri esponenti invece oppongono un ducesco “me ne frego”). L’idea è che se il deficit fa crescere il Pil più del debito, il rapporto debito/Pil scende, i creditori dello Stato italiano si rassicurano sulla sua solvibilità, il famigerato spread non sale, e tutto andrà benissimo. Il miracolo del deficit che fa scendere il debito può succedere davvero?

Diciamo subito che, in teoria, la risposta è sì, può succedere. L’idea suddetta, tradotta nella formula che fornisce la variazione annuale del debito/Pil, si realizza a condizione che (cfr. R. Tamborini in The European Journal of Comparative Economics 2013 e D. M. Nuti “Perverse fiscal consolidation”, Conference on Economic and Political Crises in Europe and the United States, Trento 2013):

moltiplicatore fiscale x debito/Pil > 1

 

Contabilmente, un euro in più (in meno) di spesa pubblica in beni e servizi si aggiunge (sottrae) al Pil, mentre il prelievo fiscale incide sulla formazione del reddito disponibile. Il moltiplicatore fiscale indica se e di quanto aumenta (diminuisce) il Pil per ogni euro in più (in meno) di deficit nel saldo tra gettito fiscale e spesa. Nello stesso tempo l’euro in più (in meno) di deficit si aggiunge (sottrae) al debito pubblico esistente. Nel caso di deficit, se il prodotto tra moltiplicatore e debito/Pil iniziale è maggior di 1, il numeratore (il debito) cresce meno del denominatore (il Pil), e quindi il rapporto debito/PIL scende. Si può notare che questa formula sembra contenere un paradosso: è più facile da realizzare per un paese ad alto debito, mentre la saggezza convenzionale dice l’opposto. La ragione matematica è semplice: se il debito iniziale è alto, ogni euro in più lo fa aumentare relativamente poco, e quindi basta un moltiplicatore relativamente piccolo per ottenere un aumento del Pil sufficiente a far diminuire il rapporto debito/Pil. Una precisazione importante: tale diminuzione va intesa rispetto all’andamento tendenziale del debito/Pil che avverrebbe se rimanessero invariati rispetto all’anno precedente il saldo di bilancio, la spesa per interessi sul debito e il tasso di crescita del Pil nominale –cioè inclusa l’inflazione.

A onor del vero va ricordato che questo meccanismo non è puramente teorico in quanto se ne sono visti gli effetti, sebbene di segno opposto, in occasione delle politiche di austerità applicate ai paesi ad alto debito della Zona Euro negli anni 2010-15, nonostante le quali il debito rispetto al Pil è continuato a crescere. Si scoprì infatti che i moltiplicatori fiscali erano molto più alti del previsto (O. Blanchard, D. Leigh, in American Economic Review, Papers and Proceedings, 2013). Combinati con rapporti debito/Pil elevati hanno contribuito a trasformare la restrizioni fiscali in aumenti del debito/Pil.

Torniamo alle cifre di casa nostra. Prima di tutto bisogna mettere un po’ d’ordine. Come spiegato sopra, in questo esercizio previsionale occorre prima di tutto misurare l’andamento tendenziale del rapporto debito/PIL nel 2019. A questo scopo rileva il saldo di bilancio effettivo che si realizzerà a fine 2018 da mantenere invariato nel 2019, non quello che aveva promesso il governo precedente o quello che prescriverebbero le regole fiscali della Commissione europea. Siccome i conti del 2018 non sono chiusi, già su questo dato regna una certa incertezza. Secondo i dati attualmente disponibili su Eurostat (la fonte utilizzata dalla Commissione), per il 2018 il deficit pubblico italiano è dato a 1,7% del Pil. Alcuni esponenti politici parlano invece di una eredità del 2%, e ad esempio i dati trimestrali prodotti dalla Banca centrale europea puntano verso quel valore. Diciamo quindi che il programma del governo per il 2019 comporterebbe un maggior deficit nell’ordine di grandezza tra 0,4 e 0,7 punti di Pil. Sulla base della stima di un deficit/PIL del 2018 di 1,7%, e di un debito/PIL a 130,7% la previsione Eurostat per il 2019 a deficit invariato è che il debito calerebbe di un punto di Pil. Premesso che questa discesa inerziale potrebbe essere considerata insufficiente dalla Commissione, partendo da un debito/Pil del 130,7% il miracolo giallo-verde di aggiungere 0,7 punti di deficit e far scendere il debito/PIL almeno quanto il tendenziale si realizzerà per un moltiplicatore pari almeno a 0,76.

Cosa ci dice questo numero? Ci dice che è sufficiente che un euro di deficit in più crei almeno settantasei centesimi di Pil. E’ un obiettivo realistico o una missione impossibile? Purtroppo la ricerca empirica sui moltiplicatori fiscali è vastissima, ma assai poco conclusiva, anche perché è stato stabilito che non esiste una stima valida per tutte le stagioni (utili letture di rassegna delle stime sono M. Tancioni, Nel Merito, 15-2-2013, e S. Gechert et al “Fiscal Multipliers in Downturns and the Effects of Eurozone Consolidation”, CEPR Policy Insight, n. 79, 2015). Per esempio, prima della crisi l’opinione prevalente era che nei paesi avanzati i moltiplicatori fiscali fossero intorno a 0,5, e comunque raramente superiori a 1. Una forchetta che farebbe pensare che 0,76 non sia un’asticella terribilmente alta da superare. La crisi però ha infranto molte certezze. Provo a sintetizzare quel che sappiamo.

  • Non esiste un unico moltiplicatore: ogni voce del bilancio pubblico ne ha uno; quindi è molto importante la composizione del bilancio ovvero cosa determina il deficit.
  • Il moltiplicatore cambia secondo il ciclo economico: durante una recessione è molto più alto (ben oltre 1) che in una fase espansiva.
  • Il moltiplicatore è il risultato finale di una lunga concatenazione di effetti diretti e indiretti, tra cui sono molto rilevanti l’andamento dei tassi d’interesse, del tasso di cambio, e del tasso d’inflazione, e quindi anche la politica monetaria della banca centrale.
  • Il moltiplicatore è sensibile allo stato di fiducia dei finanziatori del debito e dei contribuenti. Se c’è poca fiducia nel successo della manovra il moltiplicatore rimane basso perché i finanziatori vogliono subito un premio per il rischio più alto (aumentano i tassi d’interesse) e i contribuenti invece di spendere di più accantonano risorse per far fronte a una prossima stangata fiscale.

Una valutazione accurata e non ideologica del piano fiscale del governo (detto sia per chi lo legge sia per chi lo propone) richiederebbe quindi di esaminare i fattori che potranno giocare a favore o a sfavore delle condizioni suddette. Andiamo con ordine.

Primo, la composizione della manovra non gioca a favore. I suoi due pilastri sono la cosiddetta “flat tax“, una riduzione d’imposte, e il cosiddetto “reddito (e pensione?) di cittadinanza”, un trasferimento alla famiglie. Come già detto, un euro di spesa pubblica in beni e servizi equivale contabilmente ad un euro di Pil in più, mentre un euro di tasse in meno o di trasferimenti in più incide sul reddito disponibile dei beneficiari, e solo in seconda battuta sul Pil, nella misura in cui il reddito aggiuntivo viene speso. Varie esperienze storiche, dai tagli delle tasse di Reagan e Thatcher agli 80 euro di Renzi, mostrano, pur per ragioni e contesti diversi, che gli esiti delle decisioni di spesa dei beneficiari sono incerti e possono avere effetti moltiplicativi modesti. Per questa ragione i princìpi basilari della finanza pubblica raccomandano che riforme fiscali e trasferimenti alle famiglie di natura strutturale non siano fatti in deficit. Un governo che si proclama coraggioso e innovativo non realizza i suoi programmi sociali prioritari di lungo termine facendo debiti, ma attraverso operazioni redistributive che realizzino i loro obiettivi in maniera stabile e sostenibile.

Secondo, se invece l’obiettivo è stimolare la domanda aggregata per superare una fase recessiva, allora si passa ad un orizzonte per sua natura temporaneo. Bisognerebbe prima di tutto verificare lo stato ciclico dell’economia, e in particolare quali sono le componenti deficitarie della domanda, concentrandovi le risorse pubbliche. Inoltre, misure anticicliche corrette devono essere reversibili (come i sussidi di disoccupazione) o con capacità di adeguato ritorno economico e fiscale futuro (come gli investimenti infrastrutturali, dei quali molto si parla nelle dichiarazioni e nei documenti governativi, ma poco si vede nel piano finora circolato). Di tutta questa analisi di cornice non vi è traccia, e comunque l’economia italiana è, seppur lentamente, in ripresa così che i fattori che amplificano i moltiplicatori fiscali sono meno incisivi.

Terzo, l’evoluzione della politica monetaria non sarà favorevole in quanto gli acquisiti di titoli pubblici da parte della BCE cesseranno, affidando il tasso d’interesse del debito italiano alle sole forze di mercato. Se inoltre dovessero arrivare severi declassamenti da parte della agenzie di rating, gli acquisti della BCE cesseranno subito in forza delle norme vigenti.

Quarto, lo stato di fiducia di finanziatori e contribuenti è sempre difficile da prevedere, e sappiamo che può mutare rapidamente. L’ampio consenso di cui gode attualmente la maggioranza di governo potrebbe tradursi in un’elevata fiducia dei contribuenti che li renderà propensi a spendere i denari ricevuti. Molto più incerta sarà la reazione di chi dovrà prestare i propri soldi allo Stato italiano, che in buona parte saranno anche gli stessi contribuenti. Per esempio, la psicologia economica mostra come la nozione che un elevato debito pubblico equivalga a maggiori tasse future sia molto più labile del timore di subire perdite dei propri risparmi investiti in titoli pubblici. Il contribuente fiducioso può essere nello stesso tempo un risparmiatore molto ansioso sul destino immediato dello spread, indipenden­temente dai complotti degli speculatori stranieri.

Di tutti i fattori che possono far fallire il miracolo giallo-verde, il più pericoloso sta proprio nella volatilità della fiducia dei finanziatori. I calcoli presentati sopra presumono condizioni di mercato invariate. Il dato critico è il tasso d’interesse medio sul debito, che nel 2018 (finora) si attesta al 2,8% con un esborso d’interessi pari al 3,6% del Pil. Si tratta di valori bassi nell’arco degli ultimi dieci anni. Se il costo di finanziamento del debito dovesse salire rapidamente, come fa presagire l’aumento della febbre dello spread, portandosi dietro tutta la filiera dei tassi d’interesse, scatterebbero due effetti peggiorativi sull’andamento del debito/Pil. Da un lato aumenterebbe il deficit corrente ovvero la crescita del debito, dall’altra si ridurrebbe il moltiplicatore per via dei tagli delle spese private dipendenti dall’aumento dei tassi d’interesse. Per scongiurare questo scenario occorrerebbe che il Pil da subito corresse più veloce del debito sostenendo così la fiducia, ma è noto che la politica fiscale, al netto di annunci e promesse, è infinitamente più lenta della finanza.

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