Gli effetti della pandemia sulla povertà assoluta: segnali preoccupanti da decifrare meglio

Andrea Cutillo, Ilaria Arigoni e Valeria de Martino presentano i dati preliminari sull’andamento della povertà assoluta nel 2020, recentemente diffusi dall’Istat. Nel corso del 2020, le spese per consumi delle famiglie sono scese del 9,1%; contestualmente, l’incidenza della povertà assoluta familiare è salita dal 6,4 al 7,7% e quella individuale dal 7,7 al 9,4%. Non è, però, chiaro quanto l’aumento di povertà sia dovuto al ridotto potere d’acquisto e quanto alla contrazione dei consumi nelle categorie di spesa maggiormente colpite dalle misure restrittive del Governo.

Il 4 marzo 2021 l’Istat ha pubblicato una Statistics Today su povertà assoluta e spese per consumi nel corso del 2020. Si tratta di un’uscita anticipata, e necessariamente provvisoria, rispetto alla consueta diffusione prevista a giugno 2021. L’Istat ha così risposto in maniera rapida ed efficace alla necessità di una prima valutazione dell’impatto che la crisi pandemica ha avuto sulla condizione economica delle famiglie nel 2020.

In questo contributo ne riassumiamo i principali risultati, cercando di contestualizzarli maggiormente rispetto all’evoluzione della pandemia, delle misure di contenimento e delle misure di sostegno al reddito introdotte o rafforzate dal Governo da marzo 2020 in poi, aspetti tenuti in secondo piano, per ragioni di spazio, nella Statistics Today. Il forte calo dei consumi del 2020 sembra, infatti, largamente guidato dalle misure restrittive che hanno colpito diverse categorie merceologiche. E non è ancora del tutto chiaro quanta parte dell’aumento della povertà assoluta sia dovuta all’effettivo deterioramento delle condizioni economiche delle famiglie e quanta, invece, al calo dei consumi dovuto alla limitata possibilità di spesa per determinate categorie merceologiche. Come noto, infatti, la povertà assoluta viene calcolata confrontando le spese familiari con delle soglie, specifiche in base a composizione familiare, area territoriale e tipo di comune di residenza, che rappresentano la spesa minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile.

La pandemia ha registrato i primi casi a febbraio 2020, localizzati in Lombardia e Veneto. Successivamente, si è diffusa su tutto il territorio nazionale, con una incidenza maggiore nel Nord e decrescente scendendo verso il Mezzogiorno. Dopo un periodo di relativa calma nella stagione estiva, la pandemia ha ripreso forza in autunno, interessando nuovamente l’intero territorio nazionale, ma complessivamente ancora con incidenze maggiori nel Nord. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2020 i casi di infezione da Covid-19 sono stati 2,1 milioni, con differenziazioni territoriali molto rilevanti: il tasso standardizzato di incidenza è infatti il 4,4% nel Nord, il 2,9% nel Centro e il 2,4% nel Mezzogiorno, per un totale del 3,4% a livello Italia.

I diversi provvedimenti di contenimento del virus hanno in larga misura seguito la scansione temporale della diffusione del virus. Secondo il sito Openpolis, nel corso del 2020 sono stati adottati 466 atti relativi all’emergenza Covid19. Si tratta, quindi, di un coacervo di misure nazionali e locali difficilmente riassumibile. A grandi linee, si possono individuare il lockdown duro e nazionale di marzo, i cui primi allentamenti si sono visti a maggio; un periodo di relativa apertura in estate, anche dovuto al rallentamento dell’epidemia; una nuova stagione di restrizioni in autunno, in coincidenza con la ripresa epidemica, con maggiori differenziazioni territoriali; e un finale d’anno ancora con misure restrittive nazionali volte a limitare i contatti nel periodo festivo.

Tali provvedimenti hanno sospeso prima, e fortemente limitato poi, interi settori di attività economica e la possibilità di acquisto di particolari categorie di beni e servizi, con restrizioni particolarmente gravose per i servizi ricettivi e di ristorazione e per le attività ricreative e culturali.

Oltre ad aver determinato uno shock dal lato dell’offerta, però, le misure di prevenzione sanitaria hanno anche determinato uno shock dal lato della domanda, poiché hanno mirato a limitare al minimo la socialità e le occasioni di incontro tra le persone, con ovvie conseguenze sulle possibilità di spesa. Dal lato della domanda, hanno, ovviamente, rivestito un ruolo di primaria importanza anche il calo del potere d’acquisto delle famiglie, necessariamente associato al calo del PIL (-8,9% su base annua), così come i comportamenti prudenziali adottati dalle singole persone per limitare il rischio di contagio.

Per fronteggiare la crisi economica dovuta all’emergenza sanitaria, il Governo ha previsto sin dalle prime battute diverse misure di sostegno al reddito delle famiglie, inizialmente sostenendo i redditi dei lavoratori sospesi o con forti cali di reddito mediante l’estensione universale della CIG e introducendo specifici bonus per lavoratori atipici e autonomi; e, col decreto Rilancio, introducendo una misura di reddito minimo – il cosiddetto Reddito di Emergenza (REM) – che si è andato ad aggiungere a Reddito e Pensione di Cittadinanza (RdC), il cui disegno non è invece stato modificato in seguito alla pandemia.

Secondo i dati dell’Osservatorio Statistico dell’Inps, a fine 2020 i nuclei familiari percettori di reddito di cittadinanza erano circa 1,25 milioni. Nel Mezzogiorno risiede il 61,2% di queste famiglie, nel Nord il 23,3% e nel Centro il 15,5%. Delle 625mila prestazioni complessivamente erogate con il reddito di emergenza, il 54,5% è stato corrisposto al Mezzogiorno, il 25,6% al Nord e il 20% al Centro. Questo sbilanciamento è dovuto fondamentalmente a due fattori: il primo, è che la condizione economica delle famiglie meridionali è notoriamente più svantaggiata; il secondo, è che, differentemente dall’indicatore di povertà assoluta, le misure di sostegno al reddito sono uniche a livello nazionale, e non considerano, quindi, le differenze territoriali nel costo della vita.

L’andamento temporale delle spese per consumi delle famiglie ha seguito in maniera molto precisa l’andamento della pandemia stessa e delle misure restrittive via via introdotte. Le variazioni tendenziali, rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, sono state infatti -4,7% nel primo trimestre, -17,4% nel secondo, -4,5% nel terzo e -9,5% nel quarto trimestre del 2020. Complessivamente, la spesa media mensile delle famiglie residenti in Italia è scesa del 9,1%, in linea con la diminuzione generale del PIL, ed è arrivata a 2.328 euro mensili in valori correnti (contro i 2.560 euro del 2019).

Si tratta di un vero e proprio crollo, se si considera che è il calo più accentuato dal 1997 (anno di inizio della serie storica), e che il valore più prossimo è il -3,4% registrato nel 2012 rispetto all’anno precedente. Per confronto, si consideri che nell’intero biennio 2012-2013, che dal 1997 al 2019 è il periodo di maggior contenimento delle spese delle famiglie a seguito della crisi del debito sovrano e delle misure di rientro del deficit, la riduzione rispetto al 2011 era stata complessivamente del 6,4%. Il valore del 2020 riporta il dato medio di spesa corrente esattamente al livello del 2000. Nello stesso arco temporale, la crescita generale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC) è stata del 37,1%.

Anche dal punto di vista territoriale, l’andamento delle spese per consumi, pur in diminuzione su tutto il territorio nazionale, rispecchia fedelmente il differente quadro epidemiologico e l’impatto delle conseguenti restrizioni governative. Il calo è, infatti, più accentuato nel Nord (-10,0%), seguito da Centro (-8,9%) e Mezzogiorno (-7,3%). In valori assoluti, comunque, la spesa media più elevata si continua ad osservare nel Nord (2.522 euro) e nel Centro (2.508 euro) ed eccede di molto quella del Mezzogiorno (1.919 euro).

Considerando i singoli capitoli di spesa, le variazioni risultano molto differenziate, in coerenza sia con le restrizioni adottate, sia con il differente grado di comprimibilità delle spese stesse. Rispetto al 2019, la spesa per Alimentari e bevande analcoliche e quella per Abitazione, acqua, elettricità e altri combustibili, manutenzione rimangono sostanzialmente invariate (pari, rispettivamente, a 468 e 893 euro mensili). Sono, infatti, spese di per sé difficilmente comprimibili e che, dal lato dell’offerta, sono state solo marginalmente toccate dalle restrizioni governative, anche nel periodo di lockdown duro primaverile. Queste spese, anzi, potrebbero essere state favorite dalla maggiore permanenza delle famiglie all’interno della propria abitazione. Diversamente, la spesa per tutti gli altri capitoli, che nel 2020 vale complessivamente 967 euro al mese, è scesa del 19,4% rispetto ai 1.200 euro del 2019. I cali più drastici riguardano i settori maggiormente colpiti dalle restrizioni (Servizi ricettivi e di ristorazione, -39,0%, e Ricreazione, spettacoli e cultura, -26,5%) seguiti da settori che hanno scontato le forti limitazioni agli spostamenti e alla socialità (Trasporti, -24,6%, e Abbigliamento e calzature, -23,2%).

Si è, quindi, determinata una consistente modifica della composizione della spesa complessiva delle famiglie. Quella per alimentari e abitazione, che era il 53,1% del totale nel 2019, nel 2020 ha raggiunto il 58,4%.

Tabella 1. SPESA MEDIA MENSILE DELLE FAMIGLIE PER MACROAGGREGATI E RIPARTIZIONE GEOGRAFICA. Anni 2019 e 2020 (a). Valori in euro correnti e valori percentuali.

(a) Per l’anno 2020, stime preliminari. Fonte: Istat, Indagine sulle spese per consumi delle famiglie

Conseguentemente alla compressione dei consumi, anche l’incidenza della povertà assoluta risulta in forte crescita, e arriva al 7,7% in termini familiari (dal 6,4% del 2019), e cioè oltre 2 milioni di famiglie; e al 9,4% in termini di individui (dal 7,7% del 2019), pari a 5,6 milioni di persone (un milione in più rispetto all’anno precedente).

Si toccano, quindi, livelli mai sperimentati dal 2005, anno di inizio della serie storica. E si azzerano anche i miglioramenti registrati nel 2019 quando, dopo quattro anni consecutivi di aumento, si erano ridotti il numero e la quota di famiglie e individui in povertà assoluta, anche in ragione dell’introduzione delle misure a sostegno al reddito delle famiglie più disagiate (il Reddito di Inclusione e, successivamente, il Reddito di Cittadinanza).

Coerentemente con l’andamento delle spese e con la diffusione territoriale del Covid-19, il Nord peggiora la propria condizione più di quanto facciano Centro e Mezzogiorno. L’incidenza della povertà assoluta familiare passa, infatti, dal 5,8% al 7,6%, e quella individuale dal 6,8% al 9,4% (oltre 218mila famiglie povere e oltre 720mila individui poveri in più rispetto all’anno precedente). Nel Centro, l’incidenza familiare passa dal 4,5% al 5,5% e l’incidenza individuale dal 5,6% al 6,7%. Nel Mezzogiorno si registrano gli incrementi più limitati, che comunque portano i valori al 9,3% (familiare) e all’11,1% (individuale), cioè le incidenze tuttora più alte.

La crisi ha colpito più duramente le famiglie in cui la persona di riferimento (p.r.) è in una fascia di età compresa tra i 35 e i 44 anni e tra i 45 e i 54: l’incidenza della povertà assoluta cresce rispettivamente dall’8,3% al 10,7% e dal 6,9% al 9,9%, mentre quelle con p.r. sopra i 64 anni sono stabili al 5,3% (l’incidenza più bassa in assoluto, come già negli scorsi anni). In concordanza, le famiglie con p.r. occupata hanno risentito maggiormente degli effetti della crisi (l’incidenza passa dal 5,5% al 7,3%). Il peggioramento delle famiglie con p.r. occupata avviene senza particolari differenze tra occupati dipendenti e occupati indipendenti: l’incidenza della povertà assoluta per quelle con p.r. dipendente passa dal 6,0% al 7,8% (se la p.r. è un operaio o assimilato dal 10,2% al 13,3%), per quelle con p.r. indipendente dal 4,0% al 6,1% (per gli indipendenti diversi da imprenditori e liberi professionisti dal 5,2% al 7,6%). Come usuale, le famiglie con p.r. ritirata da lavoro, e quindi titolare di un reddito protetto come quello da pensione, sono quelle con la minore incidenza di povertà (4,3% nel 2019 e 4,4% nel 2020), e sono le uniche, insieme alle famiglie con p.r. in cerca di occupazione, a registrare una stabilità della propria condizione da un anno all’altro (queste ultime mantengono però la loro grave situazione al 19,7%). La crisi economica causata dall’emergenza sanitaria sembra quindi aver colpito prevalentemente il mondo del lavoro, con conseguenze che si sono riversate sulle famiglie che ne fanno parte.

Tabella 2. INDICATORI DI POVERTA’ ASSOLUTA FAMILIARE.

Anni 2019 e 2020 (a). Valori percentuali

(a) Per l’anno 2020, stime preliminari. Fonte: Istat, Indagine sulle spese per consumi delle famiglie

Questi primi risultati prodotti dall’Istat andranno approfonditi considerando successivamente le variazioni sui redditi delle famiglie. Come già detto, non è infatti immediatamente chiaro quanto l’aumento della povertà sia dovuto a un calo del potere d’acquisto delle famiglie e quanto alla contrazione dei consumi dovuta alle restrizioni su particolari voci di spesa, non perfettamente sostituibili con altre voci “consentite”. Tuttavia, tra le famiglie in povertà assoluta, nel 2020 alimentari e abitazione pesano il 77,1% della spesa totale, a fronte del 56,8% delle famiglie non povere. Le famiglie nella coda bassa della distribuzione dei consumi hanno, infatti, spese largamente concentrate su voci difficilmente comprimibili che, nell’anno del Covid19, hanno anzi mantenuto gli stessi livelli precedenti, suggerendo che l’aumento della povertà sia effettivamente dovuto al deterioramento generale delle condizioni economiche delle famiglie.

In ogni caso, i dati sulle spese per consumi indicano come il contenimento del Covid19 incentrato su misure restrittive nei confronti della popolazione e di determinate categorie merceologiche sia sempre più difficilmente sostenibile. Una riflessione sull’eventuale cambiamento della risposta all’emergenza sanitaria, anche al di là della campagna vaccinale in corso, va oltre le nostre competenze e gli obiettivi di questo contributo (si noti che, secondo i dati della Johns Hopkins University (lettura al 10 marzo 2021), fra i paesi dell’Unione Europea l’Italia è tra i peggiori sia per letalità – morti su casi accertati – dietro solamente a Bulgaria, Ungheria e Grecia, sia per mortalità, morti su popolazione, dietro solamente a Repubblica Ceca, Belgio e Slovenia). Ma appare indispensabile rimodulare le misure che mirano a contenere il rischio sanitario in modo da limitare al massimo l’enorme impatto negativo che stanno avendo sull’economia e sulla società nel suo complesso. Questo anche perché le entrate tributarie nel corso del 2020 sono scese di oltre 25 miliardi di euro (-5,3%) e la caduta delle entrate tributarie da IVA, direttamente riconducibili, quindi, alle spese per consumi, sono cadute proporzionalmente di più: -9,7%, corrispondenti a più di 13 miliardi di euro.

 

* Le opinioni espresse in questo contributo sono esclusivamente degli autori e non riflettono necessariamente le posizioni dell’Istat.

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