Futuro del lavoro e disuguaglianze secondo la Banca Mondiale

Iacopo Gronchi e Dario Guarascio analizzano il World Development Report 2019 della Banca Mondiale, che si occupa della relazione tra cambiamento tecnologico e diseguaglianze e individua nella “manutenzione” e nell’accrescimento del capitale umano la policy più idonea per limitare i rischi che le trasformazioni in corso pongono a lavoratori e imprese. Gronchi e Guarascio richiamano l’attenzione su alcuni aspetti critici dell’analisi della Banca Mondiale e sulle loro implicazioni per l’efficacia delle policies suggerite.

Pubblicato nello scorso ottobre, il World Development Report 2019 della Banca Mondiale (BM) ha come tema di riferimento il rapporto tra lavoro e cambiamento tecnologico. Questa nota illustra sinteticamente i contenuti del Report e ne propone una discussione critica, prendendo in considerazione anche le tesi sostenute da Peter Bakvis della International Trade Union Confederation, su inequality.org.

Il Report presenta inizialmente una rassegna delle analisi teoriche ed empiriche volte a misurare l’impatto che i processi di automazione e digitalizzazione stanno avendo sia sulla natura del lavoro sia sulla dinamica evolutiva delle imprese. Secondo i ricercatori della BM, la strada privilegiata per far fronte ai rischi che lavoratori e imprese corrono a causa delle trasformazioni in corso consiste nella “manutenzione” e nell’accrescimento della dotazione di capitale umano, che potrebbero garantire loro adattabilità e resilienza. L’analisi comparativa dello ‘human capital index’ (HCI), porta a identificare i 3 momenti formativi nell’ambito dei quali può essere meglio promossa l’accumulazione di capacità cognitive e socio-comportamentali di alto livello (i.e. ovvero il set di conoscenze e competenze considerate chiave per dotarsi di una sufficiente resilienza di fronte al cambiamento): la prima infanzia, l’educazione terziaria e la formazione extra-lavorativa per adulti.

Secondo il Report, le differenze in questo tipo di investimento (e nella qualità delle infrastrutture deputate alla formazione, in particolare quella professionale) spiegherebbero buona parte della diversa dinamica dei salari nelle economie emergenti e in quelle sviluppate. Invero, l’identificazione della formazione e dell’accumulazione di capitale umano quale mezzo pressoché esclusivo per favorire il dispiegarsi delle potenzialità produttive (sia a livello individuale sia a livello aggregato) coincide con quanto l’analisi economica mainstream (secondo la quale è possibile accrescere le capacità economiche individuali e sistemiche solo mediante azioni dal lato dell’offerta tese ad aumentare il ‘potenziale’) ha persistentemente postulato dalla fine degli anni ‘70. Tale analisi ha finito per egemonizzare le agende di politica economica. La conseguenza è stata il ridimensionamento degli interventi dal lato della domanda e delle azioni di politica industriale di tipo verticale a favore di politiche rivolte al lato dell’offerta.

In buona parte, il Report della BM adotta quest’impostazione di fondo non soltanto per valutare le implicazioni economico-sociali della trasformazione tecnologica in corso ma anche per spiegare le dinamiche (i.e. persistenza dell’economia informale nei paesi in via di sviluppo, incapacità dei sistemi di welfare di adattarsi ai cambiamenti in atto, difficoltà di adeguare i sistemi di istruzione e formazione per far fronte alle nuove necessità manifestate dal mercato del lavoro) che sono alla base della polarizzazione, delle disuguaglianze e dei differenziali di sviluppo. Le linee programmatiche di politica economica proposte dal Report possono essere così riassunte:

  1. Per contrastare l’economia informale che predomina in molte economie in via di sviluppo, si raccomandano misure e strumenti di regolamentazione tesi favorire la nascita e lo sviluppo delle imprese: accrescimento della dotazione di infrastrutture materiali e immateriali (compreso l’accesso alla rete); alleggerimento degli oneri burocratici per l’avvio e l’esercizio dell’attività economica privata; contenimento del costo del lavoro e alleggerimento della pressione fiscale.
  2. Per facilitare l’adeguamento dei sistemi di welfare di fronte alle trasformazioni tecnologiche ed organizzative che stanno investendo i mercati del lavoro viene suggerito il potenziamento degli investimenti pubblici in forme di protezione e assicurazione sociale slegate dalla stabilità del lavoro salariato, quali l’erogazione di un reddito di base e la diversificazione multi-pilastro degli strumenti di assicurazione contro i rischi sociali.
  3. Per far fronte alla scarsità di risorse economiche necessarie a finanziare i programmi di protezione sociale appena menzionati si ritiene che gli strumenti di intervento privilegiati siano le imposte sul valore aggiunto e sui beni immobiliari, o le accise su beni specifici quali alcool e tabacco (tali strumenti sono considerati di particolare rilievo nei paesi in via di sviluppo dove l’imposizione fiscale di tipo indiretto e la tassazione dei patrimoni risultano essere minimi o, in alcuni casi, completamente assenti).

Il set di proposte di policy appena illustrate riflette l’impostazione teorica adottata dalla BM che, come già argomentato, continua ad identificare negli interventi ‘dal lato dell’offerta’ la via maestra per favorire la convergenza economica, la resilienza dei lavoratori e delle imprese di fronte al cambiamento tecnologico ed il ‘catching-up’ delle economie in via di sviluppo. Un impianto teorico e di policy di questo tipo tende a trascurare le ragioni macroeconomiche e strutturali che sono alla base delle diseguaglianze e dell’eterogeneo grado di resilienza riscontrabile sia tra le economie (con particolare riferimento al differenziale tra economie avanzate e in via di sviluppo) sia all’interno delle stesse.

Tuttavia, come segnala anche Bakvis, il Report solleva perplessità non soltanto a causa del suo approccio teorico. Anche i dati utilizzati possono portare a una lettura potenzialmente distorta dei fenomeni esaminati.

Bakvis muove, in particolare, due critiche: i) la scelta non neutrale dei dati relativi alle dinamiche di disuguaglianza economica; ii) una posizione deterministica e acritica nei confronti dell’innovazione tecnologica e specialmente della nascente “platform economy”.

Relativamente al primo aspetto, Bakvis sostiene che è distorsiva la scelta compiuta nel Report sulle informazioni da includere e quelle da escludere. Ecco un esempio: si riportano le variazioni dell’indice di Gini in 41 economie emergenti e in via di sviluppo, in 37 delle quali tali variazioni sarebbero nulle o in diminuzione. Tuttavia, non viene adeguatamente esplicitato che tali variazioni, oltre ad essere riferite ad un numero limitato e “selezionato” di paesi, si riferiscono al periodo 2007-2015. Dunque esse risentono fortemente degli effetti “equalizzatori” della grande recessione del 2008, dovuti al suo impatto sugli strati più ricchi della popolazione. Al di là di ciò, rimane il fatto che numerose altre analisi, comprese quelle di organizzazioni internazionali come Fondo Monetario Internazionale e Ocse, giungono a conclusioni opposte sulle tendenze della disuguaglianza.

La seconda critica di Bakvis riguarda la totale assenza nel Report di osservazioni in merito alla concentrazione della ricchezza a livello globale, nonostante la crescente consapevolezza della gravità delle tendenze in atto. Al riguardo basti citare il dato riportato dal Fondo Monetario Internazionale secondo cui dal 1980, l’1% più ricco della popolazione mondiale ha guadagnato dalla crescita economica globale il doppio di quanto ha guadagnato il 50% più povero. Alla luce di queste evidenze, si può dire che il Report manca di sottolineare che il cambiamento tecnologico non implica solamente la necessità di riconfigurare le competenze necessarie per inserirsi nel mercato del lavoro, ma porta con sé importanti effetti di redistribuzione che riflettono i mutati rapporti di forza tra capitale e lavoro. Un esempio paradigmatico è quello di Uber e del doppio processo di liberalizzazione e deregolamentazione de facto, prima ancora che de iure, che il suo ingresso nel mercato del trasporto urbano su gomma ha comportato in numerosi paesi occidentali. La BM sembra adottare un approccio apparentemente neutrale, ma fondamentalmente ambiguo, nei confronti di indirizzi di policy più attenti sia ai conflitti distributivi scaturiti dal cambiamento tecnologico sia all’assenza di regole efficaci per contrastare il potere di mercato delle piattaforme digitali.

L’impressione è che queste carenze analitiche scaturiscano dalla visione del rapporto tra tecnologia e mercato del lavoro e dal ruolo riconosciuto all’intervento regolativo dello stato nell’equilibrare il rapporto tra capitale e lavoro. Invero, la BM sembra adottare un approccio al contempo deterministico (o di “neutralità tecnologica”) e “ottimistico”. L’espansione dei posti di lavoro, l’apertura ai mercati internazionali per attività imprenditoriali innovative e la possibilità di cumulare fonti di reddito aggiuntive, sulla base di un impegno flessibile, sono tutte considerate opportunità prive di minacce, senza alcuna considerazione in merito al tipo di lavoro che viene promosso (spesso a cavallo tra diverse denominazioni giuridiche, e dunque privo di un’apposita normativa tutelare), alle tipologie di lavoratori maggiormente coinvolte dalle attività di “gig-working” (le fasce precarie già prive di una fonte stabile di sostentamento economico) o a chi sia davvero in grado di cogliere con spirito “imprenditoriale” le opportunità offerte dall’economia delle piattaforme. A questo si aggiunge l’assenza di attenzione per le categorie occupazionali “spiazzate” dalle piattaforme nonché di considerazioni su come regolare gli effetti occupazionali del cambiamento tecnologico.

Sul ruolo dell’intervento regolativo dello stato, il Report presenta una posizione più sfumata e forse meno ideologica, ma nondimeno poco definita, se non incoerente. Non è necessariamente vero, come invece sostiene Bakvis, che gli autori si rendano colpevoli di un’ambigua operazione di cherry picking (manipolazione strumentale dei dati) in quanto interessati a sostenere una posizione aprioristica di semplice e netta de-regolamentazione. Al contrario, l’esempio principale di buona pratica cui si fa riferimento nelle ultime pagine del Report è quello della ‘flex-security’ danese, che combina flessibilità contrattuale con efficaci strumenti di sicurezza sociale e solide politiche attive del mercato del lavoro. Non solo. Nella consapevolezza che simili politiche abbisognano di un’azione di governo onerosa e pervasiva rispetto agli standard delle economie di mercato prettamente liberali, nel Report si sostiene la necessità di allargare la base fiscale dei paesi in via di sviluppo che ancora non sono dotati delle risorse necessari per simili programmi. In tal senso, le proposte del Report non si limitano – come invece allude Bakvis – a un’imposta sul valore aggiunto a carattere regressivo, ma includono anche la tassazione progressiva dei beni immobiliari e dei profitti d’impresa, nonché l’esenzione dei beni di prima necessità dalla stessa IVA.

Il modello di capitalismo danese rispetto a quello descritto nel Report è, in realtà, più articolato e ha peculiarità strutturali (ed in più lo stadio di sviluppo della Danimarca non è certo quello delle economie cui il Report fa riferimento). La sostenibilità complessiva del modello danese è data non solo dal ruolo attivo dello stato nel sostegno e nel recupero del capitale umano “spiazzato”, ma anche dall’azione fondamentale delle parti sociali, coinvolte nei processi di ristrutturazione industriale e dunque impegnate in una logica strategica di mutualità e fiducia reciproca. Condurre un’azione di governo e di concertazione sociale così delicata e specifica richiede non soltanto adeguate risorse economiche ma anche istituzioni – intese come insiemi di norme formali e prassi informali – solide, condivise e durature nel tempo.

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