Forse ci vorrebbe la Thatcher (ma Palazzo Senatorio non si vende, diventa museo)

Marco Causi riflette sulla governance locale dell'area romana e sostiene che l'assetto esistente è inefficiente e non garantisce né il governo di area vasta delle dimensioni metropolitane di Roma né il governo di prossimità dei servizi. Dopo aver ricordato (a fini maieutici) il caso di Londra, Causi afferma che una riforma è necessaria ma anche che molte utili misure di politica pubblica possono essere realizzate a legislazione vigente e conclude richiamando le responsabilità del Governo nazionale e della Regione Lazio.

Alfredo Macchiati ha elaborato un position paper su Roma molto ampio e stimolante. La discussione promossa da Etica ed Economia e ospitata su Il Menabò ha prodotto spunti altrettanto interessanti. Per il contributo che mi è stato chiesto ho deciso di selezionare, fra i tanti possibili, il tema della governance locale.

Dimensione metropolitana. La struttura insediativa di Roma, la sua struttura urbana e quella produttiva, possono essere riconosciute e analizzate solo a scala metropolitana. Lo sanno da tempo territorialisti e demografi. Lo mettono in chiara evidenza le analisi di #mapparoma quando mostrano le diverse velocità di sviluppo e le fratture di qualità urbana e sociale che convivono nel territorio metropolitano. Si tratta di una questione politica cruciale, a mio modo di vedere la più importante di tutte: nella città consolidata abitano un milione e mezzo di persone, nel territorio che comincia nell’intorno del GRA e arriva fino ai comuni della prima corona metropolitana gli abitanti sono quasi due milioni e mezzo. Nessun progetto per Roma potrà stare in piedi se si occupa solo dell’insediamento urbano centrale e si dimentica del resto del territorio e della popolazione.

Governance. Quanto detto ha conseguenze sul versante della governance. La mia tesi è che l’assetto esistente determina a Roma l’assenza sia di un governo locale che abbia visione di area vasta sia di un governo di prossimità: il Campidoglio è un’istituzione inefficiente. L’enfasi sulla “specialità” di Roma in quanto capitale della Repubblica – al di là delle eventuali convenienze tattiche nel gioco delle trattative e delle opportunità nei confronti delle autorità centrali – non aiuta ad andare verso la direzione giusta.

Londra e Margaret Thatcher. Un caso storico latamente paragonabile è quello di Londra e della crisi del Greater London Council (GLC) esplosa negli anni ’80 del secolo passato. Il GLC governava sulla grande Londra mentre per i servizi di prossimità erano stati organizzati in forma di local councils (noi diremmo in forma di Comuni) quelli che ancora oggi sono 33 boroughs. Il GLC (a maggioranza labour) però frenava sul passaggio delle competenze, tendeva a litigare con i boroughs governati da maggioranze politiche diverse, stentava a evolversi verso una visione di area vasta, non voleva spogliarsi dei poteri diretti di gestione, in particolare nei confronti delle municipalizzate di pubblico servizio dove quella sindacale era un’importante constituency di riferimento per la maggioranza comunale. La soluzione di quella crisi fu drastica e violenta, come amava fare Margaret Thatcher: il GLC venne abolito. Per rimarcare l’irreversibilità di quell’atto decisionale la sede storica del governo comunale, la County Hall, dall’altro lato del fiume rispetto a Westminster, venne venduta a società immobiliari che la trasformarono in un complesso residenziale con cinema e teatri. Le competenze sui servizi comunali furono trasferite ai 33 boroughs mentre quelle di area vasta e sui servizi pubblici (in particolare sui trasporti) furono assegnate ad appositi uffici del governo centrale. Così la Thatcher, dopo i minatori, ebbe modo di confrontarsi direttamente con i sindacati degli auto-ferro-tramvieri, e sappiamo com’è andata a finire. L’anomalia di una grande città priva di un’istituzione civica rappresentativa venne superata nel 1998, in seguito a un referendum, con la nascita dell’odierna Greater London Authority (GLA).

Da Londra a Roma. Ci sono molte differenze fra il Tamigi e il Tevere. Alcune sono interessanti e hanno valore maieutico. Primo, i londoneers sono restati per dodici anni privi delle redini del governo locale per la grande Londra, ma non sono mai stati espropriati del governo dei servizi di prossimità garantito dai boroughs. Va peggio ai romani, che devono fare a meno non solo del governo di area vasta ma anche del governo di prossimità, vista l’assoluta insufficienza delle funzioni assegnate ai municipi e l’impossibilità di esercitarle dalla vetta del colle capitolino sullo sterminato territorio amministrato. Secondo, la GLA è un’istituzione pienamente democratica e il suo vertice politico si chiama Mayor of London. Oggi Sadiq Khan (e prima di lui quel simpaticone di Boris Johnson) è senza dubbio l’unico Mayor of London e viene eletto con suffragio universale insieme a 25 consiglieri. A Roma il governo di area vasta è affidato a un ente di secondo livello che oggi è presieduto dal Sindaco di Roma. Ma domani – in base alle esistenti previsioni di legge – è molto probabile che la città metropolitana venga trasformata in ente di primo livello, chiamando il corpo elettorale a eleggere un Sindaco metropolitano di Roma che si affiancherà al Sindaco di Roma. Avremmo così due Sindaci, uno a Palazzo Valentini e l’altro in Campidoglio, nessuno dei due in grado di lavorare in modo efficace sul governo di prossimità e quasi sicuramente molto impegnati a litigare fra di loro. Terzo, si potrebbe dire qualcosa su un’assemblea elettiva di 25 persone per un’area di oltre otto milioni di abitanti. In Italia sarebbe considerata, con illustri e autorevoli pareri di insigni costituzionalisti, poco democratica e insufficientemente rappresentativa.

Palazzo Senatorio. Non so se Margaret Thatcher, improvvisamente risorta e incaricata del governo della Repubblica italiana, nell’affrontare il caso Roma così come affrontò quello di Londra avrebbe addirittura il coraggio di vendere Palazzo Senatorio e trasformarlo in grande albergo, per fortuna non ci sarà nessun esperimento per verificarlo. Cosa fare di quel palazzo a me sembra ovvio: il suo destino è di completare la straordinaria vocazione museale del colle capitolino. Gli uffici invece vanno spostati altrove e dotati di spazi progettati per essere uffici, con il lay out necessario per ospitare un’organizzazione moderna ed efficiente (solo per fare un esempio, a Palazzo Senatorio non ci sono sale riunioni). Io ho lavorato per otto anni in quegli uffici e sono convinto che contribuiscono per una piccola ma non insignificante quota percentuale all’inappropriatezza dell’istituzione.

Esempio: politiche di inclusione sociale. E’ noto che uno dei problemi di efficacia della politiche di welfare in Italia è lo spezzettamento delle competenze fra diversi livelli istituzionali: politica sanitaria in mano a Regioni e ASL, politiche per l’assistenza sbriciolate fra Regioni e Comuni con intermittenti invasioni dello Stato, politiche di sostegno al reddito saldamente in mano all’INPS, politiche attive del lavoro cogestite da Stato e Regioni e attuate da agenzie nazionali, regionali e provinciali, politiche dell’istruzione oggi in prevalenza ancora in mano allo Stato centrale (in attesa del regionalismo differenziato) ma con ruolo importante e crescente delle Regioni, politiche dell’immigrazione gestite dal Ministero degli interni e dalle prefetture. In tutta Italia il coordinamento (quando esiste) delle ricadute territoriali di questo insieme di politiche prodotte da un grande numero di soggetti eterogenei lo fa il Sindaco. Qui non sto parlando di risorse, competenze, personale, eccetera, sto parlando di un ruolo politico, di un soggetto interlocutore di tutti gli altri all’interno di un territorio circoscritto. A Roma questo soggetto non c’è, e se ne sente drammaticamente la mancanza nei territori della periferia metropolitana. Dei quali si dice che siano “abbandonati”. Forse un attento censimento delle azioni pubbliche implementate in quei territori su sanità, assistenza, istruzione, ecc. ne troverebbe tante, ma ciascuna gestita indipendentemente dalle altre. Rivoli di azione pubblica che si disperdono e non riescono a fare massa critica. A quei territori mancano molte cose, infrastrutture, qualità urbana, reti di capitale sociale, ma manca anche un Sindaco di prossimità con pieni poteri e ruolo politico-istituzionale.

La necessità di una riforma non diventi alibi per l’immobilismo. Chiarita la necessità di costruire un assetto più efficiente dei poteri del governo locale nell’area romana, l’attesa di questa riforma non deve diventare un alibi per non fare tutte le cose che si possono fare. Che sono tante, e tutte o quasi non hanno bisogno di normative speciali per essere realizzate. L’attesa messianica di norme speciali determina spesso nel Campidoglio (indipendentemente dall’inquilino o inquilina pro-tempore) una sorta di pigrizia nella capacità di progettazione e attuazione. I bandi per le periferie citati da Macchiati sono un buon esempio e se ne potrebbero fare altri. Su alcune importanti materie però la proattività non è necessaria solo in Campidoglio ma anche altrove e la pigrizia (paura?) su Roma purtroppo è fenomeno diffuso a tutti i livelli istituzionali.

Leale collaborazione e governance condivisa. Molte delle cose che si potrebbero fare a legislazione vigente dipendono da quella che in termini costituzionali si chiama “leale collaborazione” fra i diversi livelli di governo, e cioè da una governance condivisa. Concordo con Macchiati quando ricorda che condizioni indispensabili per le partnerships sono autorevolezza e credibilità della classe dirigente romana e che queste condizioni mancano da troppo tempo, direi da quasi undici anni. Questo però non assolve dalle loro responsabilità gli altri livelli istituzionali.

Responsabilità dello Stato. Nel caso del governo centrale l’esempio più importante riguarda gli investimenti pubblici. Tutte le grandi città italiane sono coinvolte direttamente nei programmi pluriennali di spesa e di cofinanziamento per le infrastrutture, a valere sia sui fondi comunitari sia su quelli delle politiche di sviluppo e coesione: è così che si stanno realizzando le nuove linee metropolitane, ferroviarie e tramviarie per la mobilità ecosostenibile di Milano, Catania, Firenze, Bari, ecc. Io penso che sia inaccettabile e ingiusta l’assenza di Roma da questi programmi: i cittadini e le imprese residenti a Roma pagano le tasse come tutti gli altri in Italia, e anzi ne pagano di più, come giustamente avviene per effetto della progressività – in base alle stime Banca d’Italia il Lazio è la seconda regione d’Italia dopo la Lombardia per quantità di residui fiscali positivi e Roma conta su questi dati per più dell’80%. Si badi bene: sto parlando di programmi ordinari, non dei programmi di “finanza straordinaria” evocati da Macchiati. Se la giustificazione per questa (inaudita) assenza dello Stato a Roma è l’inaffidabilità dell’interlocutore locale, allora lo Stato abbia il coraggio di andare fino in fondo e di usare i poteri sostitutivi che la Costituzione e la legge prevedono: esautorare l’ente inaffidabile e procedere, anche su singole materie o progetti, in via diretta. Nel corso del 2015 lo Stato ha valutato attraverso un procedimento durato quasi otto mesi (con effetti devastanti per il funzionamento dell’amministrazione comunale quasi uguali a quelli del procedimento sul “mondo di mezzo”) se sciogliere o meno il Campidoglio per infiltrazioni mafiose. Mi sembra che possa bastare come motivazione per l’esercizio dei poteri sostitutivi.

Responsabilità della Regione. Nel caso della Regione Lazio gli esempi sarebbero tanti: su trasporti, rifiuti, servizi pubblici, casa e altro ancora una “leale collaborazione” fra Pisana e Campidoglio potrebbe migliorare in modo rilevante la qualità del quadro regolatorio e l’efficacia di azioni pubbliche che hanno come beneficiarie tre milioni e mezzo di persone residenti nell’area romana. Purtroppo questa “leale collaborazione” si è realizzata molto raramente e ha ragione Daniel Modigliani quando afferma che “il conflitto tra Regione Lazio e Comune di Roma ha conseguenze devastanti”. Un punto interessante sul piano analitico è che questo conflitto non ha correlazione con la natura delle maggioranze politiche in Comune e Regione (ad esempio, il momento apicale dello scontro è stato fra Alemanno e Polverini). Esso è quindi strutturale e segnala in modo drammatico la necessità di una riflessione profonda sulla governance locale dell’area romana

Il deficit di investimenti pubblici. Riassumendo, abbiamo a che fare con: un’inefficienza strutturale dell’organizzazione delle istituzioni pubbliche locali nell’area romana, un declino dell’affidabilità del Campidoglio, un conflitto altrettanto strutturale (e non politico) fra Regione e Comune, un atteggiamento prudente e “non interventista” da parte dello Stato, che riflette la delicatezza politica del “caso Roma” a fronte degli orientamenti dell’opinione pubblica nazionale. Tutto questo ha effetti sull’economia del territorio? Io penso di sì e penso che il canale di trasmissione più evidente di questa crisi – che durando ormai da più di dieci anni credo si possa ben definire “storica” – sia fornito dagli investimenti pubblici nell’area romana, che sono crollati dopo il 2008 molto più di quanto avvenuto a livello nazionale. Nel grafico (fonte Banca d’Italia) si vede che gli investimenti pubblici nel territorio di Roma da parte degli enti locali (Regione, Provincia, Comune) si sono ridotti da più di 800 milioni all’anno nel 2009-2013 a circa 100 nel 2018. Nel periodo 2003-2007 il solo Campidoglio attivava investimenti per più di 600 milioni all’anno (pagamenti sui rendiconti di bilancio). E ne impegnava più di un miliardo ogni anno, molti dei quali spesi dopo il 2008. E’ così che, fra l’altro, sono state aperte ventisei nuove stazioni di linee metropolitane e che l’età media della flotta dei mezzi del trasporto pubblico era stata ridotta a 5,2 anni (oggi è quasi raddoppiata). La clamorosa contrazione degli investimenti del Campidoglio non ha origini (diciamo: non in modo prevalente) da difficoltà di bilancio: prima del 2008 le spese correnti del Campidoglio erano circa 3 miliardi di euro all’anno, oggi sono 4 miliardi e più. Il bilancio è più ricco di dieci anni fa, ma si è spostato sulla spesa corrente e ha marginalizzato gli investimenti. Spese per investimenti di 100 milioni all’anno nel Comune di Roma, come avviene nel biennio 2017-2018, significa che siamo al di sotto delle necessità legate alla semplice manutenzione ordinaria. Mi dispiace di concludere con un’osservazione così pessimista (perchè su altri versanti mi sento invece più ottimista di quanto sia il documento di Macchiati), ma questi dati ci dicono una cosa molto semplice: che la città rischia di crollare poco a poco a pezzi, in assenza non solo di nuovi investimenti per l’ampliamento delle infrastrutture urbane ma anche di un flusso adeguato e programmato di risorse per la manutenzione ordinaria delle infrastrutture esistenti.

Epilogo. Venerdì scorso, 8 novembre 2019, le pagine di cronaca locale del Messaggero titolavano: approvati dopo quattro anni i progetti per la manutenzione di Piazza Venezia. Posso confermare: quei progetti erano stati redatti nel 2015 su indicazione del vice sindaco (cioè mia) e stavano nell’elenco di spesa, concordato con il governo, dei fondi destinati al Giubileo straordinario. Quattro anni per approvare progetti relativi a interventi di manutenzione stradale! C’è bisogno di dire altro?

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