Flat tax: quale, e perché?

Massimo Baldini e Leonzio Rizzo si concentrano sulla flat tax, in particolare sulle proposte formulate di recente dai partiti di governo e da centri di ricerca indipendenti. Baldini e Leonzio ricordano i delicati problemi di equità ed efficienza del prelievo fiscale posti dalla flat tax e notano che tutte le proposte determinerebbero una riduzione della progressività e soprattutto del gettito. Concludendo, sottolineano un aspetto cruciale del dibattito su questo argomento: le scelte sulla base imponibile dell’imposta sul reddito.

E’ da poco uscito un nostro libro dedicato al tema della flat tax (M. Baldini e L. Rizzo, Flat tax. Parti uguali tra disuguali?, Il Mulino 2019) nel quale descriviamo i principali aspetti economici che si possono associare alla flat tax: da quelli relativi all’equità e all’efficienza, alle riforme fiscali dei paesi dell’ex blocco sovietico, fino alle discussioni in corso in Italia.

Da almeno un paio d’anni, infatti, la flat tax è diventata un tema centrale del dibattito pubblico italiano e il Menabò se ne è occupato di recente. Proposte per modificare l’attuale imposta sul reddito in questa direzione sono state presentate da economisti e da politici, tanto che sia Lega che Forza Italia hanno riservato alla flat tax un posto importante nei rispettivi programmi per le elezioni del marzo 2018. Successivamente, nel maggio 2018, Movimento 5 Stelle e Lega hanno sottoscritto un contratto di governo che, tra gli impegni più rilevanti, prevede per l’Irpef il passaggio ad una “quasi” flat tax con due aliquote, molto vicine tra loro: 15% e 20%. Ma la flat tax ha fatto il suo esordio nei programmi di vari partiti politici ormai 25 anni fa. Nel 1994 Silvio Berlusconi, appena “sceso in campo”, promise un’aliquota unica al 33%, ispirato anche da numerose campagne presidenziali statunitensi dove proposte di flat tax periodicamente riaffiorano. È curioso notare che, malgrado la flat tax non abbia fin qui visto la luce, e nonostante oggi la spesa pubblica da finanziare sia molto più alta del 1994, le varie proposte che si sono susseguite hanno visto via via ridursi l’aliquota promessa, tanto che il 33% del Berlusconi di un quarto di secolo fa ci pare quasi di sinistra.

Flat tax significa, alla lettera, imposta piatta. In genere s’intende un’imposta sul reddito con una sola aliquota, quindi molto distante dall’Irpef attuale che applica aliquote crescenti a scaglioni più alti di reddito (adesso l’Irpef ha 5 aliquote, in passato molte di più). Flat tax è però un’espressione ambigua che nasconde vari possibili significati e ammette strutture dell’imposta sul reddito molto diverse tra loro. Non è detto che una flat tax debba per forza essere poco o per nulla progressiva. Potrebbe anche esserlo molto e raccogliere un gettito elevato. Ma non è questo il caso che viene in mente pensando alla flat tax. Tutte le proposte che sono state presentate in Italia negli ultimi tempi presentano infatti almeno due caratteristiche:

  • Riduzione della progressività. Rispetto all’Irpef di oggi, l’incidenza dell’imposta sul reddito diminuirebbe soprattutto sui redditi alti.
  • Riduzione del gettito, con conseguente aumento del deficit a meno di non tagliare la spesa pubblica.

Nella sua versione più semplice la flat tax moltiplica con una sola aliquota tutta la base imponibile. In questo caso l’imposta è proporzionale, nel senso che povero e ricco versano un’uguale percentuale del proprio reddito, anche se in assoluto l’imposta aumenta al crescere del reddito. Per renderla progressiva è sufficiente introdurre una deduzione, cioè una riduzione del reddito prima dell’applicazione dell’aliquota, o una detrazione, cioè una riduzione dell’imposta dovuta. Tutte le varie proposte di flat tax presentate ultimamente in Italia sono progressive per deduzione. Anche in gran parte dei paesi dell’Europa orientale che adottano la flat tax essa è progressiva, e solo raramente proporzionale.

Le proposte di flat tax. Nel panorama italiano la proposta più organica di flat tax proviene dall’Istituto Bruno Leoni (Ibl), che prevede un’aliquota al 25% applicata a tutte le principali imposte: Irpef, Ires, Iva (mantenendo le aliquote agevolate) e sostitutiva sui redditi di natura finanziaria.

La nuova Irpef sarebbe ancora progressiva grazie ad una deduzione sempre capiente: se il reddito familiare è inferiore alla deduzione, l’imposta diventa un trasferimento (il cosiddetto minimo vitale) che colma la differenza tra soglia di povertà e reddito. Non si fanno eroiche ipotesi di recupero del gettito attraverso l’esplosione dell’offerta di lavoro o il calo dell’evasione, ma realisticamente si riconosce che per coprire la perdita di gettito derivante dal taglio dell’Irpef e dalla introduzione del minimo vitale non basterebbe riformare la spesa assistenziale e aumentare l’Iva. Si prevede quindi una spending review molto pesante (circa 30 miliardi) e l’introduzione di un contributo sanitario a carico delle famiglie più abbienti (18 miliardi di gettito), le quali dovrebbero scegliere: o rimanere nel servizio sanitario nazionale e pagare il contributo, oppure passare ad assicurazioni sanitarie private. La proposta ha anche un esplicito intento politico: si tratta di legare le mani allo Stato fissando un limite massimo alla sua capacità di prelevare reddito dai contribuenti. L’intervento pubblico deve diventare più leggero, lasciando più spazio al mercato anche nel welfare.

Nel contratto di governo stipulato lo scorso anno tra Lega e 5 Stelle, come si è detto, viene proposto uno schema a due aliquote: 15% e 20%. La progressività è garantita oltre che dai due scaglioni anche da una deduzione di 3.000 euro per ciascun componente se il reddito familiare è inferiore a 35.000 euro, 3.000 euro per ciascun familiare a carico per redditi compresi tra 35.000 e 50.000 euro. Il contratto continua a parlare di flat tax, ma è più corretto parlare di quasi flat tax. Non si precisa a partire da quale soglia si inizierebbe a pagare il 20%, ma dichiarazioni di vari esponenti della Lega hanno fatto riferimento a 80.000 euro. La copertura principale consiste nell’emersione di base imponibile evasa, a cui si aggiunge il gettito delle imposte sui consumi provocato dalla maggiore domanda, conseguenza dell’incremento del reddito disponibile. Senza considerare effetti di reazione, il gettito della quasi flat tax del contratto di governo sarebbe di circa 50 miliardi inferiore rispetto a quello dell’Irpef attuale.

La figura 1 mostra come cambia l’incidenza dell’imposta sull’intera collettività, in particolare per decili di reddito complessivo familiare. Le curve dell’incidenza delle due proposte sono quasi sovrapposte: le due versioni della flat tax realizzano sostanzialmente lo stesso tipo di redistribuzione per gran parte delle famiglie. Sui redditi più alti l’incidenza è maggiore per la versione Ibl grazie alla più alta aliquota.

Fig. 1: Incidenza dell’Irpef sul reddito complessivo, per decili di reddito complessivo equivalente

Fonte: nostre elaborazioni su dati Silc

Come si distribuirebbe il beneficio tra classi di reddito? In entrambi i casi una parte significativa dello sgravio fiscale va al decimo decile: il 47% con la proposta IBL, il 53% con quella M5S-Lega. Le classi medie –diciamo dal quinto all’ottavo decile – otterrebbero circa il 25-20% del minor gettito, mentre al 40% più povero andrebbe solo il 4-7% del totale. Circa due terzi del risparmio d’imposta vanno al 20% più benestante delle famiglie. La riduzione dell’Irpef vale cica il 2-3% del reddito per la classe media, il 6-10% per i redditi più alti.

Gli sviluppi più recenti. Un primo modulo di flat tax del governo trova applicazione già nel 2019: consiste in una significativa riforma della tassazione su autonomi e imprese individuali, discussa da Dili nel Menabò. Il regime dei “minimi”, fino al 2018 riservato ai contribuenti con fatturato inferiore a soglie variabili da 30.000 a 50.000 euro a seconda dei settori, viene esteso a tutti gli indipendenti sotto i 65.000 euro di ricavi. All’utile, determinato con coefficienti di redditività, si applica il 15% (5% per le nuove imprese) per ottenere un’imposta sostitutiva di Irpef (incluse addizionali locali), Iva e Irap. Dal 2020, inoltre, si prevede un’imposta sostitutiva del 20% che si applicherà a tutto il reddito di autonomi e imprese individuali con fatturato tra 65.000 e 100.000 euro. Il nuovo sistema spinge a mantenere basso il fatturato per non ricadere nell’Irpef progressiva. Inoltre, può incentivare, come sembra emergere dai primi dati disponibili, la trasformazione di contratti a termine in partite Iva. Gli indipendenti che rientrano nelle soglie saranno quindi sottoposti ad una flat tax, con significativo risparmio d’imposta rispetto agli altri contribuenti con uguale reddito: il beneficio medio atteso è di 4.725 euro annui per il nuovo regime forfettario al 15%, e di 5.739 euro per il regime sostitutivo al 20%. Si crea così una violazione dell’equità orizzontale: a parità di reddito buona parte degli autonomi pagherà una minore imposta rispetto a dipendenti e pensionati.

Anche nell’ultimo DEF si accenna genericamente alla volontà di implementare la flat tax. È circolata la proposta di un secondo modulo che riguarderebbe questa volta le famiglie con reddito complessivo inferiore ai 50.000 euro, con deduzioni per numero di familiari. Si applicherebbe un’aliquota del 15% al reddito della famiglia, mentre superati i 50.000 euro si ritornerebbe alla tassazione Irpef su base individuale. Anche in questo caso la presenza di una soglia crea un incentivo a rimanere piccoli, quindi a non oltrepassare i 50.000 euro o a lavorare in nero. In più una flat tax cosi disegnata avvantaggia rispetto al sistema esistente le famiglie monoreddito e disincentiva fortemente la produzione di reddito da parte di un secondo percettore in famiglia.

In una coppia con reddito totale di 40.000 euro, ad esempio, questo schema può indurre il coniuge non occupato a non accettare un lavoro magari di 15.000 euro, perché in tal caso il nucleo ricadrebbe nel sistema attuale con un incremento d’imposta estremamente elevato. In un paese con bassa occupazione femminile, il passaggio alla tassazione su base familiare, per di più con una soglia, pare una scelta poco comprensibile. Sempre in una famiglia con un solo percettore di 40.000 euro, questi guadagnerebbe circa 5.000 euro rispetto al sistema attuale, mentre due lavoratori, entrambi con 20.000 euro, pagherebbero addirittura di più con la flat tax rispetto ad oggi. La perdita di gettito stimata si aggira attorno ai 17 miliardi secondo le nostre stime. L’imposta con base mista (familiare fino a 50.000 euro, individuale oltre) introduce inoltre un ovvio disincentivo alla formazione di nuclei matrimoniali, il che suona paradossale per un governo che si dichiara favorevole alla famiglia.

Per riassumere, una flat tax con aliquote basse come quelle proposte implica un’insostenibile perdita di gettito. Si potrebbe – in ottica gradualista – pensare di restringere la platea degli aventi diritto alla flat tax solo ai redditi bassi, generando però due insiemi di problemi.

In primo luogo, sorgono forti iniquità orizzontali. È questo il caso del nuovo regime dei minimi, che discrimina tra dipendenti ed autonomi e, con riferimento a questi ultimi, tra chi rientra nel regime agevolato e chi no; ed è anche il caso della “flat tax per le famiglie”, che discrimina tra famiglie monoreddito e famiglie bi-reddito. In secondo luogo, la presenza di soglie di reddito oltre le quali non si applica la flat tax induce a restare “piccoli”, alimenta il lavoro nero e distorce le scelte di offerta di lavoro dei contribuenti.

Ma se una flat tax pone così tanti problemi, perché – caso praticamente unico tra i paesi dell’Europa occidentale – ha tanto successo nel nostro dibattito politico? Crediamo che alla base vi sia una generica ma forte insoddisfazione per il fisco attuale, considerato vessatorio e troppo complesso. La stessa Irpef pone ormai forti problemi di equità orizzontale, perché ha visto uscire dalla propria base imponibile importanti componenti reddituali, con l’esito di sottoporre a forte progressività sostanzialmente solo i redditi da lavoro dipendente e da pensione.

Questa attenzione da parte dell’opinione pubblica per la flat tax è in sostanza motivata dal diffuso desiderio di diminuire la pressione fiscale, reputata troppo elevata ed ingiustamente distribuita. Per diminuire la pressione fiscale, tuttavia, non è necessario far collassare la progressività del sistema, ma si potrebbe intervenire ritoccando le aliquote dei singoli scaglioni, ad esempio abbassando quella sul terzo scaglione, che oggi dista ben 11 punti percentuali dalla seconda. Abbassandola dal 38% al 32% si ridurrebbe il carico fiscale soprattutto sulla classe media, con un costo di poco più di 6 miliardi, ampiamente sopportabile.

In futuro il grande dibattito sarà tra chi vuole difendere la progressività dell’imposta sul reddito, passando necessariamente per la ricomposizione della base imponibile, e tra chi pensa che ormai il modello ideale dell’imposta sul reddito onnicomprensivo sia lontanissimo, rendendo inevitabile un sistema con tante imposte con la stessa aliquota flat.

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