Flat tax. Alcune note da tenere a mente

Ruggero Paladini si occupa della proposta di introduzione in Italia di una flat tax. Paladini pur riconoscendo che l’Irpef come è oggi strutturata presenta diversi limiti, sostiene che la flat tax non costituisce un valido antidoto. Tra i problemi che essa pone spicca la gigantesca redistribuzione di reddito a favore del decile più elevato dei contribuenti. Paladini ritiene che sarebbe desiderabile ridurre la pressione tributaria sui redditi medio-bassi, introdurre una misura unica di spesa per i figli e aumentare l’aliquota marginale sui redditi più elevati.

1. L’Irpef nasce nel 1974 in netto ritardo rispetto agli altri paesi avanzati. Inizialmente il suo peso è relativamente minore rispetto a quello delle imposte indirette. Ma per “merito” della forte inflazione che per, venti anni, caratterizza l’economia italiana, ai primi anni novanta ha già raggiunto un peso analogo o anche superiore a quello che ha negli altri paesi. Il suo peso sul Pil è dell’11%, rispetto ad una media OCSE di 8,4%. La riduzione della pressione dell’imposta di un punto di PIL a vantaggio dei trenta milioni di contribuenti (dieci sono a imposta zero) può costituire un plausibile obiettivo di un programma di governo. La questione è come effettuare questa riduzione.

L’Irpef presenta molte criticità, oltre a quella, più nota, dell’evasione. Esenta, grazie alle detrazioni e deduzioni una quota significativa di contribuenti, pur nulla facendo per gli incapienti, la sua incidenza sale molto velocemente, ma poi rallenta e sale lentamente. Ad esempio, se consideriamo contribuenti senza carichi familiari e spese detraibili l’incidenza varia al variare del loro reddito nel modo seguente:

Andamenti analoghi si osservano per tutte le tipologie di contribuenti. In sostanza, il peso dell’Irpef (tutti i dati sono relativi alle dichiarazioni 2017) grava in modo significativo sulle classi medie: il 6° e 7° decile, il cui reddito è molto vicino a quello medio (20.200 euro), hanno un’incidenza di 15,4%, mentre quella media totale è di 19,6%.

Inoltre l’Irpef si caratterizza per una notevole opacità; le aliquote marginali effettive sono più alte di quelle formali (dal 23% al 43%) e si diversificano a seconda del tipo di reddito e di familiari a carico.

Malgrado tutti questi difetti l’Irpef presenta un buon grado di progressività: il 9° decile ha un’incidenza del 20,7% e il 10° del 29,4%. Nel complesso si tratta di otto milioni di contribuenti che versano i due terzi del gettito.

  1. Quali obiettivi dovrebbero essere perseguiti da un intervento di riforma? Io indicherei i seguenti:
  2. i) far coincidere le aliquote formali con quelle effettive, eliminando il carattere decrescente delle detrazioni per tipologia di reddito, riducendo le aliquote sui redditi bassi e ottenendo così una riduzione del peso dell’Irpef sui redditi medio-bassi e medi;
  3. ii) eliminare le detrazioni per familiari a carico spostando verso un istituto di spesa le somme relative, istituto che riassorbe anche gli assegni al nucleo familiare e altri interventi assistenziali per le famiglie;

iii) aumentare l’aliquota marginale più alta per accentuare l’elasticità dell’imposta a livelli elevati di reddito. Una proposta con queste caratteristiche (con l’aggiunta di una fiscalizzazione di una quota dei contributi sociali a carico dei lavoratori, per riassorbire il bonus 80 euro) si trova dal 2014 sul sito del Nens; una variante più recente in un articolo di F. Di Nicola e R. Paladini sulla Rivista delle Politiche Sociali n. 3-4 del 2016.

Questi obiettivi sono esattamente all’opposto di quelli della flat tax che è stata al cuore del programma del Centro-Destra nelle scorse elezioni e del contratto di governo fra Lega e M5S. Le vicende del governo ne allontanano l’introduzione, ma alla flat tax è bene continuare a prestare attenzione poiché è del tutto plausibile che essa sarà un tema centrale della prossima campagna elettorale.

A quali obiettivi s’ispira la proposta della flat tax? Alla quasi totale eliminazione della progressività dell’Irpef. Nella versione resa nota dalla stampa durante la stesura del “contratto” i criteri sono:

  1. tassazione sulla base del reddito familiare e non individuale;
  2. due aliquote, 15% fino a 80.000 euro di reddito (familiare) e 20% oltre;
  • 000 euro di deduzione per ciascun membro del nucleo familiare se il reddito è inferiore a 30.000 euro; da 30.000 a 50.000 euro la deduzione si limita ai soli familiari a carico.

Nella versione finale del contratto sopra richiamato si parla di: “due aliquote fisse al 15% e al 20% per persone fisiche, partite IVA e famiglie; per le famiglie è prevista una deduzione fissa di 3.000 euro sulla base del reddito familiare”.

Sorvolando sulla curiosa espressione “persone fisiche, partite IVA e famiglie”, sono confermate le due aliquote, mentre i cambiamenti riguardano da un lato la mancata indicazione del limite superiore del primo scaglione e, dall’altro, la vaghezza sulla deduzione dei 3.000 euro; in realtà, il fatto che non si parli più di 3.000 euro per componente, potrebbe far pensare a una sola deduzione, allo scopo di ridurre la perdita di gettito, stimata (da Baldini e Rizzo su LaVoce.info) in circa 50 miliardi.

Poiché la versione finale non smentisce quanto emerso in precedenza, ragioniamo sulla base dei tre punti sopra descritti. Il sistema conserva una flebile progressività, ma solo ad intervalli; se prendiamo un lavoratore dipendente senza carichi familiari, possiamo dire che, grazie alla clausola di salvaguardia, da 8.000 a 15.000, l’incidenza resta quella del sistema attuale (senza la clausola di salvaguardia pagherebbe di più), passando da 0 al 12% di incidenza. Quest’ultima cresce lentamente fino al 13,5% a 30.000 euro. A quel livello di reddito l’aliquota marginale (una tantum) per un incremento di 1.000 euro è del 60%, perché la deduzione scompare, e l’incidenza passa al 15%. A questo punto la progressività cessa, l’aliquota media rimane al 15% fino a 80.000, quando scatta l’aliquota al 20%. Al crescere del reddito l’incidenza riprende a salire lentamente, tendendo (senza mai raggiungerlo) verso il 20% anche se il reddito crescesse all’infinito.

Nel caso poi di una famiglia di quattro membri, si avrebbe un’aliquota marginale (una tantum) del 150% nel passaggio da 50.000 a 51.000, per effetto del venire meno delle deduzioni per i familiari a carico.

  1. La flat tax con le caratteristiche che abbiamo visto determina uno sgravio che non solo aumenta in valore assoluto al crescere del reddito, ma aumenta anche in termini percentuali. Si tratta quindi di una gigantesca redistribuzione di reddito dalla quale vengono esclusi un quarto delle famiglie, che non ricevono nulla o somme irrisorie; i grandi vincitori sono quel dieci per cento di appartenenti al decile più elevato (circa due milioni e mezzo di famiglie). Si potrebbe dire che questo gruppo sociale ha conquistato l’egemonia nel mondo politico di destra concedendo limitati incrementi di reddito alle classi sociali intermedie; le briciole di un ricco banchetto. Per classi intermedie intendo i contribuenti che dichiarano un reddito imponibile tra i 15000 ed i 35000 euro: si tratta di 18 milioni di contribuenti. I loro guadagni con la flat tax variano, tipicamente, da 200 a 600 euro.

La flat tax è nata nell’ambito delle teorie della supply side economics, secondo la quale la riduzione della pressione fiscale determina un tale aumento di produzione e lavoro da generare entrate pubbliche maggiori del costo delle riduzioni fiscali. Questi concetti sono ripetuti nel testo del “contratto”, benché in esso faccia capolino anche una versione di tipo keynesiano: le famiglie avranno più reddito, quindi consumeranno di più, quindi crescerà la produzione ecc…. Ma è ovvio che adottando questo punto di vista il maggior reddito dovrebbe andare soprattutto alle classi di reddito più basse, che hanno la più elevata propensione al consumo, non alle più alte.

Qualche dubbio però sul fatto che la flat tax possa generare maggior reddito in misura tale da coprire il costo di 50 miliardi deve serpeggiare tra leghisti e pentastellati, il che spiega la presenza di una non ben specificata “pace fiscale” cioè un condono, che rappresenta un classico dei governi di Berlusconi e Tremonti. Inoltre l’esperto (si fa per dire) della Lega Armando Siri ha accennato alla possibilità di ridurre le spese fiscalmente riconosciute, che però interessano 32 milioni di contribuenti. Le sole detrazioni per ristrutturazioni immobiliari e per risparmio energetico (per un valore di 6,5 miliardi) sono effettuate da 11 milioni di contribuenti.

Di sicuro la flat tax costituisce la voce di bilancio più impegnativa del programma Lega-M5S, nettamente superiore alla revisione delle misure Fornero sulle pensioni o al reddito di cittadinanza. E’ probabile che, arrivati a settembre, il nuovo governo metterà un deciso piede al freno.

Schede e storico autori