Finalità pubbliche e concorrenza: idee sull’Università del futuro

FraGRa s’interrogano sulle finalità dell’Università pubblica prendendo le distanze dall’opinione secondo cui occorre “produrre” ricerca e buona didattica adeguandosi al funzionamento dei mercati. Al contrario, secondo gli autori, dovrebbero essere potenziate le finalità pubbliche dell’Università in particolare quella della promozione dell’uguaglianza di opportunità, sotto diversi aspetti, e quella della formazione civile degli studenti. Gli autori illustrano perché non vi è incompatibilità tra questi obiettivi e i meccanismi competitivi

Dobbiamo a Clark Kerr, un economista che fu il primo Chancellor dell’Università di Berkeley, una folgorante constatazione. Qualche anno fa egli ha scritto che solo 75 delle istituzioni già esistenti nel 1520 sono ancora attive in una forma riconoscibile, con funzioni simili e senza che si siano mai verificate interruzioni nella loro storia: la Chiesa cattolica; i parlamenti della Gran Bretagna, della isola di Man e dell’Islanda; le strutture di governo di alcuni cantoni svizzeri, il Monte dei Paschi di Siena e più di 60 università – peraltro in gran parte localizzate nella loro sede originaria ( C. Kerr, Higher Education Cannot Escape History, 1994).

Le Università, dunque, hanno attraversato, apparentemente senza venirne scalfite, molti secoli di storia, compiendo una specie di magia: hanno mantenuto nel tempo modalità di funzionamento largamente simili continuando a esercitare un ruolo educativo essenziale per il progresso della società. Se si usasse una lente d’ingrandimento non sarebbe, tuttavia, difficile individuare una lunga serie di differenze tra l’Università di oggi e quella del passato, o di diversi passati. Per svolgere il loro ruolo, le Università si sono, infatti, costantemente adeguate ai tempi, interrogandosi su come declinare al meglio, nei diversi contesti, la propria immutata funzione di promozione della conoscenza.

Non è superficiale retorica affermare che negli ultimi decenni il mondo è cambiato, e sta velocemente cambiando: nell’economia, nella società, nelle istituzioni politiche e nella stessa caratterizzazione della democrazia. Di fronte a questi cambiamenti non porsi il problema delle finalità dell’Università potrebbe essere una colpevole leggerezza in grado di spingere le università su un percorso che le renderà meno riconoscibili al Clark Kerr dei prossimi decenni.

Oggi è ben radicata la tendenza a considerare risolto il problema delle finalità dell’Università: si tratterebbe – qualsiasi sia il loro assetto, pubblico o privato – di “produrre” ricerca e buona didattica. Il vero problema consisterebbe, invece, nel perseguire queste finalità in modo efficiente ed efficace. Con rigore e coerenza si compiono, ad esempio, esercizi di stima dell’efficienza delle Università considerando, da un lato, gli studenti e i docenti come input e, dall’altro, il numero dei laureati – ed eventualmente il loro successo nel lavoro – assieme a qualche indicatore dell’attività di ricerca, come output.

Queste analisi sono utili ma, dal nostro punto vista, troppo frettolose nel dare per acquisito che i fini siano la didattica e la ricerca, peraltro concepite e misurate in modi che non mancano di sollevare perplessità – anche se in questa materia le perplessità sono inevitabili e si tratta, per così dire, di minimizzarle. Va bene insegnare, ma cosa: solo quello che serve a un troppo mitizzato e non sempre facilmente conoscibile mercato del lavoro? Va bene fare ricerca, ma su cosa e come?

Proviamo ad abbozzare qualche riflessione. Sul piano individuale, resta largamente intatta la sensazione di trasmettere competenze, sostenendo gli studenti nella definizione e nella realizzazione dei loro percorsi formativi e di contribuire, con la ricerca, alla riflessione su questioni di interesse generale. Ciò nondimeno, la domanda se occorra fare di più e in modo diverso rimane aperta in un mondo dove i confini fra paesi e culture s’indeboliscono; il lavoro cambia radicalmente e per molti potrebbe scomparire del tutto (basti pensare alle stime di Frey e Osborne secondo cui il 47% delle attuali occupazioni sarebbe destinato a scomparire nei prossimi due decenni); le nuove tecnologie dell’informazione modificano nel profondo i nostri più complessivi stili di vita; i vincoli dei bilanci pubblici appaiono sempre più stringenti; la concentrazione della ricchezza aumenta le disuguaglianze nell’istruzione (anche in ragione del carattere di bene posizionale dell’istruzione stessa) e l’azione collettiva sembra perdere sempre più il senso del comune, stretta fra rivendicazione di interessi particolaristici e rischi di populismo.

Per questi motivi, e non soltanto per questi, ci pare di non poter fare nostra la diffusa opinione secondo cui il funzionamento delle università pubbliche dovrebbe sempre più avvicinarsi a quello delle università private e il loro obiettivo primario, se non unico, dovrebbe essere quello di adeguarsi al mercato. Formulata in astratto la raccomandazione di adeguarsi al mercato, se equivale a raccomandare la competizione, è largamente accettabile. Il problema sorge quando ci chiediamo verso quali risultati dovrebbero condurci il mercato e la concorrenza. Perché questo è il problema di fondo e l’Università pubblica non può eluderlo, non può mancare di interrogarsi sulle proprie finalità. Farlo non equivale a rinunciare ai meccanismi competitivi: questi possono essere variamente congegnati e possono condurre a esiti molto diversi. Il primo passo è, comunque, ragionare sulle finalità pubbliche. Qui ne indicheremo soltanto due che ricadono nell’ambito della didattica.

La prima concerne la promozione dell’uguaglianza di opportunità sotto il duplice profilo della facilità di accesso e della qualità media della formazione offerta. La questione è importante alla luce del valore dell’istruzione quale capacità umana fondamentale e quale bene centrale nell’economia dell’informazione.

La promozione dell’uguaglianza di opportunità non comporta il rifiuto generalizzato della selettività: alcuni corsi di laurea a numero chiuso sono assolutamente giustificabili così com’è necessaria la selettività per l’accesso ai dottorati; peraltro, la selezione è giustificata dopo l’immatricolazione e, anzi, il processo formativo dovrebbe essere più rigoroso contro la tendenza a trasformare l’Università in un esamificio; inoltre, essa non significa disinteresse per le “eccellenze”. Il punto è che bisogna evitare che la corsa ad accaparrarsi “i migliori” studenti (come se gli altri facessero perdere risorse) favorisca la creazione di circoli viziosi di disuguaglianza.

Al contrario, una delle ragioni dell’Università pubblica dovrebbe proprio essere quella di innalzare il livello medio d’istruzione. Occorrerebbe, pertanto, dire no a restrizioni ulteriori all’accesso sulla base del curriculum nell’istruzione superiore (offrendo, invece, seconde chances a chi già è stato svantaggiato dalla lotteria sociale, anche grazie a misure di sostegno all’istruzione quale quelle richiamate da Torrini in questo numero del Menabò); e occorre dire no a trasformazioni del finanziamento nella direzione di un sostanziale pagamento del costo dell’istruzione per chi può e di prestiti d’onore per gli studenti provenienti dalle famiglie più povere. Alla luce anche dell’attuale incerta evoluzione del mercato del lavoro, ciò rischierebbe non soltanto di imporre costi insopportabili ma anche di fornire incentivi troppo potenti scegliere il percorso formativo in funzione del rendimento economico di breve termine che da esso ci si attende. Ricordiamo che negli Usa, l’ammontare dei debiti degli studenti ammonta oggi a 1.200 miliardi di dollari con 7 milioni di persone che hanno dovuto dichiarare bancarotta personale

La seconda finalità si riferisce all’impegno nella formazione civile degli studenti. Fra i tanti significati di pubblico vi è quello di uno spazio in cui ci si rapporta gli uni agli altri come soggetti degni di uguale considerazione e rispetto, come uguali, come se gli altri potessero essere noi stessi. Tutto ciò ha numerose implicazioni. Ad esempio, nell’arena politica non potremmo pretendere che le nostre posizioni vengano prese per buone soltanto sulla base delle nostre convinzioni individuali. Al contrario, come ben ammoniva Socrate, non è solo il nostro essere umani che richiede di mettere in discussione la doxa, cercando l’accordo con se stessi; lo richiede anche la convivenza democratica, la quale trae alimento dalla presenza della ragione pubblica ossia dall’adesione a principi che si condividono, appunto, sulla base dei tanti io che potremmo essere. Al riguardo, vorremmo ricordare il tentativo coraggioso di Nafisi, professoressa di letteratura a Teheran, che negli anni immediatamente successivi all’ascesa al potere di Khomeini, ha cercato ancora il dialogo in classe fra gli studenti seguaci dello Ayatollah, ostili alla letteratura occidentale, e gli studenti che, invece, difendevano le ragioni per leggere J. Austen (A. Nafisi, Leggere Lolita a Teheran). Nel mercato del lavoro, potrebbe significare sia limitare alcune manifestazioni del potere dei datori di lavoro e di chi occupa i vertici delle gerarchie organizzative – come sono le richieste di sottomissione di individui a cui invece ci si dovrebbe rapportare come uguali – sia sviluppare ethos professionali attenti alle ragioni dei beneficiari dei servizi offerti.

Naturalmente il modo in cui viene valutata e premiata l’attività didattica e quella di ricerca incide sulle scelte delle università. La valutazione, alla quale si collega – giustamente – l’assegnazione delle risorse pubbliche, funge da incentivo ai comportamenti. Pertanto, dovrebbero essere ricercati e introdotti incentivi diretti a favorire le finalità “pubbliche” che abbiamo indicato. Si tratta di un compito non semplice ma certamente possibile. E di un compito compatibile con la competizione purché questo termine sia opportunamente qualificato. Le università possono e devono competere per i “migliori” ricercatori e docenti, ma se le finalità sono quelle indicate piuttosto che, ad esempio, semplicemente quelle di massimizzare il numero di laureati o il numero di pubblicazioni di più alto “impatto” bibliometrico dei docenti, i “migliori” studenti e docenti da attrarre saranno diversi.

Le università, date le finalità pubbliche di cui si è detto, non dovrebbero competere soltanto per accaparrarsi gli studenti considerati migliori, in termini di risultati scolastici già conseguiti. Dare incentivi troppo potenti in questa direzione potrebbe confliggere con l’obiettivo di assicurare la mobilità sociale, che nessuna società moderna e democratica dovrebbe mancare di porsi: il periodo concesso a chi proviene da background svantaggiati per colmare l’immeritato svantaggio di cui soffre rischia di essere troppo breve per una ragionevole concezione dell’eguaglianza delle opportunità e, quindi, per una società più mobile. L’incentivo dovrebbe essere anche a fare in modo che i ritardi di chi è svantaggiato siano ridotti il più possibile negli anni della formazione universitaria. Tutto questo è, peraltro, in linea con quanto prevede l’OCSE nei suoi criteri di valutazione delle riforme scolastiche: uno di quei criteri riguarda proprio l’influenza sulla mobilità sociale.

La questione delle finalità delle università non può, dunque, essere risolta con un semplice rimando al mercato Quest’ultimo può certamente svolgere utili funzioni, soprattutto se serve a evitare privilegi e sprechi conclamati, ma non può di per sé spingere a comportamenti coerenti con finalità che ad esso sono estranee. Il mercato di per sé non spinge a attivare comportamenti favorevoli alla mobilità sociale, non premia la creazione di capitale sociale, più in generale non premia tutti quei benefici sociali che non si traducono in benefici appropriabili dal singolo che una società democratica e avanzata può considerare tali.

Muovere nella direzione che auspichiamo richiede importanti cambiamenti nelle università statali. Sappiamo benissimo che pubblico non coincide con statale e che quanto sopra auspicato potrebbe anche essere realizzato da università private senza scopo di lucro. Il punto è che da queste ultime potrebbe essere fatto, mentre le università pubbliche dovrebbero farlo, dovrebbero giungere a considerarla la loro ragione d’essere. E lo Stato dovrebbe impegnarsi in questa direzione: definendo le finalità, disegnando gli incentivi appropriati per perseguirle in un contesto di mercati diversamente competitivi e prevedendo anche appropriate modalità di governance dell’Università. Queste ultime dovrebbero ispirarsi meno a modelli di tipo gerarchico e più a modelli che permettono di ben funzionare a una comunità di uguali; esse dovrebbero anche curare che gli incentivi a perseguire finalità pubbliche non siano snaturati da finanziamenti e incentivi privati incompatibili con quelle finalità.

Un’operazione di questo tipo potrebbe permettere all’Università di fungere da vettore intelligente di progresso economico e sociale, e non solo da strumento efficiente al servizio di fini che da soli non assicurano quel progresso e che sono, inevitabilmente, quelli verso cui conduce il mercato se non è diversamente competitivo.

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