ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 173/2022

30 Maggio 2022

Federico Caffè: le sue parole-chiave, la nostra gratitudine

Questo numero del Menabò si apre con il ricordo di due economisti italiani scomparsi da tempo, il cui pensiero continua ad essere fonte di ispirazione. Maurizio Franzini presenta il testo della relazione da lui tenuta alla Sapienza in occasione della commemorazione di Federico Caffè e indica, in particolare, alcune parole-chiave che lo caratterizzano come economista e come intellettuale.

Poco più di un anno prima di quella notte di metà aprile del 1987 in cui varcò per l’ultima volta il cancello della sua abitazione, Caffè aveva pubblicato il suo ultimo libro dal titolo “In difesa del welfare state”. Da quel libro conviene partire e non soltanto per la sua attinenza con ciò di cui si discuterà tra poco in questa aula, ma anche perché quel libro è, a me pare, un’ottima introduzione alle sue convinzioni più radicate, ai suoi punti fermi, alle parole-chiave del suo impegno di intellettuale e ricercatore.
Anzitutto quel libro non lascia dubbi su cosa fosse per lui il welfare state, quello da difendere. Non la somma di spese sociali e redistribuzione ma l’irrinunciabile strumento per assicurare a tutti l’accesso a una vita dignitosa, che significa anche – e forse soprattutto – un lavoro dignitoso. In breve il welfare serve a realizzare l’egualitarismo. E egualitarismo è la prima parola-chiave.
La seconda parola-chiave, strettamente collegata, è umanesimo. E’ l’umanesimo che ispira la sua visione del welfare. Non la più ricorrente concezione paternalistico- autoritaria che nel migliore dei casi porta a farsi carico, assistendoli, dei poveri. Per Caffè il punto è promuovere la loro autonomia, riconoscere loro il diritto a una vita dignitosa.
La terza è riformismo, contro ogni derisione. La derisione del riformista è al centro di uno dei suoi più noti articoli giornalistici, pubblicato 40 anni fa sul Manifesto. Come ho già avuto modo di osservare, in quell’articolo Caffè sostiene che a deridere il riformista sono, da un lato, i portavoce del retoricume neoliberista con la loro spericolata fiducia nei mercati e, dall’altro, i profeti di una palingenesi, di una rivoluzione, il cui tratto distintivo è, ai suoi occhi, la vaghezza. E anche rispetto al welfare state le due categorie si esercitano in pratiche di derisione. Parlano di crisi fiscale dello stato, di eccesso di assistenzialismo, gli uni per denunciare l’irrimediabile danno che ne deriverebbe per il funzionamento dei mercati, gli altri per prefigurare un fallimento istituzionale che non potrà essere corretto se non, finalmente, con la palingenesi di cui sopra. Entrambi parlano di declino o crollo del welfare. Caffè, forse indignandosi al pensiero delle sofferenze sociali che aveva davanti agli occhi – e non pensiamo a che effetto gli farebbero quelle di oggi – sentenzia: “Il problema dello stato garante del benessere sociale (perché un problema indubbiamente esiste) [è] quello della sua mancata realizzazione; non già quello del suo declino o del suo superamento.”
E per realizzare lo stato del benessere occorrono idee. Alcune buone già circolano e lui va a cercarle, con grande rispetto per le ricerche altrui, secondo il suo costume, nella letteratura economica mondiale. Altre devono essere prodotte per fare fronte alle sfide del presente. Tra le idee buone che circolano ci sono, ad esempio, quelle di riforma del sistema fiscale nella prospettiva di conciliare equità ed efficienza – altro che crisi fiscale! – avanzate da James Meade, un economista di cui ammirò la capacità di produrre idee nuove rimanendo nel solco di quello che lui considerava il messaggio centrale di Keynes.
E, a proposito delle idee, emerge la quarta parola chiave che è eclettismo. Non sopportava le contrapposizioni di scuole, le prese di posizione in base alle appartenenze piuttosto che al merito delle idee. Considerava uno spreco di energie intellettuali i dibattiti a colpi di citazioni dei testi che ciascuno considerava sacri. E quando questo avveniva nel campo a lui più vicino – quello keynesiano – ne soffriva particolarmente. L’eclettismo diceva, riprendendo una frase di Samuelson, più di ogni altra cosa è una necessità. E il mio tardo sospetto è che questa convinzione l’avesse tratta anche dalla sua esperienza alla Costituente. Caffè vide quale mirabile sintesi si produsse dall’eclettica contaminazione tra pensiero liberale, socialista e cattolico e forse si è chiesto: se la Costituzione (più bella del mondo) è figlia dell’eclettismo perché non possono esserlo anche le politiche che devono dare corso ai principi in essa contenuti?
E a questo si può agganciare la quinta parola chiave che è keynesismo, ma delle idee e non delle specifiche politiche. Per lui Keynes non era – non era per sempre- colui che aveva ‘scoperto’ le politiche di gestione della domanda, le politiche macroeconomiche. Era, invece, colui che aveva proposto “una visione del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale”. E le gambe sulle quali gli uomini devono far camminare il miglioramento sociale possono cambiare con le fasi storiche. Il suo essere keynesiano era l’adesione a questa visione non a specifiche politiche e in più di un’ occasione non si trattenne dal manifestare delusione per lo scarso impegno che veniva profuso per dare corso al messaggio essenziale di Keynes.
La sesta parola-chiave – forse più sorprendente delle precedenti – è istituzioni, ricchezza e varietà delle istituzioni. Il welfare come lui lo intendeva richiedeva un assetto istituzionale complesso, costituito di certo non dal solo mercato anche se integrato con un intervento pubblico meramente redistributivo o, si può aggiungere, con politiche macroeconomiche keynesiane. Posso solo citare qui la sua garbata ma ferma polemica con i giuristi di impresa ai quali muoveva l’appunto di schierarsi – in nome del diritto – a favore dei fallimenti e licenziamenti di fronte alle crisi di impresa, mostrando poca comprensione per le resistenze dei lavoratori, mentre avrebbero dovuto impegnarsi a definire norme che cambiassero l’assetto istituzionale dell’impresa, a iniziare da quelle che potessero limitare il potere che in essa aveva la finanza, che considerava, almeno in parte, responsabile di quelle crisi.
In ogni caso non aveva dubbi che l’intervento pubblico fosse indispensabile anche come generatore di nuove istituzioni. Ed era consapevole che quell’intervento era sempre più oggetto di diffidenza e di denigrazione: nasceva allora la letteratura sui cosiddetti fallimenti dello stato, cioè sugli errori e le distorsioni dell’intervento pubblico per mancanza di informazioni, per propensione ai favoritismi e agli abusi e anche per corruzione. Caffè a queste critiche rispose con argomenti che nessuno dovrebbe dismettere con sufficienza. Gli abusi e i favoritismi sono un rischio da affrontare soprattutto per evitare che si finisca per trascurare le esigenze, le necessità degli strati più emarginati della società. E aggiunse, preoccupato: “l’impossibilità di raggiungere la perfetta giustizia ha fatto sempre preferire il mantenimento dell’ingiustizia”. In queste parole si può leggere un modo di declinare quella che sarebbe diventata nota come la ‘fallacia del Nirvana’.
E di fronte a tutto questo leva un grido di allarme: “Tra le nostre antiche tare vi è quella della mancanza di una tradizione culturale che, pur senza indulgere all’utopia, fosse tuttavia ispirata al convincimento che lo spirito pubblico, guidato dalla conoscenza, può essere l’artefice del miglioramento sociale”. Spirito pubblico, e conoscenza.
Questo grido di allarme non ha cambiato il corso della storia e non poteva farlo. E con qualche inquietudine possiamo dire, più in generale, che il suo pensiero non ha vinto. Il mondo si è allontanato ancora di più dal suo ideale stato del benessere. Ma è un mondo che non allieta la vita dei più e non solo delle minoranze deboli. E qui sento Caffè: ve l’avevo detto che se non si parte dal difendere I più deboli si finisce per creare una società del malessere. Altro che trickle down, la singolare filosofia che giustifica gli arricchimenti dei già ricchi con l’idea che la loro ulteriore ricchezza sgocciolerà anche ai più poveri. Vale l’opposto. Aiutare i più deboli a essere meno deboli serve, almeno un po’, anche a chi sta più in alto nella scala economica e sociale e attraverso vari meccanismi. Occorre convincersi, direbbe di nuovo oggi, che “il progresso sociale e civile non può essere il sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito.”
Quanto ho detto non dovrebbe lasciare dubbi sul fatto che io penso che Caffè fosse un uomo di straordinaria forza intellettuale e di altrettanto straordinaria coerenza. Un uomo al quale queste virtù diedero la capacità di essere impermeabile alle lusinghe del potere, e a quelle del successo personale. Di se stesso ebbe a dire con parole abbastanza straordinarie: “Non bisogna necessariamente essere modesti, ma io preferisco esserlo per mia scelta personale”. Un uomo che trasse forza dalla sua indipendenza anche quando questa significò un possibile scivolamento verso la solitudine.
Ma questo scivolamento forse non riuscì ad evitarlo quando, per l’ineluttabile scorrere delle stagioni della vita, non poté continuare a coltivare l’unica dipendenza di cui forse soffrì: la dipendenza dall’apprezzamento e dalla stima dei suoi studenti. Credo, anche se non ne ho le prove, che facesse di tutto per suscitare quell’apprezzamento. E uno dei modi per farlo, forse glielo suggerì la sua passione per la musica. Ci hanno detto i suoi parenti che da bambino aveva un vero talento per la musica ed in particolare per il violino. Le umili origini familiari gli impedirono di avere l’opportunità di coltivare quel talento e di questa disuguaglianza di opportunità, vista come è andata, non abbiamo motivo di lamentarci, anche se non sappiamo cosa hanno perso le sale da concerto. Ma la musica gli fu compagna, come molte altre forme di espressione artistica, per tutta la vita. Amò tra gli altri Mahler e Bruckner. Verso Mahler aveva una particolare predilezione, soprattutto per la quinta sinfonia e il suo adagetto.
Ma cosa c’entra la musica con gli studenti? Qualche anno fa mi sono formato l’idea, chissà quanto campata in aria, che preparava le sue lezioni come se fossero sinfonie destinate a estasiare. Le sue lezioni per come le ricordo avevano una struttura che rimandava alla forma sonata delle sinfonie, la quale valorizza al massimo la creatività dell’autore. C’è l’esposizione del materiale tematico, la sua elaborazione ed il suo sviluppo, la ricapitolazione e perfino la coda. In ogni momento si sa dove ci si trova (la tonalità) e gli spostamenti da quel punto, difficili che siano, sembrano quasi naturali, come il passaggio alla dominante. L’esito è un’impressione di ricchezza e varietà, nell’unità. Potrei andare avanti, ma mi sembra di avere già ecceduto con queste fantasie. Vorrei solo aggiungere un paio di cose per concludere. La prima è una curiosa coincidenza. E’ stato detto che la musica di Mahler si caratterizza per l’eclettismo e che la sua grandezza è stata pienamente apprezzata solo dopo la sua morte.
La seconda è che Caffè confessò al nostro amico Daniele Archibugi che al suo funerale avrebbe voluto essere accompagnato dall’adagetto di Mahler. Vista come è andata possiamo lasciarci andare alla fantasia che quella sera varcando per l’ultima volta il cancello di casa nella sua mente risuonasse quell’adagetto, di cui è stato detto che è la confessione a bassa voce di un dolore misterioso. Forse quella sera portava altrove un dolore misterioso, un dolore che non si sentiva di esibire e che forse era anche stanco di provare. Ma c’è anche un altro pensiero più lieve che mi sono trovato di fronte leggendo un libro sull’arte di scomparire di Pierre Zaoui. Scomparire consente di soddisfare la curiosità, forse teneramente narcisistica, di osservare gli altri senza essere osservati e di ascoltare cosa dicono di noi, dopo di noi. Con la morte pare che questo non sia possibile. Con la sparizione sì. E se di questo si tratta avrà avuto modo di capire, da tempo ed anche oggi, quale e quanta sia stata la sua importanza e quale e quanta sia ancora la sua influenza sui tanti che pensando a lui avvertono, sopra ogni altra cosa, un profondo senso di gratitudine.

* Questo testo riproduce la relazione tenuta nell’Aula Caffè della Facoltà di Economia della Sapienza il 24 maggio 2022 in occasione della Commemorazione di Federico Caffè a 35 anni dalla scomparsa e della presentazione del Rapporto sullo Stato Sociale 2022, curato da Felice Roberto Pizzuti, Michele Raitano e Massimiliano Tancioni. Di Caffè ho già scritto di recente sul Menabò n.170, ma mi sono convinto a pubblicare anche questo testo dopo che lettori (non so quanto ‘neutrali’) hanno accertato che è sufficientemente diverso dal precedente.

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