ALL'INTERNO DEL

Menabò n.174/2022

14 Giugno 2022

Federica, l’invisibile, scrive a Chiara, la presidente. A proposito di divani e Reddito di Cittadinanza

Chiara Saraceno presenta e commenta la lettera ricevuta, dopo la partecipazione a una trasmissione televisiva, da Federica, che percepisce il Reddito di Cittadinanza e che racconta la sua storia di persona invisibile e umiliata dall’essere considerata, come in quella trasmissione, una ladra e una parassita.

Premessa

Il Reddito di Cittadinanza e i suoi percettori sono oggetto sistematico di una narrazione negativa fondata non su rigorosi dati empirici, ma su idee pre-costituite, sentito dire, singoli casi elevati a leggi generali. La promuovono politici per motivi elettorali e media in cerca di audience, curandosi ben poco di come stano davvero le cose, e ancora meno del dileggio e squalificazione insieme morale e sociale cui sottopongono persone che sono già in difficoltà.

I due topoi classici di questa narrazione sono la descrizione dei percettori come nullafacenti “sdraiati sul divano” e la denuncia del RdC come causa della difficoltà a trovare lavoratori in alcuni settori, in particolare, ma non solo, turismo, ristorazione e agricoltura. Altri paesi sperimentano difficoltà simili e hanno misure analoghe al RdC da molto più tempo; è, ad esempio, il caso della Germania dove, però, nessuno si sogna di trovare un nesso causa-effetto tra i due fenomeni tanto meno di imbastirvi sopra articoli di giornale e talk show a ripetizione, dove le lamentele dei datori di lavoro vengono accompagnate da “servizi” più o meno furbetti e rigorosamente a tesi a dimostrare, appunto, che il problema è il RdC troppo generoso che permette a chi lo percepisce di  vivere senza dover andare a lavorare.

 Solitamente tra gli invitati a parlare mancano coloro che lavorano sul campo e/o fanno ricerca sull’argomento, salvo rare eccezioni che per lo più si configurano come situazioni di uno contro tutti. Rarissimi sono i casi in cui vengono presentate testimonianze di persone che, grazie al RdC, hanno dato una svolta positiva alla propria vita o di persone che, sussidio a parte, non hanno avuto alcun sostegno nella ricerca di un’occupazione decentemente remunerata, nonostante il proprio impegno e persino nonostante le buone qualifiche.

La lettera che pubblichiamo di seguito, naturalmente con il consenso dell’autrice che preferisce apparire soltanto con il proprio nome, mi è giunta da una di queste persone che si sentono lese nella propria dignità da un discorso pubblico che le squalifica a priori, aggiungendo la beffa al danno dell’esclusione dal mercato del lavoro. Chi l’ha scritta stava seguendo una trasmissione di Porta a Porta su Rai Uno cui ero stata invitata come “esperta” e presidente del Comitato scientifico per la valutazione del RdC – di fatto come foglia di fico di una impostazione a tesi unica, ovviamente negativa – e vincendo il senso di vergogna che provava, secondo le sue parole, a ‘raccontarsi senza filtri’ ha iniziato a digitare sul suo cellulare questo messaggio.

La lettera

Buonasera Professoressa Saraceno,

mi perdoni per l’orario, la sto ascoltando in questo preciso istante su Rai Uno e mi è arrivata come una carezza dopo anni passati ad ingoiare bocconi amari e bastonate alla dignità umana.

Sono Federica, ad oggi 43 anni.

Come tanti, dopo la maturità scientifica mi trasferisco da Taranto a Bari, volevo fare la psicologa infantile, ma all’epoca la facoltà di psicologia era a Roma o a Padova, economicamente per la mia famiglia non era possibile.

Ma la voglia di studiare e di restare fra le mie passioni pedagogiche e psicologiche era fortissima, così direzione Scienze dell’educazione a Bari, fra mille sacrifici miei e della mia famiglia, arriva la laurea, poi un master in criminologia applicata e psicologia giuridica, poi la borsa di studio nella scuola di Dottorato in Progettazione e valutazione dei processi formativi presso l’Università degli Studi di Bari. Da Bari non sono più andata via, mi piaceva, e stavo costruendo la mia vita.

L’ambito di ricerca era il disagio e la devianza minorili, quegli anni oltre che nel dottorato mi impegnai in tante attività di formazione come docente, nella scuola, nelle carceri, nell’Unicef.

Tenevo un corso di pedagogia sociale nella sede distaccata su Taranto, collocata nel quartiere Tamburi, il quartiere ai piedi dell’Ilva per intenderci.

Arrivò l’amore che, complice un assegno di ricerca in Bicocca a Milano, mi fece lasciare a malincuore la mia terra.

Ho trascorso 5 anni nella poco accogliente Lombardia. In quegli anni è nata la mia opera d’arte: Sugar, come la chiamo da quando è al mondo, un po’ perché immaginavo sarebbe stata più zuccherosa di me, un po’ perché era il nome del mio pugile preferito: Sugar Ray Robinson.

La scelta di diventare madre mi ha messa fuori dall’ambito universitario, e nel mondo del lavoro. Una con tutti quei titoli non serviva in nessuna professione.

A luglio del 2013 sono rientrata ad “Itaca”, la mia Taranto, per scelta. Desideravo che mia figlia crescesse vicina ai nonni, al mare, e in un mondo valoriale che sentivo assomigliarmi di più.

Non voglio dilungarmi troppo, perché gli anni che sono passati da poco, sono stati gli anni del fallimento del matrimonio, di un padre che quella Sugar che ora ha 12 anni, con una intelligenza e sensibilità davvero fuori dalla norma, per sua scelta non vede più.

Per orgoglio e forza, mi sono accollata tutte le responsabilità e anche gli oneri, affitto, spese, ma anche gli abbracci nel lettone sono rimasti tutti miei.

Le guerre per i soldi durante le separazioni, colpiscono solo i bambini, ed io ho preferito difendere la sua pace e ho lasciato andare il mio ex marito senza pretendere nulla.

Nel frattempo qualsivoglia occupazione mi si sia palesata l’ho accettata con entusiasmo, mi permetteva di essere autonoma e libera.

Sono stata una redattrice online, una segretaria di studio dentistico e poi legale, di fatto mi tocca ammetterlo, con grande successo perché le mie competenze mi permettevano una certa facilità nello svolgere le mansioni che mi venivano affidate.

Contrattini a tempo o a nero. Nel frattempo il mio curriculum mi fa nominare per il triennio 2016/2019 e poi di nuovo per il 2020/2023 Esperto al tribunale di Sorveglianza di Taranto, incarico di prestigio ma che frutta più o meno 600€ l’anno.

Ma mi tiene viva la speranza che aver studiato fino a 35 anni non sia stato vano.

A giugno 2019 con un affitto (e parlo solo di affitto) ho ricevuto anche io la fatidica carta giallo fluo del reddito di cittadinanza con un importo di 400 euro. E che fatica ingoiare le frasi come “quelli del reddito di cittadinanza non vogliono lavorare che stanno bene con i soldi gratis a casa”…

Di lavoro nemmeno l’ombra, anche il navigator al centro per l’occupazione mi confidò che non avrebbe saputo come aiutarmi con un’offerta di lavoro congrua. Peraltro non ho mai rifiutato nessuna offerta di lavoro, anche perché non ne sono mai arrivate. La ricerca di un lavoro quotidiana ormai è diventata come chiedere l’elemosina: “va bene qualsiasi lavoro, purché io possa avere la dignità di crescere mia figlia”.

C’è che ho ricevuto in dono un uomo buono che mi cammina accanto, lui è un tecnico dello spettacolo, settore che la pandemia (ironia della sorte) ha messo in ginocchio, e con i “pennarelli” a disposizione, che ti ho descritto fin qui, non è possibile fare un bel disegno. Son pochi e un po’ scoloriti.

Le giuro, che solo il fatto di poterglielo raccontare mi fa sentire meno invisibile, perché di questo si tratta: mi sento una invisibile, ai limiti della povertà, ed ero speranzosa che avrei avuto una vita, non ricca, ma quantomeno serena. Ma soprattutto mi creda è terribile sentire ogni giorno quel che la gente pensa dei percettori del reddito, mi fanno sentire una ladra, una parassita…e io invece amerei potermi confrontare ancora e ancora col mondo professionale e lavorativo, poter spendere le competenze acquisite con tanto sacrificio, vorrei poter vedere gli occhi di mia madre e di mia figlia colmi di orgoglio e non di compassione.

Non vorrei peccare di presunzione, ma continuo a pensare che un Dottore di ricerca, peraltro formato a spese dello Stato e del Miur che finisce ad elemosinare un’occupazione, deriso da chiunque per 400€, sia davvero una bruttura di questo meraviglioso Paese.

La ringrazio Professoressa, davvero.

Buon lavoro

Federica

Oltre l’emozione

All’emozione che suscitano le parole di Federica, vorrei aggiungere qualche dato che aiuti a mostrare quanto empiricamente infondata sia l’immagine generalizzata degli “sdraiati sul divano”, sia la tesi secondo cui il RdC è in competizione con il lavoro (decentemente pagato). In primo luogo, solo la metà circa dei componenti delle famiglie beneficiarie del RdC è tenuta a firmare un patto per il lavoro. L’altra metà, composta da minorenni, o adulti non in condizione di essere avviati all’occupazione per malattia, disabilità o pesanti carichi familiari, è tenuta invece ad un patto per l’inclusione sociale. Tra chi è tenuto al patto per il lavoro, secondo ANPAL circa 878 mila, cioè meno della metà (spesso con qualifiche molto basse), sono definibili come “vicini al mercato del lavoro”. Di questi la stragrande maggioranza – 724.494 – ha avuto una qualche esperienza lavorativa in costanza di recezione del RdC. In particolare, 546.598 hanno trovato lavoro dopo aver ottenuto il RdC, anche se non sempre come esito del patto per il lavoro sottoscritto e della presa in carico da parte di un centro per l’Impiego. Gli altri sono definiti come “molto lontani dal mercato del lavoro”, quindi bisognosi di investimenti particolari sul piano sia formativo sia occupazionale. Più che di una occupazione purchessia, queste persone hanno bisogno di acquisire competenze e/o di rafforzare quelle che già hanno, e di trovare occupazioni che offrano loro un reddito decente e non aleatorio. D’altra parte, come testimonia la lettera di Federica, anche quando si hanno qualifiche molto alte non è sempre facile trovare una occupazione decente, congrua o non congrua. Chi entra nella spirale dell’emarginazione dal mercato del lavoro rischia di non rientrarvi più, specie se madre, anche se riduce le proprie aspettative.

Quanto all’ idea che un RdC troppo generoso costituisca un disincentivo ad accettare una occupazione, va osservato che l’importo medio mensile oscilla tra i 452 euro per le persone che vivono sole e oltre 700 euro per i nuclei da quattro componenti in su. Chi ritiene che questi importi possano costituire un disincentivo a lavorare pensa forse sia legittimo pagare salari attorno a quelle cifre, magari per orari di lavoro lunghissimi, come molte testimonianze dicono avvenga nel turismo. Infine, non esistono dati certi su quante offerte di lavoro sono state fatte ai percettori di RdC e quante sono state rifiutate. Esistono solo i dati su chi perde il sussidio perché ha rifiutato due offerte di lavoro “congrue” (di cui la seconda su tutto il territorio nazionale), come stabilito dalla norma, purché ciò sia avvenuto con la mediazione di un Centro per l’impiego. Ma chi denuncia di non trovare lavoratori a causa del RdC spesso non si rivolge ai CpI, non solo perché non vuole appesantire la sua ricerca con passaggi burocratici spesso lenti e farraginosi, ma perché, probabilmente, le condizioni di lavoro e di remunerazione non sono così a norma come racconta a chi lo intervista. In questo modo nulla è documentato, né le offerte di lavoro, né gli eventuali rifiuti. Si rimane perciò nel regno delle sensazioni, del sentito dire, quando non delle vere e proprie fake news, con i cattivi tutti da una parte sola. Federica e le centinaia di migliaia di altre persone in condizioni simili alle sue non meritano tutto questo.

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