Esperti e Democrazia: un bilanciamento possibile?

Giulia Bistagnino, prendendo spunto dalle recenti vicende politiche della Brexit e dal risveglio di movimenti populisti in Europa, discute la tensione tra esperti e democrazia, ovvero tra la necessità di prendere decisioni politiche corrette e il bisogno di preservare l’ideale dell’uguaglianza politica. Utilizzando gli strumenti della filosofia politica normativa, Bistagnino esamina le diverse strategie per risolvere tale tensione e argomenta in favore di una chiara divisione del lavoro tra esperti e cittadini.

Il risultato del referendum sulla Brexit dello scorso 23 Giugno ha suscitato un terremoto sia nella politica inglese, con le dimissioni di Cameron e la messa in questione della leadership di Jeremy Corbyn, sia a livello europeo. Sebbene non sia ancora per nulla chiaro cosa Brexit significherà in termini concreti, quali accordi saranno trovati tra Regno Unito e Unione Europea, una cosa appare molto evidente: i cittadini britannici hanno votato in aperta opposizione ai consigli e alla valutazione della maggioranza degli esperti che si sono espressi sulla questione. Nel periodo precedente al voto, non solo molti leader politici (inglesi e non), accademici e intellettuali hanno manifestato preoccupazione rispetto a un’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, ma anche la maggioranza degli economisti ha dichiarato in modo fermo e deciso che l’uscita avrebbe quasi sicuramente comportato costi considerevoli da un punto di vista economico. Gli elettori britannici hanno così deciso di ignorare le valutazioni degli esperti e, anzi, durante la campagna referendaria è apparso in modo piuttosto evidente come il sostegno alla Brexit fosse anche una presa di posizione proprio nei confronti degli esperti. Non è certo un caso che Michael Gove, ex ministro della giustizia e sostenitore del “Leave”, abbia affermato in un confronto su Sky News: “Le persone di questo paese si sono stancate degli esperti”.

Così, è possibile interpretare il referendum sulla Brexit come l’esempio più lampante dell’onda populista che sta dilagando in Europa, con la critica feroce nei confronti dei burocrati e tecnocrati di Bruxelles, il richiamo alla sovranità popolare perduta e la strategia politica mirata più alla pancia che alla mente degli elettori. Sebbene a mio avviso sia giusto nutrire circospezione e scetticismo nei confronti di tale onda, credo sia corretto riconoscere come le critiche populiste mettano il dito su un problema reale, ovvero quello del controverso rapporto tra esperti e democrazia.

È, infatti, innegabile che esista una tensione tra esperti e democrazia: se è vero che il ricorso agli esperti aumenta la qualità epistemica del processo decisionale, è anche vero che le procedure democratiche si fondano sull’ideale morale dell’uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini di una comunità politica hanno il diritto a un’eguale partecipazione. In questo breve intervento, mi propongo di utilizzare gli strumenti concettuali della filosofia politica normativa per comprendere meglio questa tensione. In particolare, il mio obiettivo è quello di ricostruire e valutare le diverse posizioni e strategie mirate a risolvere la tensione nel tentativo di offrire alcune riflessioni teoriche che possano essere utili per comprendere e giudicare la politica contemporanea. È giusto ricordare fin da subito che il raggio di azione della filosofia politica non è l’immediato. Come scriveva John Rawls, lo sguardo del filosofo politico è diverso da quello del politico e dello statista perché assume un punto di vista più generale e ampio, ma necessariamente meno adatto per risolvere i problemi del qui e ora.

Quello del rapporto tra esperti e democrazia è un problema classico e cruciale della filosofia politica fin dall’idea di Platone secondo cui, nella città ideale, sono i filosofi a dover governare perché, possedendo la conoscenza, sono capaci di realizzare la giustizia. Tralasciando le ben note critiche Popperiane di totalitarismo, non è difficile capire che la città ideale pensata da Platone non è democratica. Il problema del rapporto tra esperti e democrazia, infatti, riguarda due aspetti fondamentali. Il primo ha a che fare con le effettive possibilità che le decisioni prese da un regime democratico siano corrette – è giusto ricordare che la proposta di Platone nasce proprio come critica alla democrazia ateniese che aveva condannato a morte Socrate, il più saggio tra gli uomini.

Il secondo aspetto, invece, concerne il fatto che l’affidarsi a esperti nei processi di decisione politica mette a rischio l’ideale dell’uguaglianza politica. Si tratta di un vero e proprio rebus: sembra difficile pensare che, senza ricorrere al consiglio degli esperti, società democratiche siano in grado di fornire risposte cogenti alle sfide e ai problemi da risolvere; se, però, ci si affida agli esperti, si mette a rischio la democrazia stessa. Il rebus diventa ancora più complesso se consideriamo quello che alcuni studiosi, come Philip Kitcher (Science in a Democratic Society, 2012) e Cathrine Holst (“What is Epistocracy?”, Sacred Science? On Science and Its Interrelations with Religious Worldviews, 2012), hanno definito il “fatto dell’expertise”, ovvero l’idea che sia impossibile prendere decisioni politiche razionali senza ricorrere al giudizio degli esperti, data la complessità delle società contemporanee. Il punto riguarda, da un lato, il fatto che non sia giusto richiedere ai cittadini di essere competenti su tutti i temi dell’agenda politica e, dall’altro, la complessità stessa di molti temi politici, i cui aspetti tecnici non possono che sfuggire a chi non ne è esperto. Come fare per risolvere il rebus? Partendo dal presupposto che oggi la democrazia è considerata un bene prezioso e non negoziabile, le proposte che i filosofi politici hanno difeso possono essere distinte in tre differenti strategie argomentative.

La prima strategia è sostanzialmente di natura morale e prevede una difesa della democrazia al di là delle sue capacità di produrre decisioni adeguate. In questo caso, l’idea è che la democrazia abbia valore per alcune sue qualità intrinseche, riguardanti in particolare la capacità delle sue procedure e istituzioni di creare relazioni di rispetto reciproco tra cittadini nel riconoscere loro eguali libertà e diritti. In questo senso, il trade-off tra esperti e democrazia è risolto totalmente a favore della seconda: la correttezza delle decisioni politiche semplicemente è irrilevante. A supporto di questa tesi, inoltre, gioca un certo e giustificato sospetto circa la non neutralità degli esperti e l’idea che la politica e i dibattiti pubblici non debbano essere ridotte a mere questioni tecnocratiche a scapito di quelle valoriali, come sostiene Jürgen Habermas (Toward a Rational Society: Student Protest, Science, and Politics, 1970). Questa proposta è problematica nel momento in cui si considera che ignorare gli esperti può generare rischi e costi estremamente elevati, e magari anche compromettere la libertà dei cittadini.

La seconda strategia difende la democrazia da un punto di vista epistemico. L’idea è che le questioni di legittimità debbano essere affrontate con riferimento al problema della verità: un’autorità politica deve essere in grado di fornire buoni risultati e prendere decisioni che siano corrette. Per evitare la deriva platonica del governo degli esperti, la strategia epistemica sostiene che le decisioni democratiche abbiano una maggiore probabilità di essere corrette, in virtù del fatto che un numero elevato di persone, con punti di vista diversi e che deliberano tra loro, ha più chances di avere ragione di un numero ristretto di esperti. Si tratta di un argomento basato sull’idea della “saggezza della folla”, o sul famoso teorema della giuria di Condorcet. Anche questa seconda proposta è problematica per due ragioni. La prima riguarda il carattere contingente dell’argomento epistemico. Anche se in questo momento le procedure democratiche fossero quelle maggiormente capaci di garantire la correttezza, questo non vuol dire che un domani altre procedure (non-democratiche) potrebbero essere più adatte. La seconda, invece, riguarda gli argomenti sulla probabilità delle risposte corrette. Difficilmente nelle circostanze attuali si incontrano le condizioni ideali sulla deliberazione pensate da Condorcet e, quindi, è irragionevole pensare che, in condizioni non-ideali, gruppi numerosi siano più capaci di prendere decisioni migliori di gruppi ristretti.

L’ultima strategia cerca di trovare un bilanciamento tra esperti e democrazia e individua la chiave per bloccare la deriva platonica in una rigida divisione del lavoro tra esperti e democrazia. È questa l’idea di John Dewey (The Public and Its Problems, 1927), per esempio, secondo cui gli esperti hanno il compito di individuare i bisogni sociali fondamentali e i cittadini, invece, devono occuparsi distabilire in modo democratico l’agenda politica. In modo simile, Thomas Christiano (“Rational deliberation among experts and citizens”, in J. Parkinson and J. Mansbridge, Deliberative systems: democracy at the large scale, 2012) difende l’idea che i cittadini debbano scegliere i valori che vorrebbero fossero perseguiti collettivamente all’interno della società in cui vivono, mentre agli esperti tocca il compito di individuare i mezzi per realizzarli. Così, anche Nadia Urbinati (Representative Democracy: Principles and Genealogy, 2006) ritiene che i cittadini possano giudicare i risultati derivanti dal consiglio degli esperti, sebbene non ne condividano la conoscenza tecnica necessaria per risolvere i problemi politici.

Questa terza strategia è, a mio parere, quella più promettente, proprio perché non esclude il ricorso al consiglio degli esperti, pur mantenendo salda e ferma la bussola della democrazia. Certo, questo non significa che non presenti molti problemi. Perché essa funzioni, infatti, è necessario capire quale debba essere il rapporto più appropriato tra cittadini, esperti e politici; come sia possibile identificare gli esperti da parte di chi esperto non è; quali metodi di accountability debbano essere messi in atto nei confronti degli esperti; se il consiglio degli esperti sia neutrale oppure abbia una qualche dimensione normativa; etc.

Solo risolvendo questi nodi fondamentali è possibile capire quale ruolo possono effettivamente giocare gli esperti nei processi di decisione democratica e, quindi, trovare architetture istituzionali appropriate per contrastare la preoccupazione che la sovranità popolare nelle società democratiche contemporanee sia in pericolo. Se è vero che gli esperti sono una risorsa importante e fondamentale per fornire risposte adeguate ai problemi delle società, è altrettanto vero che il loro lavoro deve essere inserito in una cornice politica e istituzionale chiara e giusta, che non metta a repentaglio l’ideale dell’uguaglianza politica.

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