Ermanno Rea e il “laboratorio di Federico Caffè”

Mario Tiberi traccia il suo ricordo di un grande scrittore scomparso il 13 settembre scorso, Ermanno Rea. Lo fa partendo dal primo incontro che ebbe con lui, alla fine degli anni ’80, quando Rea, colpito dalla sua misteriosa scomparsa, decise di scrivere un libro su Federico Caffè. Tiberi, dopo aver ricordato che Rea mai conobbe Caffè, mostra quanto affini fossero le loro visioni sociali e ripercorre le principali tappe della produzione letteraria di Rea fino al suo ultimo libro, Nostalgia, del quale non ha potuto vedere l’uscita.

La misteriosa scomparsa di Federico Caffè nel  1987, provocò emozione ed interesse tra molte persone, perché Caffè era ben noto non solo nel mondo accademico, ma anche in certi settori dell’opinione pubblica, che egli aveva avvicinato con la sua attività di pubblicista.

Fu in quella fase che incontrammo Ermanno Rea, da poco in pensione come giornalista. Di quella vicenda egli si era fatto un’idea che intendeva approfondire con un lavoro di ricerca destinato, ma non  necessariamente, alla pubblicazione.  Egli vedeva nella scomparsa di Caffè una sorta di riconoscimento della  sconfitta quasi definitiva di almeno un filone della cultura riformista laica, da lui autorevolmente rappresentata, di fronte all’affermarsi  di indirizzi di pensiero, soprattutto in politica economica, identificabili comunemente con l’aggettivo neoliberista. Ermanno non nascondeva l’assonanza con la sua storia personale di appassionato  militante comunista fuori, ormai da tempo, dal Partito comunista italiano, quindi con un’esperienza diversa da quella di Caffè che comunista non era mai stato; questa antica passione può, del resto,  spiegare la coraggiosa scelta di Ermanno di presentarsi, all’età di 87 anni,nella lista Tsipras, capolista alle elezioni europee del 2014 nella Circoscrizione Sud.

Egli volle sottoporre la sua ipotesi di lavoro a molti di noi, allievi di Caffè,  anticipandoci di volerla portare avanti, oltre che con la lettura di quanto di Caffè riteneva accessibile a lui non economista, attraverso interviste a familiari ed amici, che avrebbero potuto  aiutarlo a predisporre la sua narrazione.

Nel nostro colloquio, gli dissi con franchezza che ero del tutto convinto della serietà del suo tentativo e che mi sarei impegnato ad incoraggiarlo nel consueto scambio di idee con gli altri colleghi; allo stesso tempo mi sentii  in dovere di dirgli che non mi convinceva  l’immagine del  riformista sconfitto riferita a Caffè. La fierezza dei suoi “punti fermi”,  sempre evidente nella mia lunga consuetudine con lui e  ribadita in modo ineccepibile nella prefazione a uno dei suoi  ultimi scritti, “In difesa del welfare state” (Rosenberg &Sellier, Torino, 1986), non era venuta meno nell’ultimo anno di doloroso e frequente contatto con lui.

Ermanno poté immergersi, comunque, nel suo progetto, con particolare alacrità e grande rigore, giungendo a raccogliere una straordinaria quantità di materiale, fatto di interviste, documenti e letture; non mancarono in quella fase occasioni di confronto con qualcuno di noi su quanto aveva già fatto, o si proponeva di fare.

Fu così in condizione di  pubblicare, nel 1992, la  biografia di Caffè (“L’ultima  lezione”, Einaudi, 1992), che si apre con la sua riflessione sulle varie ipotesi riguardanti la scomparsa di Caffè ma che è soprattutto dedicata a ricostruire – rivelando molti episodi inediti, anche per noi –  la vita di Caffè.L’intensa peregrinazione, condotta da Ermanno, lo indusse a coniare l’immagine del “laboratorio scientifico di Federico Caffè”, cioè un ampio gruppo di persone, allievi e non, molto vicini a lui idealmente e  impegnati nell’attività di ricerca. Questo legame  non andava identificato con uno specifico paradigma teorico, ma piuttosto nella visione dell’economia come scienza  utile “ a promuovere la ricerca costante del miglioramento sociale”, in sintonia, quindi, con lo schietto riformismo da economista passionate, come si autodefiniva Caffè.

Un laboratorio scosso da eventi dolorosi: in primo luogo, l’assassinio di Enzio Tarantelli e, inoltre, le premature morti di Franco Franciosi e Fausto Vicarelli. Per questo metaforico laboratorio era evidente l’importanza che assumeva l’ultima lezione di Caffè, rispondente ad un rituale accademico riservato ai docenti più autorevoli al momento della cessazione dall’insegnamento.  Ermanno ne coglie tutto il significato emblematico, ricostruendone preparazione e svolgimento, fino a fissarlo nel titolo; da tale scelta traspare, seppure senza particolare enfasi, l’idea che l’ultima lezione di Caffè possa essere stata, in effetti,  anche quella che nel libro viene indicata come ‘’ progetto di fuga’’.

Non è mio compito proporre una valutazione letteraria del lavoro di Ermanno; ne apprezzai, peraltro: la qualità della ricostruzione biografica; la misurata condivisione dei valori di riferimento fra narratore e narrato; soprattutto, infine, la scioltezza espositiva del groviglio di passioni che alimentano la vita degli uomini, nel caso specifico di Caffè. E gli apprezzamenti per il libro di Ermanno da parte di numerosi colleghi ed amici, al di fuori della cerchia degli allievi più stretti di Caffè, mi fecero particolarmente piacere.

In molti fummo di nuovo coinvolti con lui quando si trattò di contribuire alla sceneggiatura del film diretto da Fabio Rosi, che ha lo stesso titolo del libro e che ci ha offerto la straordinaria interpretazione di Roberto Herlitzka nel ruolo di Caffè.

L’attenzione che Ermanno riservava alle nostre cose lo indusse a proporci, in modo incalzante,  di contribuire ad un convegno , che intendeva  collocare all’interno delle iniziative  della Fondazione Premio Napoli di cui era Presidente; c’era forse,in lui, la convinzione, espressa qualche anno dopo in modo pungente per gli appartenenti al “laboratorio”, che “dall’economista Caffè, dalla sua scomparsa, si sarebbe potuto spremere molto più succo sia teorico che politico di quanto se ne sia ricavato” (Cfr. Rea E., L’economista che visse due volte, Nota aggiunta alla ristampa del suo libro,  L’ultima lezione, La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato, Einaudi, 2008, pp. 281-2).

Così, nel settembre del 2003, Nicola Acocella, Giuseppe Ciccarone , Maurizio Franzini, Luciano Marcello Milone, Felice Roberto Pizzuti e Mario Tiberi presentarono una loro ricerca, dedicata a Caffè (Cfr. Autori vari, Rapporto su povertà e disuguaglianze negli anni della globalizzazione, Edizioni Colonnese-l’ancora del mediterraneo-Pironti, 2004). Tale rapporto conteneva l’analisi di quelli che a noi apparivano come significative ombre di un processo di trasformazione dell’economia mondiale, abitualmente descritto con troppe luci: la convulsa fase di globalizzazione degli anni successivi alla caduta del muro di Berlino aveva prodotto  Paesi e persone vincenti, ma anche Paesi e persone perdenti.

Nel corso nel tempo abbiamo potuto godere dell’affermarsi di Ermanno come scrittore di spicco nella produzione letteraria italiana. Ricorderò soltanto “Mistero napoletano” (Rizzoli, 1996, ripubblicato da Feltrinelli, 2014),ispirato anch’esso da una dolorosa vicenda umana, ambientata nella realtà napoletana del Partito comunista italiano e segnata dal suicidio della protagonista Francesca Spada,che gli valse il Premio Viareggio nel 1996 e “Fuochi  fiammanti a un’hora di notte” del 1998 (edito anch’esso da Rizzoli), un romanzo costruito con grande immaginazione che rivela la sua capacità di seguire, come narratore,  strade diverse e che ricevette nel 1998 il Premio Campiello.

Molti altri sono stati i titoli scaturiti dalla sua straordinaria vena di autore della terza età; mi limito a citarne tre: Io fotoreporter (Feltrinelli, 2012), che gli ha dato l’opportunità di rivivere quel periodo della sua vita, in cui l’ ansia di conoscere lo aveva portato in giro per il mondo accompagnato dalla preziosa Leica. Il secondo è Il caso Piegari (Feltrinelli, 2014) ancora una storia drammatica di un comunista  eterodosso, inesorabilmente travolto dai meccanismi di controllo messi in atto dai dirigenti comunisti napoletani intorno agli anni ‘50. Il terzo, infine, La fabbrica dell’obbedienza, Il lato oscuro e complice degli italiani (Feltrinelli, 2011), un libro-sfogo, secondo la sua definizione, ma che si può considerare un saggio sull’Italia contemporanea e che mi è  particolarmente caro perché, discutendone con  Ermanno, sono arrivato a scoprire un lungimirante saggio cinquecentesco: “Discorso della servitù volontaria”di Ḗtienne de la Boètie (Feltrinelli,2014),

Non sono, tuttavia, mancate le occasioni in cui Caffè è tornato ad essere l’anello di collegamento tra noi, per interrogarci di nuovo non tanto sulla sua scomparsa, ma sulla sua presenza culturale. Per darne conto, più che affidarmi a ricordi imprecisi,mi piace riprendere alcuni passaggi nei quali Ermanno ha avuto modo di scrivere di lui.

Dice Ermanno a proposito di Caffè, che “non ho conosciuto personalmente, non ho mai udito la sua voce, non ho mai incrociato il suo sguardo” (Cfr. Rea E., Nota aggiunta, cit., p.287);  riflettendo ancora sul suo profilo intellettuale, si sente di attribuirgli il felice ossimoro di riformista rivoluzionario, per distinguerlo in un momento storico in cui i sedicenti riformisti abbondano. Nel caso di Caffè, si tratta di “ostinazione, rigore, impegno totale”: coniugando utopia e concretezza, avendo come fine irrinunciabile la giustizia sociale da realizzare, collocandosi nell’ampio solco esistente tra la Rivoluzione e il Mercato (Ibidem, passim).Ed ecco allora che l’ allontanarsi di Caffè dal mondo, la sua “ultima lezione”, non esprime una rinuncia, ma l’estremo desiderio di richiamare l’attenzione  su un enigma,  al cui centro c’era forse il lavoro intellettuale  di un uomo.

Nell’altro breve scritto, presentato in occasione del venticinquesimo anno dalla scomparsa di Caffè, Ermanno ricordava la concordanza col suo stile di vita: “sobrietà del costume; l’amore per i libri e la cultura; l’ansia per i più deboli, i diseredati; l’insofferenza verso l’ingiustizia e il sopruso” (Cfr. Rea E., Introduzione al docufilm, in Tiberi M. (a cura di), Atti della Giornata in ricordo di Federico Caffè, Sapienza Università Editrice, 2014, p. 19).Certo mancano i tratti da bon vivant che Ermanno rivelava, ad esempio a tavola, ma ci sono forti elementi, sufficienti a spiegare il fascino avvertito da Ermanno nei  confronti di Caffè e del suo “laboratorio”.

In proposito posso dire di avere sempre di più, nel corso degli anni, vissuto il rapporto con Ermanno come il felice incontro di destini incrociati, secondo i quali lui ha gratificato il “laboratorio” di una notorietà molto al di là dei confini accademici, ricevendone, in compenso, un impulso importante alla sua esplosione come scrittore.

Credo che, come me, non avrebbero esitazione a riconoscere ad Ermanno l’appartenenza honoris causa al “laboratorio”, anche Maurizio Franzini e Felice Roberto Pizzuti , con i quali ho condiviso numerosi incontri, sempre stimolanti con lui. Da ultimo abbiamo colto la sua trepidazione per l’imminente uscita della  fatica più recente (Nostalgia, Feltrinelli, 2016); un romanzo ancora una volta ambientato a Napoli, proprio nel suo Rione Sanità; i tempi  degli acciacchi incalzanti si misuravano con quelli dettati dalle valutazioni editoriali ed abbiamo inutilmente sperato che potesse gustare il piacere dell’avvenuta pubblicazione.

Già: nostalgia, una parola carica di suggestioni, che non mancheranno quando potremo leggere questo suo ultimo libro,con gli occhi forse velati da qualche incontrollabile lacrima.

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