Equilibrio di bilancio e retroattività delle sentenze di accoglimento

Marco Polese esamina le ragioni alla base della recente pronuncia della Corte costituzionale sull’illegittimità c.d. Robin Hood tax, diretta a colpire gli extra-profitti delle imprese del settore petrolifero ed energetico. Polese si sofferma su un aspetto peculiare della pronuncia, l’irretroattività, giustificata con l’esigenza di rispettare il pareggio di bilancio e sostiene che vi erano altri modi per impedire la restituzione delle tasse versate. Infine, sottolinea che in questo caso, come in altri recenti, la Corte sembra aver svolto un ruolo di supplenza del Parlamento

1. Con la sentenza n. 10/2015, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 81, commi 16, 17 e 18 del d.l. n. 112/2008, che ha introdotto nel nostro ordinamento la c.d. Robin Hood tax. Si tratta di una misura fiscale istituita con la finalità di colpire gli extra-profitti delle imprese operanti nel settore petrolifero ed energetico, in un periodo di forte rialzo dei prezzi delle materie prime, mediante la previsione di un prelievo aggiuntivo – «addizionale» – all’imposta sul reddito delle società (IRES).
La Consulta ha ritenuto fondata la questione con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., sostenendo che il trattamento fiscale più gravoso per alcuni settori produttivi è privo di adeguate giustificazioni. L’iter argomentativo seguito prende le mosse dalla circostanza che una tassazione diversamente articolata per categorie non è incompatibile con i principi fissati in Costituzione, purché la differenziazione abbia un fondamento razionale e il sistema resti improntato a criteri di progressività. Compito del giudice costituzionale, in questo quadro, è quello di verificare il rispetto di tali principi, controllando l’utilizzo ragionevole da parte del legislatore dei poteri discrezionali in materia tributaria.
Sulla base di tali premesse, la Corte ha ritenuto opportuno procedere ad un duplice controllo, verificando, da un lato, che il tributo rispondesse alle finalità perseguite dal legislatore e, dall’altro, che sussistesse una correlazione tra mezzi adottati e fini perseguiti. Se alcuna censura essa ha ritenuto che potesse essere mossa al primo di tali profili, a diversa conclusione giunge con riferimento al secondo.
Vi sarebbero infatti tre elementi sintomatici dell’inesistenza di un collegamento tra scopo e struttura dell’imposta: la base imponibile, che è rappresentata dall’intero reddito dell’impresa anziché essere limitata ai soli extra-profitti; la mancanza di una delimitazione temporale dell’ambito di applicazione del tributo; la inidoneità della misura a perseguire le finalità solidaristiche, non essendo stati approntati adeguati strumenti per evitare che l’introduzione della tassazione si traducesse in maggiori costi per i consumatori.
Tutte queste circostanze inducono la Corte a ritenere che l’«addizionale» contrasti con gli artt. 3 e 53 Cost., sussistendo un’incongruità fra i mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo perseguito.
2. L’aspetto probabilmente più rilevante della pronuncia è tuttavia rappresentato dall’inusuale limite che la Corte ha posto in ordine agli effetti temporali della propria decisione, che per l’appunto decorrono a partire dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, anziché espandersi anche al passato. Ciò che ha indotto a contenere gli effetti della pronuncia è stata la necessità di salvaguardare il principio dell’equilibrio di bilancio, che dopo la modifica di cui alla l. cost. n. 1/2012, come è noto, è espressamente sancito dall’art. 81 Cost.
Vi è da dire che il contenimento degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento è in sostanza possibile, in quanto il principio generale secondo cui alle sentenze di annullamento deve riconoscersi una efficacia pro praeterito, non è assoluto benché incontri precisi limiti. Ed invero, se un primo ostacolo va individuato nell’impossibilità di scalfire i rapporti c.d. esauriti, un ulteriore limite al normale dispiegarsi degli effetti delle decisioni, ricorre tutte quelle volte in cui vi sia la necessità di tutelare un altro principio o diritto di rango costituzionale.
Nel caso in questione sarebbe questa seconda ipotesi a venire in rilievo, poiché la restituzione del gettito fiscale derivante dalla Robin Hood tax inciderebbe enormemente sull’equilibrio del bilancio, tanto da far presagire una manovra finanziaria aggiuntiva.
Per tale ragione, la Corte ha ritenuto di dover procedere ad una attività di bilanciamento fra i principi su cui fonda la declaratoria di incostituzionalità (artt. 3 e 53 Cost.) e il principio dell’“equilibrio del bilancio” di cui l’art. 81 Cost., con conseguente delimitazione degli effetti della sentenza a decorrere dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
3. Si ricorda che l’operazione di limitazione temporale compiuta dalla Consulta non rappresenta una novità nel panorama della giurisprudenza costituzionale, ma s’inserisce nell’ambito di un orientamento inaugurato dalla sentenza n. 266/1988 e recentemente ripreso anche dalla sent. n. 1/2014, dichiarativa dell’illegittimità delle modifiche apportate alla legge elettorale da parte della l. n. 270/2005.
Tale indirizzo aveva determinato un revirement della Corte, dal momento che quest’ultima – fin dalla sua prima pronuncia (sent. n. 1/1956) – aveva riconosciuto all’illegittimità costituzionale l’idoneità a produrre effetti per il passato.
Sulla medesima posizione della primigenia giurisprudenza si era inoltre attestata la maggioranza della dottrina, incline a ritenere che una lettura coordinata degli artt. 136 Cost., 1 l. cost. n. 1/1948 e 30, 3° comma l. n. 87/1953 imponesse di riconoscere alle sentenze di annullamento una efficacia ex tunc. Ed invero, se la previsione dell’art. 136 Cost. – ai sensi del quale la disposizione illegittima cessa di avere efficacia «dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» – pare compatibile anche con la tesi che limita solo pro futuro gli effetti temporali, a diversa conclusione deve giungersi in seguito all’introduzione della l. cost. n. 1/1948 – che all’art. 1 prevede il procedimento di accesso in via incidentale alla Consulta – e dell’art. 30, 3° comma l. n. 87/1953, secondo cui le norme incostituzionali «non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione». Per tale ragione, il nuovo orientamento sorto sul finire degli anni Ottanta aveva sollevato perplessità in una parte dei commentatori, perplessità che sembrano riemergere anche dalla decisione in commento e che si fondano sulla presenza nel nostro ordinamento delle ultime due disposizioni richiamate.
In altri termini, l’attribuzione di una efficacia solo pro futuro alle sentenze di annullamento, non solo sarebbe priva di qualsiasi riscontro legislativo positivo, ma pare anche incompatibile con la previsione del giudizio incidentale (art. 1 l. cost. n. 1/1948). Come è noto, infatti, davanti al giudice a quo si discute di rapporti sorti anteriormente alla proposizione della questione di legittimità e, di conseguenza, se la pronuncia della Consulta non potesse influire su di essi, non vi sarebbe alcun interesse a sollevare il dubbio di costituzionalità. Né si comprenderebbe, d’altra parte, perché il rimettente sia chiamato a fare una valutazione rigorosa in ordine alla rilevanza della questione sollevata, in quanto la decisione della Corte che produca effetti solo ex nunc non troverebbe applicazione nel giudizio a quo.
4. Ciò detto, il profilo forse maggiormente problematico, e del tutto peculiare, che si evince dalla lettura della sentenza è rappresentato dal parametro dell’equilibrio del bilancio, che la Corte utilizza per giustificare l’irretroattività.
Il riferimento a tale parametro, infatti, sembra sottendere l’idea che l’art. 81 Cost. disciplini un principio fondamentale e (dunque) inderogabile del nostro ordinamento, al punto da essere inserito dalla Corte all’interno del giudizio di bilanciamento con il risultato di influenzarne l’esito, giustificando il contenimento degli effetti temporali.
Tale operazione sembra rivelare, in realtà, l’effettiva e principale preoccupazione della Corte rappresentata dalla necessità di evitare che lo Stato restituisca quanto incassato a titolo di Robin Hood tax. Vi è da chiedersi, pertanto, se la Consulta disponesse di altri strumenti per ottenere un simile risultato, ovvero se l’unico a disposizione fosse quello di subordinare l’efficacia della sentenza alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. In effetti, un esame delle diverse tipologie di sentenze costituzionali consente di ritenere che i giudici costituzionali avrebbero potuto evitare la restituzione di quanto versato dalle imprese senza intervenire sul dato temporale.
Sarebbe stato possibile, in primo luogo, adottare una sentenza monito, con la quale la Consulta, pur ravvisando i profili di illegittimità del tributo, non ne dichiarava l’incostituzionalità, ma sollecitava l’intervento del legislatore al fine di modificarne la disciplina. In tale ipotesi, qualora il Parlamento non avesse ottemperato alle indicazioni fornite dalla Corte, quest’ultima, nuovamente investita della questione, avrebbe potuto sanzionare l’inerzia dell’organo rappresentativo con una pronuncia di accoglimento, motivando l’incostituzionalità in ragione del mancato intervento legislativo e facendo decorrere gli effetti temporali a partire dalla precedente decisione monitoria.
La Corte avrebbe potuto adottare, inoltre, una sentenza sostitutiva con efficacia ex tunc, prevendo che la base imponibile fosse rappresentata dai soli extra-profitti e non, come stabilito dal legislatore, dall’intero reddito dell’impresa. Ciò avrebbe determinato la restituzione dei versamenti tributari, ma tale restituzione sarebbe stata limitata alla parte eccedente i profitti straordinari legati alla favorevole situazione economica.
Il giudice costituzionale avrebbe potuto, infine, dichiarare l’illegittimità ex tunc dell’«addizionale», lasciando che fosse il legislatore ad intervenire per recuperare aliunde il gettito fiscale, seguendo le indicazioni fornite dalla stessa Corte, mediante la previsione di una nuova disciplina, anche retroattiva, che colpisse la capacità contributiva già oggetto del tributo dichiarato incostituzionale.
La circostanza che la Consulta si sia orientata diversamente induce dunque a riflettere sul ruolo che tale organo sta assumendo nel nostro ordinamento. Sempre più frequentemente, infatti, l’intervento della Corte non si limita alla dichiarazione di illegittimità delle leggi, ma si traduce nello svolgimento di una funzione di sostituzione e supplenza del Parlamento, senza tuttavia che sia configurabile una responsabilità politica per le decisioni assunte.

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