Elogio delle tasse

Francesco Pallante, ripercorrendo alcune tappe della nostra storia costituzionale, attacca alcune diffuse narrative molto critiche verso le imposte. Pallante ricorda che dal momento in cui veniamo al mondo, godiamo di servizi pubblici che ci consentono di vivere in pace, dando attuazione ai nostri diritti fondamentali. Ciò comporta costi rilevanti, finanziati attraverso le imposte. Decisivo, per assicurare a tutti l'uguaglianza nei punti di partenza, è che il sistema tributario sia improntato a progressività.

Lo stigma che colpisce i tributi poggia su un’idea elementare: che, lasciati liberi di dispiegare le proprie private iniziative, i cittadini vivrebbero felicemente in prosperità e ricchezza. Se, nonostante la loro zelante operosità, ciò non avviene, la causa va ricercata nella rapacità dello Stato. Uno Stato che prima impoverisce e poi sussidia, mirando, in entrambi i casi, all’asservimento del cittadino: a privarlo della sua naturale autonomia. «Lo Stato non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema» – è una delle più note battute di Ronald Reagan. Che aggiungeva: «la visione del governo sull’economia [può] essere sintetizzata in poche, brevi frasi: se si muove, tassalo; se continua a muoversi, regolalo; e se smette di muoversi, prova con i sussidi».

Sul piano teorico, a operare da rigoroso riferimento per chi rifiuta il potere impositivo dell’erario è l’anarco-capitalismo di Murray Rothbard (L’etica della libertà, 1982), fautore di una visione per cui lo Stato in altro non si distingue da una banda di briganti che per la pretesa di legittimità con cui vorrebbe dare “copertura” alle proprie malefatte. La tesi che, lasciati liberi dallo Stato, gli esseri umani prospererebbero sulla base dei loro commerci privati salda la critica antistatalista alla polemica antifiscale, mostrando come la seconda possa credibilmente considerarsi il nucleo duro della prima. Naturalmente, non bisogna confondere il proposito di condizionare il potere d’imposizione fiscale – per esempio, attraverso l’affermazione del principio «no taxation wihtout representation» – con il disconoscimento, in radice, di ogni pretesa possa provenire dall’erario. Comune sembra, tuttavia, l’idea che la pretesa fiscale dello Stato sia comunque un’ingerenza: per quanto, forse, necessaria.

In realtà, lo Stato non è affatto un male necessario, né, tanto meno, un’istituzione di cui gli esseri umani potrebbero vantaggiosamente fare a meno. Lo Stato è un bene, in assenza del quale la più elementare interazione soggettiva sarebbe sempre a rischio di degenerare in violenta contrapposizione. Lo argomenta in maniera impareggiabile Thomas Hobbes (Il Leviatano, 1651), attraverso la denuncia della guerra di tutti contro tutti che rende gli uomini reciprocamente lupi gli uni agli altri. Con attitudine più analitica, Max Weber (Economa e società, 1922) individua nell’inibizione della violenza privata all’interno di un gruppo umano, e nella correlata acquisizione del monopolio della forza legittima da parte di strutture a ciò preposte, il principale tratto distintivo dello Stato moderno. E, in effetti, ogni qualvolta lo Stato viene meno (in Libia, da ultimo), ciò cui assistiamo non è l’emergere dei rothbardiani commerci di tutti con tutti, ma l’esplosione dell’hobbesiano conflitto di tutti contro tutti.

Vista in questa prospettiva, la concezione liberale dello Stato «guardiano notturno» appare del tutto inadeguata. Davvero lo Stato è legittimato a intervenire solo al fine, eccezionale, di ristabilire l’ordine naturale delle cose, essendo di norma tenuto a non interferire con l’autonomia privata da cui tale ordine scaturisce? Si dice, per esempio: «affinché i cittadini possano godere della libertà di circolazione è sufficiente che lo Stato non impedisca loro di circolare». Ma, è così? In realtà, se si affronta la questione scevri di pregiudizi ideologici, si comprende intuitivamente che senza la costruzione della rete stradale, la sua manutenzione ordinaria e straordinaria, l’apposizione della segnaletica verticale e orizzontale, la realizzazione di un sistema di illuminazione notturna, la regolazione della circolazione, il governo dei flussi di traffico, la predisposizione di controlli di pubblica sicurezza: senza tutto questo complesso, articolato e costoso insieme di interventi statali nessun cittadino potrebbe realmente circolare. Se non ci fosse lo Stato, usciti di casa affonderemmo nel fango fino alle ginocchia, impossibilitati persino a sfuggire agli assalti dei predoni che spadroneggerebbero sul territorio. Né potrebbe sopperire l’iniziativa economica privata: l’esito sarebbe, in ogni caso, il prodursi di entità dai tratti statuali – come Robert Nozick conclude, pur a partire da posizioni marcatamente individualiste (Anarchia stato utopia, 1974).

«Costoso» è la parola-chiave. Costa la prima, essenziale, funzione dello Stato: mantenere la pace. Tanto più nelle società contemporanee: plurali, e quindi conflittuali, non solo economicamente e socialmente, ma anche culturalmente e politicamente. Allo stesso modo, costa la seconda, essenziale, funzione dello Stato: l’attuazione dei diritti costituzionali. Di tutti i diritti: civili, politici, sociali. Così come costoso è garantire la libertà di circolazione, allo stesso modo lo è assicurare il diritto di voto o soddisfare il diritto all’istruzione. Chi, stolidamente, reclama la propria «sovranità individuale» cela ai propri occhi l’inconfutabile verità che, dal momento in cui veniamo al mondo, godiamo di servizi pubblici che ci consentono di vivere. Ecco, allora, il ruolo dei tributi: rendere possibile il contesto entro cui condurre le nostre esistenze. Dobbiamo ai costituzionalisti statunitensi Stephen Holmes e Cass Sunstein (Il costo dei diritti, 1999) l’aver enfatizzato il legame – tutt’altro che vizioso – tra tasse e libertà. È persino strano doverlo scrivere: uno Stato privo di capacità di spesa non sarebbe in condizione di garantire alcun diritto. Il che non esime dal discutere il come e il quanto del prelievo fiscale.

È a Luigi Einaudi (Lezioni di politica sociale, 1944) che possiamo, in proposito, appoggiarci. Rifiutando, pur da liberale, di leggere il principio di uguaglianza in senso esclusivamente formale, il futuro Presidente della Repubblica prende posizione a favore della progressività fiscale – principio in base al quale al crescere del reddito o del patrimonio cresce la percentuale di risorse da versare al fisco (art. 53 Cost.) – e ne illustra la visione ideale retrostante, spiegando che è questione di «abbassare le punte» e «innalzare dal basso». «Abbassare le punte»: vale a dire, far uso delle imposte affinché lo Stato raccolga le risorse in prevalenza presso gli strati benestanti della popolazione. «Innalzare dal basso»: vale a dire, utilizzare le risorse in tal modo raccolte per far sì che ciascun cittadino, anche se indigente, possa in ogni caso quantomeno contare «sul minimo necessario alla vita». Con una precisazione: «che il minimo di esistenza non sia un punto di arrivo ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini». Parole anticipatrici della visione ideale che, di lì a poco, troverà espressione nella Costituzione repubblicana. L’obiettivo, allora come oggi, è che «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, co. 2, Cost.) sia realmente alla portata di tutti: non un’astratta potenzialità, ma una concreta realizzazione. Naturalmente, impregiudicata rimane la direzione da imprimere a tale sviluppo: ciascuno deciderà per sé, «secondo le proprie possibilità e la propria scelta» (art. 4, co. 2, Cost.). L’importante è che a nessuno sia, contro la sua volontà, impedita «l’effettiva partecipazione […] all’organizzazione politica, economia e sociale del Paese» (art. 3, co. 2, Cost.). E, in effetti: chi potrebbe razionalmente opporsi al perseguimento di tale scopo? Come ancora argomenta Einaudi, «le imposte progressive […] sono vantaggiose alla collettività quando le minoranze, che sovratutto sono chiamate a pagarle, sanno che non l’odio e l’invidia le hanno determinate, ma il vantaggio pubblico del raggiungimento di fini universalmente reputati buoni». Ecco il punto decisivo: far gravare l’impegno fiscale in misura maggiore sui benestanti non è una scelta rivolta contro di loro, ma a favore dell’intera collettività, di cui gli stessi benestanti sono parte.

Curiosamente, mai siamo stati tanto lontani dal pensiero liberale di Luigi Einaudi quanto oggi, epoca in cui tutti, o quasi, si proclamano liberali. Se l’Assemblea costituente diede collocazione costituzionale alla progressività fiscale grazie, soprattutto, al lavoro del democristiano Salvatore Scoca, è al repubblicano Bruno Visentini, ministro delle Finanze nel quarto governo Moro (1974-1976), che dobbiamo la sua traduzione in legge. Fu Visentini – pur criticato da chi avrebbe voluto un’azione ancora più incisiva – a volere l’Irpef articolata in trentadue scaglioni, con aliquote crescenti dal 10% sino al 72%. Dopo due drastici tagli compiuti nel corso degli anni Ottanta, il primo governo dell’Ulivo sancì il rattrappimento agli attuali cinque scaglioni, con aliquote poi fissate tra il 23% e il 43%. Una dinamica dal chiaro significato politico: parafrasando Einaudi, si potrebbe dire «innalzare le punte» e «sprofondare nel basso». Obiettivi a tutt’oggi propri dell’intera maggioranza che sostiene il Governo Draghi, che ha unanimemente deciso l’ulteriore riduzione degli scaglioni a quattro, per il 2022, e a tre per il 2023. Il traguardo agognato dalla destra – l’imposta piatta, destinata ad annullare, incostituzionalmente, la progressività fiscale – è il prossimo passo.

Il risultato è che il peso del prelievo fiscale grava, oggi, in gran parte sui redditi (da lavoro dipendente) bassi e medi, mentre quelli alti e altissimi, non paghi della modestia dei loro doveri tributari, orchestrano manovre elusive per sottrarre alla Repubblica enormi risorse. L’Italia rimane uno dei Paesi più ricchi al mondo, ma le risorse sono tutte concentrate in alto: al punto che i tre individui più facoltosi del Paese possiedono tanta ricchezza quanto il 10% più indigente della popolazione (sei milioni di persone). Il principio di uguaglianza in senso formale – base ideale della democrazia – è ormai privo di significato. Di qui l’urgenza di rivoluzionare il sistema tributario, sebbene la pletora di rendite di posizione – che, come un’enorme ragnatela, rende vischioso il suo assetto attuale – complichi oltremodo l’operazione. Nessun intervento marginale può, in effetti, risultare adeguato: solo un complessivo ripensamento degli squilibri esistenti – lotta all’evasione fiscale, riduzione della normativa derogatoria, eliminazione delle tassazioni separate, ristrutturazione secondo progressività dell’imposizione sui redditi, tassazione progressiva dei patrimoni e delle successioni, aggiornamento dei valori catastali degli immobili, rimodulazione dell’Iva a favore dei prodotti di largo consumo – potrebbe assicurare la forza necessaria a spezzare le catene dell’ingiustizia imperante.

Anzitutto, però, a dover essere spezzato è il predominio ideologico dei fautori della diseguaglianza: un predominio tale da aver reso accettabili tesi volgarmente provocatorie come quelle dello «sgocciolamento dall’alto verso il basso», della «marea che innalza tutte le barche», del «capo cordata da favorire a vantaggio di tutti», del «residuo fiscale da restituire al territorio». Particolarmente significativo è che la – criticabilissima – introduzione nella Costituzione dell’equilibrio di bilancio sia stata generalmente letta nei termini dell’apposizione di un vincolo alla spesa pubblica: come se l’unico modo per mantenere in equilibrio entrate e uscite pubbliche sia la riduzione delle seconde, non anche l’aumento delle prime.

È ai diritti costituzionali, e all’esigenza che siano attuati quantomeno nel loro contenuto minimo essenziale, che occorre, allora, tornare. Due sono le questioni decisive: (a) l’ammontare complessivo delle risorse che devono essere raccolte dall’erario e (b) la corretta priorità secondo la quale devono essere effettuate le spese pubbliche. Si tratta di due questioni distinte, ma comportanti, entrambe, un vincolo alla discrezionalità politica: sul lato delle entrate, affinché le risorse siano raccolte in quantità necessaria ad attuare, quantomeno, il «nucleo duro» dei diritti costituzionali; sul lato delle uscite, affinché tali risorse siano, anzitutto, impiegate nella soddisfazione delle spese costituzionalmente necessarie. Einaudi – ancora lui – riteneva che solo «un assai elevato senso civico» avrebbe consentito il successo delle politiche redistributive: riattivare il circolo virtuoso tra progressività fiscale e attuazione dei diritti, che i costituenti avevano posto a motore della «rivoluzione promessa» dalla Costituzione, è il solo modo perché ciò possa avvenire.

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