Elites economiche e potere politico: notizie dall’America Latina

Massimo Aprea, prendendo spunto da un recente articolo di Serna, si occupa della relazione tra élites economiche e potere politico in America Latina. Dopo aver mostrato che ex capi e alti funzionari d’azienda sono sovra-rappresentati nei Parlamenti di otto paesi della regione, Aprea esamina alcune possibili ragioni di questa intensa partecipazione alla vita politica e si interroga sui suoi possibili effetti. Al riguardo, approfondisce il caso della riforma tributaria cilena del 2014 ma conclude che il fenomeno è in attesa di più compiute spiegazioni.

Un recente articolo di M. Serna, professore di scienze politiche presso l’Universidad de la Republica di Monteviedo, apparso sul numero di maggio di Le Monde Diplomatique, presenta alcuni dati che invitano a una rinnovata riflessione sul rapporto tra èlites economiche e potere politico – sulla sua intensità, sulle forme che assume e sulle conseguenze che possono derivarne.

Serna documenta che negli otto paesi latino-americani presi in esame, le élites imprenditoriali, ossia coloro che hanno svolto l’attività di capo o alto funzionario d’azienda, sono sovra-rappresentate nei rispettivi parlamenti. Le quote di parlamentari riconducibili a queste èlite sono rappresentate nel grafico 1, che è stato elaborato da Serna e dai suoi collaboratori sulla base dei dati dell’”Observatorio de élites parlamentarias en América Latina” dell’Università di Salamanca.

Per valutare l’entità del fenomeno è utile confrontare queste percentuali con la quota che, in media, tale gruppo sociale rappresenta nelle popolazioni di riferimento: il 3,4%. Serna osserva anche che recentemente molti imprenditori e uomini d’affari hanno raggiunto le più elevate cariche del potere esecutivo (Piñera in Cile, Macrì in Argentina, Viczarra in Perù) e ciò conferma che il mondo delle imprese ha un notevole potere politico in America Latina.

Grafico 1 – Deputati ex capi o alti funzionari d’azienda, %

Fonte; M. Serna, “I padroni latinoamericani prendono il potere”, Le Monde Diplomatique/Il Manifesto, maggio 2018

Il fatto che nelle istituzioni legislative di questi otto paesi ex capi e alti funzionari d’azienda sono, in media, sei volte e mezzo più numerosi che nelle popolazioni di riferimento, pone quantomeno in discussione il concetto di rappresentanza democratica. Ma cosa spinge gli esponenti delle élites imprenditoriali a intraprendere la carriera politica? E come usano il potere che ne deriva?

La questione è molto complessa e queste note, più che risposte definitive, forniscono solamente qualche spunto di riflessione a riguardo.

Una possibilità è che la sovra-rappresentazione delle élites imprenditoriali nei parlamenti della regione sia una conseguenza dell’evoluzione del modello di interazione tra stati e gruppi di interessi imprenditoriali. N. Castañeda nel suo contributo all’Handbook of South American Governance (2018), descrive l’evoluzione di tale modello dalla fase “corporativista” a quella che egli chiama “pluralista”.

In estrema sintesi, nella fase di industrializzazione basata sulla sostituzione delle importazioni, gli stati, per realizzare le politiche industriali di sviluppo, si sono serviti delle grandi associazioni nazionali di imprese, permettendo a queste ultime di essere in continuo contatto con il potere esecutivo e di partecipare al processo di decisione politica. Con l’avvento del libero mercato e le diffuse liberalizzazioni e privatizzazioni, il mondo dell’impresa si è frammentato e, tra vincitori e vinti, sono emersi con forza grandi gruppi industriali che hanno assunto il ruolo di attori principali nel processo di decisione politica. Operativamente, tali gruppi di interesse hanno agito su aspetti legislativi specifici e circoscritti (regolamentazione, tassazione) con l’obiettivo di ottenere guadagni o “favori” fiscali. Tale sviluppo ha senza dubbio reso il parlamento il luogo su cui concentrare i propri sforzi e ciò spiegherebbe la sovra-rappresentazione in questa istituzione di alti esponenti del mondo dell’impresa. Ma forse questo argomento non è sufficiente per spiegare compiutamente il grande incremento nella partecipazione diretta delle élites al processo politico; infatti, le stesse concessioni legislative avrebbero potuto ottenersi in altri modi: lobbismo, consulenze, finanziamento di campagne elettorali.

Un’altra possibilità è che le élites imprenditoriali abbiano per lo più occupato gli spazi politici lasciati scoperti dall’arretramento dello stato e dalla crisi del progetto socio-economico delle sinistre nella regione. Questa sembra essere la spiegazione implicita nella breve argomentazione di Serna.

Secondo l’autore, infatti, dopo essersi defilati nelle prime fasi della transizione democratica per via dell’appoggio fornito ai regimi militari degli anni ’60 e ’70, capi e alti funzionari d’azienda hanno riconquistato spazio politico all’inizio degli anni ’90, mentre si consolidava l’adesione ad un modello di sviluppo economico neoliberista.

In quel periodo le diffuse liberalizzazioni e privatizzazioni mettevano a disposizione delle imprese private più “abili” enormi opportunità di guadagno. A questo proposito, è particolarmente significativo il caso del Grupo Carso in Messico (citato nel contributo di Castañeda): nato dalla fusione del Grupo Inbursa con le varie imprese facenti capo a Carlos Slim, tale conglomerata, nel dicembre del 1990, ha acquistato, anche grazie alle sue connessioni politiche parte della TelMex, la compagnia telefonica nazionale appena privatizzata. L’operazione ha fruttato a Slim (e famiglia) una fortuna.

Alla fine del decennio, tuttavia, le élites imprenditoriali vedono il loro potere indebolito dalle crisi economiche e dall’affermarsi di governi di sinistra in molti paesi nella regione, ma successivamente recuperano spazio politico, grazie all’arretramento delle sinistre, raggiungendo le dimensioni attuali.

Il punto di contatto tra queste due interpretazioni, una incentrata più sul ruolo specifico degli esponenti delle élites imprenditoriali e l’altra sulle modalità di intervento dei gruppi di interesse imprenditoriali nel processo politico, sta nel fatto che il modello pluralista prevalso a partire dagli anni ’80 e il concomitante arretramento dello stato hanno implicato una maggiore convenienza per gli esponenti dei gruppi di interesse (e dunque delle élites) imprenditoriali a investire nella loro rappresentanza a nell’organo legislativo. I dati di Serna sembrano suggerire che, negli ultimi anni, la rappresentanza stia assumendo sempre più le caratteristiche di una partecipazione diretta. Ma, come detto in precedenza, siamo nel campo delle ipotesi e l’importanza che le élites economiche hanno assunto nel processo politico latinoamericano resta in larga parte da spiegare.

Al di là delle varie ipotesi teoriche, un esempio molto chiaro di come i gruppi di interesse legati al mondo dell’impresa abbiano influito sul processo politico è quello della riforma tributaria promossa in Cile da Michelle Bachelet nel 2014, che è esaminata in modo accurato da T. Fairfield, nel suo Structural power in comparative political economy (2015).

In breve: in seguito a una serie di violente proteste studentesche tra il 2011 e il 2012 (all’epoca del primo governo Piñera) assume grande importanza, nel dibattito politico, la riforma della tassazione per finanziare l’istruzione e la lotta alle disuguaglianze. Nel 2014, la neo-rieletta Michelle Bachelet, forte del sostegno popolare e del fatto che i partiti di destra legati agli interessi imprenditoriali avevano perso il potere di veto al Senato, propone una riforma tributaria di grande rilevanza: sostituire il regime di tassazione integrato, per cui l’imposta sul reddito d’impresa (20% nel 2012) costituiva un acconto per la tassazione sul reddito del proprietario – e dunque, gli consentiva di non pagare l’imposta sul reddito (aliquota marginale al 40%) qualora non distribuisse dividendi – con un regime di profitti imputati. In tal modo tutti i profitti, distribuiti o meno, entrando a far parte del reddito individuale della persona fisica, sarebbero stati soggetti all’imposta progressiva.

Fairfield racconta con grande dovizia di particolari i passaggi che hanno portato dal disegno originario della riforma al compromesso che alla fine è stato approvato dai due rami del Parlamento. Tale compromesso prevede l’adesione al regime di profitti imputati su base volontaria e l’alternativa di un regime parzialmente de-integrato con una aliquota sul reddito di impresa al 27% e il computo nel reddito personale del 35% degli utili non distribuiti.

Si è detto che in fase di redazione della riforma il governo godeva del sostegno popolare e di una (seppur risicata) maggioranza al Senato. Inoltre, considerando il gap tra le due aliquote del “vecchio” sistema integrato una rendita più che un efficace incentivo all’investimento, il governo non temeva che la riforma avrebbe avuto effetti perversi sulla performance economica del Paese. In altre parole, il potere “strutturale” del settore delle imprese era limitato. Tuttavia, dopo il passaggio della riforma alla Camera, i gruppi di interesse legati al mondo delle grandi conglomerate del Paese, insieme alle associazioni nazionali di imprese, hanno cominciato una campagna mediatica incentrata sui potenziali effetti negativi della riforma sull’investimento e, di conseguenza, su crescita, occupazione e salari. Anche gli esponenti più conservatori della coalizione di governo dissero di nutrire simili preoccupazioni, che peraltro furono alimentate dalla revisione al ribasso delle prospettive di crescita del Pil per il 2014. Alla fine, il ministro delle finanze ha elaborato la (meno radicale) proposta alternativa.

La questione della sovra-rappresentazione delle élites imprenditoriali nei parlamenti e del potere dei frammentari gruppi di interesse legati alle grandi conglomerate assume particolare rilevanza alla luce dell’elevato livello di disuguaglianza della regione latinoamericana. I grafici 2 e 3 rappresentano l’andamento del coefficiente di Gini sui redditi disponibili di nove paesi della regione a partire dal 1960.

Grafico 2, Gini redditi disponibili, 1960-2016   Grafico 3, Gini redditi disponibili, 1960-2016

Fonte: SWIID Database

 

Come si può vedere, a partire dall’inizio degli anni 2000 si è verificata una generalizzata diminuzione della disuguaglianza, probabilmente causata dalla combinazione di politiche debolmente redistributive e crescita economica, trainata principalmente dall’aumento del prezzo delle materie prime di cui la regione è ricchissima. Nonostante ciò la disuguaglianza resta su livelli elevati e per contrastarla in modo deciso occorrerebbero politiche efficaci, che a loro volta presuppongono un chiaro orientamento politico in tal senso.

La sovra-rappresentazione parlamentare di imprenditori e alti funzionari d’azienda fa nascere più di un dubbio sulla possibilità che le democrazie rappresentative latinoamericane vadano in questa direzione. E questa considerazione fa tornare alla mente quanto ha affermato Jeremy Corbyn a proposito dell’ipotesi di istituire un fondo che permettesse ai meno abbienti di intraprendere la carriera parlamentare nel Regno Unito, “non basta essere per i lavoratori […] dobbiamo anche essere fatti di lavoratori”.

 

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