È tutta questione di ipotesi: la spesa pensionistica nelle previsioni del FMI

Massimiliano Tancioni esamina un recente lavoro del FMI, che prevede una crescita sostenuta della spesa pensionistica in Italia nei prossimi decenni, e mostra, descrivendo la logica di base dei modelli di previsione pensionistica, che tale previsione è pressoché interamente determinata dalle ipotesi sulle variabili esogene. Tancioni sottolinea che, considerando l‘ampiezza degli orizzonti temporali adottati, le analisi proposte sono utili solo per verifica la sensibilità dei risultati rispetto alle diverse ipotesi formulate.

Un recente working paper del Fondo Monetario Internazionale (FMI) dedicato all’Italia, curato da Andrle, Hebous, Kangur e Raissi, ha un titolo rassicurante – “Italy: Toward a Growth-Friendly Fiscal Reform” – ma propone analisi non altrettanto rassicuranti per le prospettive di finanza pubblica del nostro paese. Il documento, nel fornire una valutazione del piano fiscale contenuto nell’aggiornamento al DEF presentato dal Governo nel 2017, rileva la mancanza di una strategia concreta (al di là dell’indicazione di generiche aree di intervento) che garantisca la soddisfazione degli impegni assunti sugli obiettivi di bilancio di medio termine.

Il lavoro offre numerosi spunti di riflessione su diversi aspetti della condotta fiscale recente, derivandone una serie di prescrizioni di policy finalizzate al raggiungimento del duplice obiettivo di realizzare una traiettoria di finanza pubblica che metta in sicurezza gli obiettivi di medio termine e di creare condizioni favorevoli alla crescita economica.

I temi trattati sono molti – e su alcuni di essi tornerò in un successivo contributo – ma la maggiore attenzione nel dibattito nazionale è stata riservata all’analisi delle tendenze di medio-lungo termine della spesa pensionistica, tema a cui sono molto sensibili le forze politiche risultate maggioritarie alle ultime elezioni nazionali. Il lavoro del FMI propone una visione molto distante da quella adottata nel DEF, peraltro peggiorativa anche rispetto allo scenario “negoziato” in sede AWG (Ageing Working Group) dell’Unione Europea. Nei decenni a venire il rapporto tra spesa pensionistica e PIL subirebbe un aumento pari a circa cinque punti di PIL rispetto alle stime del nostro Governo.

Sebbene non coinvolga le opinioni del Fondo, la visione dei suoi economisti riportata nel Working Paper mette in discussione la sostenibilità di medio-lungo termine del sistema previdenziale italiano, un risultato fin qui ritenuto acquisito con il lungo e spesso doloroso processo di riforma intrapreso sin dal 1992.

Per capire i motivi alla base del cambiamento di prospettiva è necessario richiamare i punti caratterizzanti la tecnica di simulazione deterministica generalmente utilizzata dai produttori di proiezioni sull’evoluzione a lungo termine della spesa pensionistica. La riflessione sulla tecnica adottata porterà a comprendere la limitata validità scientifica delle proiezioni.

Essendo la variabile presa a riferimento l’evoluzione del rapporto tra spesa pensionistica e PIL (SPt/Yt), come vengono ottenute le due grandezze messe a rapporto?

L’evoluzione del PIL è definita dalla“soluzione in avanti” di una funzione di produzione in lavoro e livello della tecnologia, ossia dalla moltiplicazione del PIL osservato nel periodo precedente per un fattore di crescita definito dalla somma tra tasso di variazione della produttività e dello stock di occupazione, o dei fattori di produzione più in generale (in tal caso includendo anche il capitale). L’evoluzione della spesa è, per definizione, ottenuta dalla moltiplicazione del numero di pensioni per il loro importo medio.

È quindi necessario chiarire come viene definita l’evoluzione nel tempo di produttività, occupazione, salari, numero di pensioni e loro importi medi. Si assuma per semplicità la prospettiva di una prestazione pensionistica di vecchiaia erogata da un generico fondo previdenziale pubblico.

L’evoluzione della produttività è assunta per ipotesi. L’occupazione è definita dalla moltiplicazione del complemento ad uno del tasso di disoccupazione per lo stock di forza lavoro, dove quest’ultima grandezza è ottenuta moltiplicando la popolazione per il tasso di attività. Il numero di pensioni è ottenuto sommando le pensioni sopravvissute dal periodo precedente, pari alla moltiplicazione di quelle vigenti nel periodo precedente per il tasso di sopravvivenza, alle pensioni liquidate, ottenute moltiplicando il tasso di pensionamento alla popolazione esposta al rischio di pensionamento (per le pensioni di anzianità, l’occupazione). Gli importi medi delle pensioni sopravvissute sono ottenuti applicando le regole vigenti di indicizzazione nominale agli importi medi osservati nel periodo precedente, mentre quelli delle pensioni liquidate nel periodo sono ottenuti applicando le regole di computo vigenti sotto i diversi regimi che prevalgono o si accavallano nel tempo (per l’Italia, quello retributivo, contributivo e misto). Tali regole si applicano su una grandezza economica, il salario, la cui dinamica è assunta in linea con quella della produttività.

Assumendo che la rappresentazione matematica della relazione tra tassi di pensionamento, importi medi delle pensioni liquidate ed evoluzione normativa abbia ricevuto una adeguata rappresentazione nel modello, chi avesse tenuto traccia dell’insieme di moltiplicazioni, addizioni e divisioni ora descritte noterebbe immediatamente che l’evoluzione del numeratore del rapporto dipende dalle ipotesi sottostanti la proiezione demografica (ossia quelle sulla fertilità, la mortalità e le migrazioni nette), quelle riguardanti l’evoluzione futura dei tassi di attività e di disoccupazione e la dinamica salariale, definita da quella della produttività. L’evoluzione del denominatore dipende direttamente dalle ipotesi sulla dinamica della produttività e sulle determinanti dell’occupazione, ossia ancora una volta da ipotesi demografiche e del mercato del lavoro.

Pertanto, date costanti la normativa e le transizioni tra stati rappresentate nel modello (ad esempio tra lavoro e pensioni; che descrivono comportamenti, struttura normativa e del mercato del lavoro), l’esito della simulazione dipende interamente dall’ipotesi demografica e da quella sul tasso di crescita della produttività.

I modelli di previsione a lungo termine della spesa pensionistica più in uso, dunque, altro non sono che dei codici che eseguono calcoli molto semplici su un insieme di ipotesi di diverso livello applicate a basi tecniche e rappresentazioni della normativa molto complesse. A parità di basi tecniche, è quindi sulla definizione delle ipotesi che si gioca l’ottimismo o il pessimismo di una previsione.

Non stupisce quindi che l’argomento degli economisti del FMI si risolva in un giudizio di scarsa prudenza delle ipotesi adottate dal MEF sull’evoluzione demografica, della produttività e del tasso di occupazione (che risulta dalle ipotesi sui tassi di partecipazione e disoccupazione) nella definizione dello scenario nazionale.

L’esperienza degli ultimi anni mostra che la probabilità che un Governo sbagli sistematicamente in una direzione non è necessariamente superiore alla probabilità che una istituzione di monitoraggio finanziariamente coinvolta sbagli sistematicamente nella direzione opposta (ciò vale anche per gli scenari negoziati in sede AWG). Gli errori dei primi hanno la loro storia e le loro giustificazioni, come le hanno quelli dei secondi.

È quindi ragionevole considerare eccessivamente ottimistica l’ipotesi demografica adottata dal MEF per lo scenario nazionale (che è quella mediana recentemente prodotta dall’ISTAT, peraltro peggiorativa rispetto alla precedente proiezione), senza porsi il problema che possa essere eccessivamente pessimistica quella prodotta dall’ONU, adottata dagli autori dell’FMI nelle loro valutazioni di scenari alternativi? È ragionevole considerare come troppo ottimistica l’ipotesi adottata dal MEF per la dinamica della produttività (sempre al di sotto del punto percentuale fino al 2030 per poi convergere a valori prossimi ad 1,5 punti percentuali al 2050), ma non troppo pessimistica una ipotesi che la riduce di mezzo punto percentuale? È più prudente assumere, in linea col Governo italiano, che il tasso di disoccupazione converga ad un valore del 5,5% al 2065 (in risposta ad una contrazione di popolazione in età attiva di 7,8 milioni di persone già al 2050), o assumere che questo converga e quindi rimanga stabile al 9%, come nelle ipotesi preferite dagli economisti del Fondo (per cui con un tasso di occupazione al 60%, al 2050 avremmo circa 4,5 milioni di occupati in meno)?

È davvero difficile rispondere a queste domande ed è impossibile farlo in modo scientifico. Se potessimo definire degli intervalli di confidenza, le previsioni a venti o trenta anni ottenute sotto le diverse ipotesi risulterebbero statisticamente equiprobabili. L’incertezza che caratterizza le previsioni demografiche, testimoniata dal loro continuo processo di revisione (che sostanzialmente insegue le vicende molto variabili dei flussi migratori) suggerisce di non prendere troppo sul serio un dato di struttura demografica ad orizzonti superiori a cinque anni, come già sottolineato da Angelo Marano sul Menabò.

La figura 1 riproduce la consistenza storica (dal 2001) e attesa (2017-65) della popolazione italiana nell’ultima proiezione demografica ISTAT, considerando il valore mediano e gli intervalli di confidenza al 90%, ed il confronto con la quella UNPD, adottata nell’analisi del FMI, prodotta nel 2015.

I dati di previsione mostrano che, ad un valore di confidenza definito al 90%, la consistenza della popolazione residente al 2065 sarà compresa all’incirca tra 46 e 62 milioni di abitanti. La differenza è macroscopica e la previsione “standard” UNPD, che non riporta intervalli di confidenza essendo definita in base a scenari, al netto della sottostima iniziale (che certo non ne aumenta la credibilità), cade ampiamente nell’intervallo dell’ISTAT.

 

Fig. 1 – Evoluzione della popolazione italiana, milioni (2001-16 storico – 2017-65 previsione)

La figura 2 mostra come l’incertezza sugli stock sia il risultato della forte incertezza sui flussi, che come è evidente non caratterizza solo il saldo migratorio (sulla modifica del quale si definiscono con più frequenza gli scenari “negoziati”) ma anche quello naturale, la cui variabilità storica non può essere spiegata esclusivamente da fattori biologici acquisiti.

 

Fig. 2 – Saldo migratorio (SM) e saldo naturale (SN). (2001-16 storico – 2017-65 previsione)

Allo stesso modo, i problemi connessi alla misurazione della produttività e del prodotto potenziale in tempi di crisi (in cui l’unica certezza è che ad innescarla non è stato uno shock di produttività), il continuo dibattito sui metodi e la conseguente proliferazione di tecniche e revisioni, sono la migliore testimonianza che non è possibile assumere una posizione scientificamente difendibile su un dato di variazione della produttività ad orizzonti temporali superiori ai pochi trimestri. La figura 3 riproduce l’andamento storico della variazione percentuale del PIL per occupato (1980-2017) e quello ipotizzato dai diversi produttori di previsioni a lungo termine (2018-65), includendo i valori medi registrati in specifici sotto-periodi. Applicando normali tecniche di previsione di tipo ARIMA, con un massimo di varianza spiegata dell’ordine del 23-24%, una misura di incertezza statistica conterrebbe ampiamente tutte le diverse ipotesi rappresentate.

 

Fig. 3 – Evoluzione storica ed ipotetica del tasso di variazione del prodotto per occupato

Su queste basi, l’informazione che è possibile trarre da analisi in cui i risultati sono definiti da ipotesi valide per il lunghissimo periodo risiede più nelle indicazioni sulla sensibilità dei primi alle seconde (e nella razionalizzazione del problema che ne scaturisce) che non nel dato di previsione, che non può che essere scarsamente significativo.

Per convincersi di ciò, la figura 4 riproduce una proiezione al 2050 ottenuta con il modello di simulazione della spesa pensionistica MODEP-MKIV, sviluppato e periodicamente aggiornato presso il Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza. La simulazione è stata condotta assumendo ipotesi sostanzialmente analoghe a quelle definite nello scenario nazionale della RGS, tranne che per una minore contrazione del tasso di disoccupazione al 2050 (fissato intorno al 7,7%), la cui dinamica di transizione al valore target è però assunta endogena allo sfoltimento della popolazione in età attiva (il che la accelera nei periodi di maggiore contrazione demografica).

 

Fig. 4 – Evoluzione del rapporto tra spesa pensionistica e PIL – 2017-2050

Il fatto che i risultati siano sostanzialmente allineati a quelli adottati dal Governo italiano nello scenario nazionale non è una conferma della validità di questa previsione, ma del fatto che, in assenza di differenze o errori nei dati e nel disegno matematico-informatico della normativa, sono le ipotesi a definire il risultato. L’adozione di ipotesi alternative (ad esempio quelle associate agli estremi al 90% della previsione demografica ISTAT, piuttosto che un tasso di crescita della produttività allineato all’evidenza pre-crisi o post-euro) avrebbe semplicemente definito un intervallo attorno allo scenario adottato, fornendo un’ulteriore misura della sensibilità dei risultati alle ipotesi.

Se adottiamo questa prospettiva, non c’è davvero nulla di nuovo nell’analisi del FMI. Si tratta di un’ulteriore esercizio di analisi di sensibilità (come quelli periodicamente pubblicati dalla RGS), il cui problema principale è la preferenza per scenari sistematicamente peggiorativi rispetto a quello adottato dal Governo italiano. Il che, assieme alla tempestività rispetto alle vicende politiche del paese, lascia pensare ad un’analisi condotta più nell’ottica di fornire un sostegno alle successive proposte di consolidamento fiscale, che non in quella di contribuire al dibattito scientifico.

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