È opportuno ridurre la protezione dell’impiego?

Chiara Ardito, Fabio Berton, Lia Pacelli e Filippo Passerini valutano gli effetti a medio termine dei contratti a tutele crescenti. Esaminando le imprese piemontesi che impiegano fra i 9 e i 30 dipendenti essi trovano, tra l’altro, che contratti a termine sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato, che l’occupazione è cresciuta e, soprattutto, che la produttività è calata e i profitti sono aumentati. Concludendo, si chiedono se misure con questi effetti siano utili a un paese a produttività stagnante.

Gli autori di questo articolo sono: Chiara Ardito, Fabio Berton, Lia Pacelli, Filippo Passerini

Da quando è diventata la politica dominante, all’inizio degli anni Novanta, la deregolamentazione del mercato del lavoro è stata attuata agendo prevalentemente al margine, ossia allentando le condizioni per l’assunzione con contratti temporanei senza quasi nessun intervento sul lavoro a tempo indeterminato, esacerbando così la questione del dualismo nel mercato del lavoro. Come discusso da Bekker e dall’OCSE, per riequilibrare il divario di protezione fra lavoratori con diversa forma contrattuale sono state proposte due strade: aumentare la protezione dei contratti a termine, o ridurre la protezione dei contratti a tempo indeterminato. L’Italia ha seguito la seconda via, principalmente con il Jobs Act del 2015. Il cosiddetto Decreto Dignità del novembre 2018 è stato un tentativo, molto cauto, di perseguire anche la prima via, ma si è scontrato con lo scoppio della pandemia da Covid-19 poco più di un anno dopo la sua entrata in vigore, e i suoi effetti sono difficilmente valutabili.

Nello studio più estensivamente descritto qui, effettuiamo una valutazione causale dell’impatto a medio termine della parte del Jobs Act che ha ridotto i costi di licenziamento per i contratti a tempo indeterminato firmati dopo il 7 marzo 2015 in aziende soggette alla tutela reale dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che per convenzione e semplicità indichiamo qui come quelle con più di 15 dipendenti.

Più precisamente ci chiediamo se la diminuzione dei costi di licenziamento (o della protezione dell’impiego, nell’accezione più ampia presente in letteratura) aiuti la performance delle imprese stimolando una maggiore produttività oppure permettendo una riduzione dei costi di produzione. Inoltre, approfondiamo il ruolo svolto dal capitale umano nello spiegare le prestazioni delle imprese; argomento questo che è stato ampiamente dibattuto in letteratura, sebbene poco sia stato detto sul rapporto fra la dotazione di capitale umano nell’impresa e la protezione dell’impiego. Su questo aspetto si concentra il nostro contributo.

Un recente lavoro di Devicienti e Fanfani evidenzia come le imprese reagiscano ad un aumento del costo del lavoro causato da un rinnovo del contratto collettivo riducendo il capitale umano disponibile in impresa, attraverso la sostituzione con lavoratori a bassa qualifica dei dipendenti con qualifica maggiore e riducendo così il costo del lavoro che grava sui propri bilanci. Questo comportamento sembra essere seguito in particolare dalle imprese a più alta produttività, mentre le imprese meno produttive sembrano essere spinte fuori dal mercato. Noi analizziamo invece l’effetto di una riduzione del costo del lavoro complessivo (che in termini dinamici include i costi di licenziamento) sul capitale umano impiegato in impresa, e distinguiamo fra imprese più o meno dinamiche (che nel nostro lavoro identifichiamo come innovative o esportatrici).

In particolare, ci concentriamo sulle piccole/medie imprese (dai 9 ai 30 dipendenti, che impiegano circa il 20% dei lavoratori in Italia) e valutiamo l’impatto di una riduzione dei costi di licenziamento sul totale delle assunzioni e delle uscite dall’impresa (flussi lordi) e sul loro saldo (flusso netto). Ci focalizziamo sui cambiamenti nella dotazione di capitale umano posseduto dalla forza lavoro dell’impresa, misurandolo con l’istruzione, le mansioni svolte, il contenuto delle mansioni stesse e l’anzianità pregressa in azienda. Valutiamo poi l’impatto sulla performance aziendale in termini di produttività e profitti. Il tutto separatamente per imprese innovative e non, e per imprese esportatrici e non.

Per studiare empiricamente l’effetto del Jobs Act adottiamo un modello difference-in-differences su dati estratti dalle Comunicazioni Obbligatorie piemontesi e agganciati alle banche dati ASIA e AIDA. Rimandiamo al nostro lavoro per maggiori dettagli sui dati e il metodo utilizzato e riportiamo qui i principali risultati. È però importante sottolineare due aspetti. Primo, tutti i risultati riportati si riferiscono all’effetto causale della riforma, cioè al confronto fra il dato effettivo osservato dopo il marzo 2015 nelle imprese oltre i 15 dipendenti, e il cosiddetto controfattuale, cioè il dato che avremmo osservato nell’ipotesi in cui il Jobs Act non fosse stato implementato. Secondo, per sollecitare l’adozione di contratti a tempo indeterminato, la riforma è stata accompagnata da incentivi alle assunzioni, temporanei ma generosi. Questi erano a disposizione di tutte le imprese, sia sopra la soglia dei 15 dipendenti che sotto la soglia. Gli incentivi coprivano il 100% dei contributi previdenziali dovuti per i contratti a tempo indeterminato stipulati a partire dal 1° gennaio 2015, con un massimo a circa 8000 euro l’anno; scendevano al 40% per i contratti stipulati nel 2016 (con un massimo a circa 3000 euro) e venivano successivamente azzerati per i contratti stipulati successivamente. Gli sgravi sono tanto più appetibili quanto più l’impresa è piccola, poiché il costo del lavoro rappresenta una parte relativamente più importante del suo bilancio (Boeri e Garibaldi). Ma questo fattore potenzialmente confondente non è presente nel nostro campione di imprese medio/piccole, dove i salari giornalieri (equivalenti a tempo pieno, a cui l’ammontare dell’incentivo è proporzionale) nelle imprese trattate e di controllo sono uguali (le mediane sono rispettivamente 67,7 e 66,7 Euro).

Passiamo ora a illustrare i risultati principali. Prima di tutto calcoliamo l’impatto causale della riforma sui flussi di lavoro (assunzioni, trasformazioni, separazioni, variazioni nette), disaggregati rispetto a diverse misure di capitale umano. Successivamente, misuriamo l’impatto causale della riforma sulla performance dell’impresa.

Il primo risultato riguarda l’occupazione totale (impiegata con qualunque contratto, a titolo temporaneo o a tempo indeterminato: Figura 1). In media, nel 2016 e nel 2017, ogni impresa trattata dal Jobs Act cresce di un lavoratore in più rispetto al controfattuale (ovvero in assenza di riduzione dei costi di licenziamento). L’effetto è statisticamente significativo ed economicamente rilevante, data la ridotta dimensione delle imprese che analizziamo. L’effetto è eterogeneo lungo diverse dimensioni della dotazione di capitale umano: i lavoratori aggiuntivi sono per lo più poco istruiti e non qualificati (pannello a sinistra), svolgono compiti ad alto livello di impegno fisico e basso livello di impegno intellettuale (pannello a destra). L’effetto è simile tra le imprese esportatrici e non esportatrici ed è più forte tra le imprese non innovative. Si noti che gli effetti iniziano a manifestarsi solo nel 2016, mentre non si evidenzia nessun effetto nel 2015. Analogamente, un ritardo di circa un anno dall’entrata in vigore di un intervento di riduzione della protezione dell’impiego è stata evidenziata anche da Berton et al., i quali però si concentrano sulla “riforma Fornero” (L.92/2012) e sui suoi possibili effetti in termini di educational mismatch.

Fig. 1: impatto medio per trimestre sui flussi netti (misurato come numero di individui) totale e per livello di capitale umano (a sinistra), per tipo di mansione (a destra)

Fonte: nostre elaborazioni su dati COB-ASIA-AIDA. Note: intervalli di confidenza al 95%

In secondo luogo, l’analisi dell’impatto del Jobs Act sulla stipula di nuovi contratti a tempo indeterminato mostra che la maggior parte di essi è dovuta a trasformazioni di contratti temporanei di dipendenti già presenti in azienda. Essi hanno un’anzianità aziendale breve (inferiore a 6 mesi), sono scarsamente qualificati, poco istruiti e svolgono per lo più compiti ad alto livello di impegno fisico e a basso livello di impegno intellettuale. Non si riscontrano effetti per profili a più elevato capitale umano, ad eccezione dei dipendenti a termine ad alta qualificazione e bassa anzianità che vengono promossi a contratti a tempo indeterminato in imprese innovative (circa il 16% del campione di imprese considerato). Tutto questo conferma una diffusa preferenza fra le imprese toccate dal Jobs Act verso i lavoratori a basso capitale umano. L’effetto sulla stipula di contratti a tempo indeterminato è forte per tutte le imprese nel 2015; nel 2016 diminuisce (ma non nelle imprese non innovative); nel 2017 scompare per tutte le imprese tranne per quelle esportatrici.

Questi due primi risultati insieme indicano che nel 2015 sono avvenute quasi solo trasformazioni, senza effetti significativi sulla forza lavoro totale, mentre nel 2016 e 2017 le imprese hanno aumentato l’occupazione rispetto al controfattuale, principalmente trattenendo i lavoratori a tempo indeterminato avviati nel 2015. Detto altrimenti, nel 2015 è stata attuata una strategia di rafforzamento, in cui i lavoratori sono passati da un contratto temporaneo ad uno a tempo indeterminato nella stessa azienda. I risultati evidenziano la determinazione delle aziende a ridurre il capitale umano disponibile adottando quella che sembra una strategia di sopravvivenza piuttosto che di miglioramento del valore aggiunto. Analizziamo questo aspetto studiando l’andamento della produttività e dei profitti, con lo stesso approccio e lo stesso modello causale adottato per ottenere i risultati descritti finora.

La produttività, misurata dal valore aggiunto per addetto, mostra una tendenza decrescente nelle imprese trattate rispetto al controfattuale, dal 2015 in avanti. L’effetto negativo diventa statisticamente significativo per il complesso delle imprese nel 2017 (Figura 2). Poiché l’occupazione è in aumento, come evidenziato dai precedenti risultati, se ne deduce che il valore aggiunto generato dalle imprese non è cresciuto quanto l’occupazione.

Fig. 2: impatto annuo sulla produttività, calcolata come (logaritmo del) valore aggiunto per addetto
Fonte: nostre elaborazioni su dati COB-ASIA-AIDA. Note: intervalli di confidenza al 95%

Benché la produttività sia in calo, i profitti nelle imprese trattate non hanno sofferto, in particolare nelle imprese non innovative e non esportatrici dove, al contrario, sono cresciuti. Riteniamo ciò coerente con i risultati sul capitale umano: a seguito di una riduzione dei costi di licenziamento, le aziende hanno ridotto il capitale umano presente in azienda, penalizzando la produttività e seguendo una strategia di risparmio sui costi che ha rafforzato il loro margine di profitto.

La nostra analisi suggerisce dunque che il capitale umano medio posseduto della forza lavoro è stato ridotto e le aziende, con il Jobs Act, hanno migliorato la propria resilienza attraverso una strategia di risparmio sui costi piuttosto che una strategia di miglioramento della produttività. Si noti che i nostri risultati non sono coerenti con l’ipotesi (suggerita, e.g., da Kampelmann e Rycx) di un aumento dell’attitudine delle imprese a sotto-inquadrare lavoratori comunque in possesso di un’elevata qualifica/istruzione (sfruttando il fatto che la produttività dei lavoratori sotto-inquadrati è comunque superiore al loro salario), poiché noi osserviamo una riduzione del livello medio di istruzione, non un suo aumento.

Se quindi è vero – come suggerisce la teoria economica – che una maggiore flessibilità del mercato del lavoro permette di migliorare la qualità dell’allineamento fra le competenze dei lavoratori e quelle richieste dalle aziende, permettendo ai primi di ruotare – con pochi vincoli – fino all’abbinamento migliore (si veda il lavoro di Berton et al. citato sopra), allora potremmo essere di fronte a una strategia di attestamento della qualità della forza lavoro da impiegare al basso livello di competenze necessario per i posti di lavoro disponibili nelle piccole-medie imprese, soprattutto se non innovative e/o non esportatrici.

La conclusione generale che traiamo è che una riduzione della protezione dell’impiego sembra non riuscire a migliorare la qualità dei posti di lavoro offerti dalle imprese e tantomeno a innescare un ricambio della forza lavoro teso ad aumentare il capitale umano. Infatti, le piccole/medie imprese – l’oggetto della nostra analisi – approfittano della riforma per diventare più resilienti attraverso una strategia difensiva e di riallineamento delle competenze impiegate a quelle effettivamente necessarie, piuttosto che investendo. Questo è vero soprattutto per chi non è esposto alla concorrenza internazionale o non è innovativo (la grande maggioranza delle piccole/medie imprese). Ciò è forse coerente con la necessità di breve periodo di sopravvivere all’indomani di una crisi economica grave come quella finanziaria e del debito sovrano, ma tale politica di ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro suscita più di un dubbio, in termini di sostenibilità nel medio-lungo periodo nel contesto di un paese a produttività stagnante. In altri termini, il problema persistente della bassa e stagnante produttività in Italia non sembra si risolva aumentando la flessibilità del mercato del lavoro, ma sembra richiedere interventi diversi, politiche industriali mirate. In quest’ottica andranno valutati gli interventi del PNRR. Una analisi causale, per quanto possibile, del Decreto Dignità potrebbe invece dare indicazioni sull’effetto di un aumento – per quanto blando – della protezione dell’impiego, per capire se in tali circostanze le imprese reagiscono con un investimento in capitale umano della propria forza lavoro.

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