È curabile l’impopolarità dei partiti?

Alfio Mastropaolo di fronte alla proposta, che ricorre ciclicamente, di rivitalizzare i partiti, sostiene occorrerebbe partire dal chiedersi perché i partiti siano divenuti impopolari, quali siano i loro compiti e se la società per com’è fatta al momento si presti alla loro rivitalizzazione. Quest’ultima, secondo Mastropaolo, non dipende solamente da come i partiti funzionano, ma anche dal modo in cui interagiscono coi cittadini e, sopra ogni cosa, dai servizi che erogano: la loro azione di governo e di opposizione è parte inseparabile del problema.

Servono davvero i partiti? Sa il cielo se c’è bisogno d’istituzioni che provvedano a connettere stabilmente la politica ai cittadini, senza delegare la connessione ai media e ad altri interpreti interessati; che reclutino e addestrino il personale politico; che conducano e regolino civilmente la contesa politica; che progettino l’avvenire, senza delegare a istituzioni private, che tutelano interessi circoscritti. Sono i compiti che una volta svolgevano i partiti. Grave ovunque, il problema è divenuto in Italia urgenza drammatica per almeno tre motivi. Il primo è il distacco dei cittadini – che è sorda forma di resistenza – testimoniato dal mostruoso tasso d’astensione registrato alle elezioni municipali appena trascorse. Il secondo motivo è l’inadeguatezza palese del personale politico che i partiti concedono agli elettori di selezionare tramite le elezioni. Il terzo motivo è l’avvelenamento insopportabile della contesa politica, che ha ostacolato l’azione di governo, finanche al cospetto di una micidiale pandemia. Ribadisce l’urgenza – ove ve ne fosse bisogno – la decisione del capo dello Stato di affidare la guida dell’esecutivo a una personalità del tutto estranea alla vita politica.

Non c’è perciò da stupirsi se qualcuno di quando in quando ripropone l’invito a rivitalizzare i partiti. I quali, per parte loro, in quanto destinatari più ovvii dell’invito, si dividono tra due orientamenti. Per alcuni le cose vanno bene così come stanno. Si godono il successo che arride alle formule personalistiche e plebiscitarie e non vedono motivi di cambiare: forsanche perché tali formule sono congeniali all’elettorato cui si rivolgono. Altri hanno invece un orientamento più ambiguo, vuoi per loro affiliazione genetica al regime democratico disegnato in Costituzione, vuoi per gli umori che provengono dal loro bacino elettorale, uso a tutt’altri rapporti con le istituzioni rappresentative. Se non che, mentre da un canto costoro avvertono il problema, dall’altro nulla o poco fanno per affrontarlo.

Il problema, sia chiaro, è difficile. Anche se non mancano né le diagnosi approfondite, scevre da moralismi, né le proposte di terapia (ad esempio: F. Barca, P. Ignazi, Partiti, società e Stato, Laterza, Roma-Bari, 2013 e A. Floridia, Un partito sbagliato: democrazia e organizzazione nel Partito democratico, Castelvecchi, Roma, 2019). Ciò che tocca però constatare è che, al di là di pie intenzioni e di qualche vacua mossa simbolica, entro il partito cui sono specificamente indirizzate le diagnosi e terapie succitate e altre ancora – ovvero il Pd – scarseggia la disponibilità a mettersi in discussione. Solo qualche segmento minoritario si mostra talora convinto della necessità di cambiamenti radicali, ma la convinzione per lo più si risolve in qualche aggiustamento di vertice, tranne qualche caso estremo, dove chi è più convinto non trova alternativa migliore che lasciare la scena e condurre semmai dall’esterno la sua battaglia politica.

Le considerazioni che seguono sono perciò tanto astratte, quanto intrise di scetticismo. Nonché accompagnate da un altro avvertimento preliminare: stiamo attenti a che la richiesta di adeguamento dell’attività, lato sensu, d’intermediazione dei partiti – ma c’è assai di più – non si trasformi, com’è già successo, in una manovra velleitaria, intesa a deviare l’attenzione da altri temi, come le politiche che i partiti al momento propongono e conducono. Le quali, come si proverà ad argomentare, sono invece parte inseparabile del problema dei partiti.

A cosa servono i partiti? La domanda non trova in astratto una risposta universalmente attendibile. Conviene perciò iniziare dalla storia, che ciascuno racconta come gli piace, ma che almeno consente di assemblare più fatti. Storicamente i grandi partiti popolari hanno visto la luce oltre la metà del XIX secolo in quanto imprese di rappresentanza. Sono una tecnologia politica anticipata oltre oceano. Alle tecniche notabiliari di raccolta del consenso elettorale vigenti finora i partiti replicavano industrializzando la raccolta. La reinvenzione europea fu opera dei partiti socialisti e fu imitata dai partiti conservatori, moderati e confessionali.

In omaggio a Schumpeter, proviamo adesso a pensare la rappresentanza politica all’inverso di come si usa fare: come un movimento che procede dall’alto verso il basso, anziché dal basso verso l’alto. I partiti elaborano un testo, o un’offerta di rappresentanza, sfruttando i pre-testi offerti al momento dalla vita collettiva. Alle vittime dell’industrializzazione e dell’urbanesimo i partiti socialisti offrirono un testo fatto di promesse di riscatto e dell’idea di un destino reso comune dall’appartenenza di classe. C’era anche ben altro: una presenza organizzata sul territorio, un’attività educativa rivolta a iscritti e elettori, illuminata da una concezione del mondo, un’attività identificante, ma pure di protezione sociale e manutenzione democratica. I partiti producevano altresì una mole ragguardevole di capitale sociale. Ed erano occasione di mobilità sociale e formazione politica: quando reclutavano i propri addetti tra le classi popolari, li addestravano a ricoprire cariche elettive e di governo. La vita di partito si svolgeva coinvolgendo iscritti e elettori e culminava nei congressi, locali e nazionali, che non erano solo esibizioni di dispute tra correnti. Ma occasioni di riflessione e discussione.

Nell’azione dei partiti c’era anche una componente demagogica, da non spregiare troppo in fretta. La demagogia è ambivalente: i partiti ascoltavano le esigenze dei loro elettori e si adoperavano per interpretarle, incanalarle e esaudirle, vuoi direttamente, vuoi, quando potevano, tramite le policies che promuovevano dal governo, ma pure dall’opposizione. Questo ne faceva depositi di fiducia preziosi, che davano respiro all’azione degli eletti: i partiti contribuivano alla legittimazione delle politiche. Il quadro politico era aspramente competitivo, ma proprio tale modo di operare contribuiva a stabilizzarlo. Il mondo del lavoro organizzato – dai partiti e dai sindacati – fu decisivo per conseguire il suffragio universale e via via misure importanti di protezione sociale, bilanciando l’azione dei potentati economici. Per dirla con Polanyi, i partiti popolari furono un’arma di autodifesa della società contro il mercato. Il loro radicamento è stato tanto efficace da sconvolgere i regimi liberali e, complici le circostanze del primo dopoguerra, da condurre a terribili parentesi autoritarie.

I partiti erano organizzazioni complesse, tutt’altro che perfette, come mostra la requisitoria di Michels a inizio Novecento. Ma, come avvertiva il suo maestro Max Weber, maggiori erano i benefici: erano un modo per disciplinare e canalizzare le masse, per convertire in virtuosa energia politica i loro motivi di malessere. È durata, l’età dell’oro dei partiti, più o meno fino agli anni ’60. Non era tutt’oro, ma i partiti sono andati avanti, finché non è iniziata la loro mutazione.

La mutazione è ancora in corso. Sono cambiati i pre-testi. La fine del fordismo ha cancellato la società di classe culturalmente, ma ha anche disciolto le concentrazioni di manodopera nelle fabbriche. Lo sviluppo e il welfare hanno allargato i ceti medi e lo stesso welfare ne ha stimolato le pulsioni, diciamo, privatistiche. È cambiato anche il con-testo: i partiti mainstream hanno preso a considerare l’azione di governo la risorsa fondamentale per riprodursi elettoralmente. Il vecchio modo d’attrarre gli elettori è stato ritenuto troppo faticoso rispetto alle remunerazioni che offriva: è subentrata la tv. Si sono rinnovati anche gli addetti ai partiti: le responsabilità di governo avevano cambiato i loro modi di pensare la politica e, man mano, la loro estrazione sociale. Non erano più disposti a contentarsi dalle remunerazioni simboliche offerte dalla militanza e dall’attività sul campo: l’idea di concorrere a costruire un mondo nuovo non era più gratificante a sufficienza. A sua volta, il welfare si era addossato e aveva potenziato l’azione protettiva svolta dai partiti. Che si sono dedicati al marketing elettorale, condotto in maniera sempre più professionale e sempre meno empatica verso gli elettori.

L’altra fondamentale novità sta nel con-testo. Dove i partiti moderati e conservatori hanno promosso il grande market turn, avviando una sequenza implacabile di misure intese a liberalizzare il mercato del lavoro e a ridurre i servizi di welfare. La destra l’ha promosso spesso con spirito di rivincita, le sinistre l’hanno sposato, riscrivendo anch’esse la loro offerta di rappresentanza, salvo alleviarla con l’ipocrisia dei diritti. Che sono sacrosanti, ma rischiano di restare vuoti se usati in contrasto con le disuguaglianze prodotte dal mercato. Si è dunque dissolta l’attività di protezione e manutenzione democratica che i partiti svolgevano. Com’è svanita la funzione di legittimazione delle policies. A trarne profitto è stato il business antipolitico dei partiti della destra populista.

I dati elettorali e di survey si possono leggere in molti modi. Incontra molto favore la tesi, molto pubblicizzata, secondo cui parte cospicua dell’elettorato popolare sarebbe defluita verso la destra estrema. Ma non è meno attendibile un’altra tesi: il deflusso è stato contenuto; una quota cospicua dell’elettorato popolare – mediamente un terzo – aveva sempre volato a destra e si è semmai radicalizzata, come un bel pezzo di ceti medi. Un’ampia quota di elettorato di sinistra è defluita piuttosto verso l’astensione, o verso le formazioni di nuova sinistra.

C’è qualche rimedio? Dove conduce questo ragionamento? Tranne trovare rimedi che prescindano dai partiti, ma non se ne vedono, per contrastare il decadimento sono immaginabili due opzioni.

La prima è un’azione circoscritta ai partiti. È un’opzione gradita anche a tutti gli ambienti che patiscono l’avventurismo personalistico-plebiscitario, ma pure i tormenti della sinistra (o del centrosinistra). Non è detto però che questi ambienti gradiscano la reviviscenza, con gli aggiustamenti del caso, dei vecchi partiti ben ancorati sul territorio, prossimi ai cittadini e attenti alle disuguaglianze sociali. Vogliono assai meno e assai meno vogliono gran parte delle dirigenze politiche di centrosinistra. Le quali, consapevoli del malcontento dei loro elettori, tengono piuttosto a confermare le loro opzioni di policy, corroborando l’offerta con la ricetta di Maria Antonietta: quella delle brioches al posto del pane. A questo è stata ridotta la politica dei diritti e delle differenze. Che è irrinunciabile per una democrazia decente, ma è stata usata, come ricorda Nancy Fraser , per oscurare il tema dell’uguaglianza, quando ne sarebbe inseparabile. Uso analogo si è fatto della retorica della partecipazione. Le pulsioni individualistiche imputate all’individuo postmoderno sono state sovraeccitate in contrasto col principio di solidarietà. Con risultati assai deludenti.

La seconda opzione, che i sostenitori della prima degradano a mero ritorno al passato, è molto più impegnativa. Suo punto di avvio è l’intreccio tra mutazione dei partiti e market turn. È un intreccio da sciogliere. Da un canto si tratterebbe di riesumare, con tecniche adeguate ai tempi (la rete, per esempio), l’azione di manutenzione e protezione svolta in passato dai partiti, dismettendo lo spregio in cui sono tenuti i ceti popolari. Dal lato opposto, si tratta di rivedere l’azione di governo, reindirizzandola verso il contrasto delle disuguaglianze, che sono grave motivo di distacco dei cittadini dalla politica. I partiti, va ricordato, svolgono azione di governo vuoi quando occupano cariche nell’esecutivo, vuoi quando stanno all’opposizione: donde concorrono al governo orientando la pubblica opinione e mobilitando i cittadini.

Questa seconda opzione è la più dispendiosa e ardua da intraprendere. I partiti (di centrosinistra) dovrebbero cambiare il modo in cui da lungo tempo abitano la politica. A complicare il compito c’è che i tempi sono cambiati. Il market turn è stato un micidiale acceleratore di differenziazione sociale e culturale. E ha svolto un’intensissima attività diseducativa alla socialità e alla solidarietà. La pressione sugli individui perché si pensassero quali imprenditori di sé stessi è stata fortissima. In quanti sarebbero disposti ad accogliere un’offerta politica più attenta alla cura delle disuguaglianze e alla manutenzione dell’elettorato? In realtà, non mancano segni che entro il tradizionale elettorato di centrosinistra, oggi in parte ripiegato verso l’astensione, o sporadicamente verso altre formazioni politiche, la disponibilità non manchi affatto: i ceti popolari non sognano più il sole dell’avvenire (sempre che una volta lo sognassero), ma chiedono rispetto e qualche cura. Verosimilmente sono anche disposti a riconoscere le differenze. Sono umori che i partiti di centrosinistra resistono però a captare. Mentre da decenni le destre, populiste, ma ormai pure alcune di quelle mainstream, sfruttano il pre-testo più primordiale che si possa immaginare: la paura dell’altro. Al più i partiti di centrosinistra, in nome delle buone maniere democratiche, concentrano la loro offerta elettorale intorno al pericolo populista: ma sono brioches pure queste. Il rischio che siano rifiutate, producendo danni irreparabili, è elevatissimo.

 

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