Don’t Look Up e la messinscena della politica

Emanuele Di Nicola propone un’analisi del recente film Don’t Look Up di Adam McKay nel quale alcun scienziati dopo aver scoperto che una cometa è in rotta di collisione verso la Terra, lanciano l’allarme ma non vengono ascoltati. Di Nicola riflette soprattutto sulla ricaduta del film sui meccanismi della politica e della democrazia nell’epoca della post-verità, nel regime dei social network dove ogni opinione vale come un’altra e il ruolo delle competenze rischia di svanire.

Ci sono film che mettono il nostro tempo allo specchio. Ed è uno specchio rotto, un vetro incrinato in cui è possibile guardarsi e riconoscersi: leggermente diversi dal solito, distorti e deformati, eppure siamo sempre noi. Uno di questi titoli, tra i più potenti degli ultimi anni, è Don’t Look Up di Adam McKay, rilasciato in Italia sulla piattaforma Netflix il 24 dicembre 2021, dopo la finestra del passaggio nelle sale cinematografiche. Una storia che fa un passo di lato rispetto al presente, ma vi resta calata dentro, piantata saldamente nel contemporaneo: una storia che, analizzata in controluce, può adattarsi agli aspetti principali dell’oggi, dal Covid al ruolo degli scienziati, dai social network al sistema dell’informazione. Nella mappa dei molti temi in filigrana, troviamo certamente una riflessione su cosa stanno diventando la politica e la democrazia.

Il film si apre con una scoperta straordinaria: una dottoranda in astronomia, Kate Dibiasky interpretata da Jennifer Lawrence, individua infatti l’esistenza di una nuova cometa mai identificata che – come uso nella scienza – prenderà il suo nome. La scoperta viene comunicata al professore e superiore, Randall Mindy raffigurato in Leonardo DiCaprio: ci sarebbe da festeggiare per tutta la comunità scientifica, se non fosse che il calcolo della traiettoria della cometa Dibiasky indica che si sta dirigendo proprio verso la Terra. Nell’arco di sei mesi impatterà sul pianeta e, provocando una catena di sismi, maremoti e altre castrofi, porterà all’estinzione della razza umana anzi di qualsiasi forma di vita, come avvenne per i dinosauri e anche peggio. A quel punto gli studiosi fanno ciò che la loro funzione prevede: lanciano un allarme. Ed è qui che la politica entra in campo.

D’altronde il regista americano Adam McKay, uno dei nomi importanti del cinema statunitense emersi nel Duemila, non è nuovo nel riscrivere il reale attraverso la lente della parodia: basti pensare all’esordio Anchorman (2004), un capolavoro comico costruito sulla figura demenziale dell’anchorman Ron Burgundy, capace di tritare l’intero meccanismo giornalistico americano attraverso le sue esagerazioni, le assurdità, la vanagloria e la sterminata idiozia. E l’informazione, ovviamente, è anche una questione politica. Oppure si può vedere il suo film più famoso, La grande scommessa (2015), ricostruzione dello scoppio della crisi finanziaria del 2008 attraverso la prospettiva di chi fece fortuna speculandovi sopra; e ancora Vice – L’uomo nell’ombra (2018), biopic sull’ambiguo vicepresidente americano Dick Cheney, braccio destro di George W. Bush, colui che pose un carico decisivo nell’attacco americano contro Afghanistan e Iraq. Insomma per McKay tutto è politica: una politica che spesso non viene esplicitata nei suoi racconti, ma emerge mimetizzata nel tessuto per interposta narrativa.

In Don’t Look Up il politico chiave è, semplicemente, il presidente degli Stati Uniti: una presidente donna, Janie Orland incarnata da Meryl Streep. Appresa l’esistenza della cometa verso la Terra, inizialmente l’amministrazione americana sceglie di non intervenire: politicamente non conviene, meglio non diffondere il terrore per non gettare la popolazione nel caos. Poi però le elezioni si avvicinano, e la presidente è in difficoltà perché coinvolta in uno scandalo sessuale: serve un diversivo per distrarre i media e quindi la cittadinanza, ecco dunque la retromarcia. Il governo sosterrà gli scienziati nella loro crociata, rende pubblica la scoperta e si impegna a distruggere il corpo estraneo per salvare il pianeta. Ma, nello sviluppo dell’intreccio, ecco un altro colpo di scena, ovvero l’intervento del terzo potere che indirizza l’oscillazione di una democrazia: l’industria. C’è una grande azienda di alta tecnologia che finanzia la Casa Bianca, guidata dal magnate folle e visionario Isherwell col volto di Mark Rylance, che decide diversamente: la cometa non andrà eliminata ma frantumata per sfruttare le ricchissime materie prime che contiene in grado, dice la propaganda, di risolvere definitivamente problemi come la povertà e la fame nel mondo. Mentre la cometa si avvicina il piano del governo cambia. Da una parte gli scienziati lanciano l’allarme, dall’altra l’amministrazione prosegue con la sua strategia. Con una particolarità: se fallisce finisce anche la Terra.

Alcune metafore contenute in Don’t Look Up sono talmente evidenti che si possono lasciare sottintese, come la cometa che rappresenta il Covid. Ben più complesso e stratificato è il sistema della politica rappresentato nel film. Prima di tutto c’è da notare la costruzione, anche grafica, della figura della presidente: le sue caratteristiche ricordano il populismo di Trump, da cui l’America evidentemente deve ancora uscire in una sorta di post-Covid. Ma allo stesso tempo Meryl Streep è il primo presidente donna, è anche bionda e ciò si ricollega inevitabilmente a Hillary Clinton: la grande sconfitta proprio da Trump, la sfidante che voleva rompere il tetto di cristallo. E l’aveva costruito davvero, in sede di campagna elettorale, come attesta Fahrenheit 11/9 di Michael Moore (2018): un grande tetto di vetro edificato con poca lungimiranza e pronto ad essere distrutto, dopo le presidenziali 2016 che dovevano portare la prima donna alla White House. Ma non andò così.

Ecco perché la presidente Streep, tra le righe, suona come un’inquietante crasi tra Trump e Hillary, non solo denudando il becero populismo dei leader (la Streep non vuole neanche foto mentre fuma) ma sbriciolando la retorica di genere nella scelta delle persone giuste. Se è vero che la presidente Orlean è una donna, questa donna porterà letteralmente alla fine del mondo. Attenzione quindi, sembra dire la cinica Meryl, alle scelte dettate solo dal genere. Come se non bastasse, il capo di gabinetto e primo consigliere è addirittura suo figlio: Jonah Hill nei panni di Jason Orlean, sottomesso alla madre ma più stupido e sprezzante, che il film inscena giocando per iperbole. Se i politici nei ruoli chiave sono tutti cooptati, se vengono sistematicamente nominati dall’alto, allora perché non un figlio? Ecco che il corpo di Jason si aggira per il racconto con naturalezza, senza che nessuno obietti nulla, come fosse normale che il figlio scemo del presidente comandi il suo staff.

La parte più potente e stratificata riguarda però il discorso pubblico sulla cometa, ovvero il balletto delle posizioni che si innesca dopo la scoperta. Da subito, infatti, parte un gioco di strategia che risponde solo alla convenienza, al tornaconto personale, avendo ormai totalmente espunto dalla partita ogni possibile convinzione etica o morale. In altre parole, la politica fa ciò che torna utile per restare in sella, concede ai cittadini il solito panem et circenses, indirizza l’opinione pubblica da una parte all’altra a piacimento, manovra qualsiasi notizia in modo strumentale. Nelle sue conferenze stampa, tweet e post sui social, la presidente Orlean sembra aver appreso la lezione di Robert McNamara, enunciata nello sconcertante documentario-intervista The Fog of War di Errol Morris (2003): il segretario della Difesa di Kennedy e Johnson spiega l’indefinitezza del comportamento morale nello stato di emergenza, interpellato sulle armi chimiche utilizzate nella guerra del Vietnam contro la popolazione inerme. E sui media dice: “Non rispondere mai alla domanda che ti pongono, rispondi sempre alla domanda che vorresti ti fosse posta”.

Così la presidente nel film, che in ogni caso non sarebbe capace di offrire un “buon governo”: la Casa Bianca risponde ormai a logiche totalmente diverse, neanche si pone più il problema di ciò che è meglio fare. In questo viene alimentata dal sistema mediatico, dallo spirito del tempo che coltiva una post-verità basata sulle fake news: si può dire tutto e il contrario, un’opinione ripetuta più volte diventa verità, nulla prevale su nulla, tutto è sullo stesso piano. Lo smarrimento di seri punti di riferimento nella considerazione pubblica si cuce sull’immagine del professor Mindy di DiCaprio, non a caso un ex idolo degli adolescenti oggi quasi cinquantenne: si tratta di uno scienziato che divulga un rischio epocale ma, a colpi di meme sui social network, diventa famoso invece per la sua bellezza, per la sexyness che lo porta a letto con Cate Blanchett. Nell’epoca corrente un esperto si impone insomma perché è “bello”, non competente. Parabola uguale e contraria subisce Jennifer Lawrence, che dopo una scenata in diretta Tv diviene materia per esilaranti (?) meme con gatti isterici.

Ma l’esempio più importante della paradossale equivalenza delle opinioni risiede da un’altra parte: nella polarizzazione delle opinioni pro e contro la cometa. Non è un caso che una di queste sia anche il titolo del film: Don’t Look Up, non guardare in alto, ovvero lo slogan del movimento che invita ad ignorare la pericolosità – tra cui la presidente -, meglio non guardare il cielo mentre si avvicina, non è poi così rischiosa, facciamo finta di niente. Il titolo assume inoltre un secondo valore simbolico: “non guardare in alto” è l’ennesima deformazione grottesca che invita a non elevarsi mai, non alzare gli occhi, anzi conviene restare fissi sul terreno e guardare in giù, verso i propri piedi. La chiusura degli orizzonti e lo sguardo corto vengono proprio teorizzati dal movimento No Comet. Don’t Look Up rappresenta insomma l’estinzione della politica in favore della convenienza personale e industriale, la deriva opinionistica di oggi dove uno vale uno, la fine della competenza intesa come autorità, il peso della conoscenza ridotto a una piuma. Cosa ne deriva? Il regime delle chiacchiere e dei post sui social network, in cui la politica ha gioco facile a spostare l’attenzione con trucchi da prestigiatore, schioccando la mano destra mentre inganna e prolifera con la sinistra, fino all’autodistruzione. Don’t Look Up è un film, certo: è un disaster movie che mette il presente in parodia. Ma sarebbe troppo facile nascondersi dietro il suo registro. È satira deformante, specchio incrinato, però nel finale la cometa arriva davvero. Ed è troppo tardi per tutti. Alla fine la realtà ce la farà pagare.

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