Donne, economia e “leaking pipelines”

Antonia Carparelli, con riferimento al progetto '100esperte.it', illustrato da Luisella Seveso su questo numero del Menabò, propone alcune riflessioni sul percorso lungo e tortuoso che le donne hanno dovuto e devono ancora affrontare per affermarsi e far sentire la propria voce in qualità di economiste; sottolinea l'importanza di 'azioni positive' volte a contrastare gli ostacoli e i meccanismi di discriminazione, e segnala il ruolo dell'Europa nel promuovere e sostenere la parità di genere, anche e soprattutto attraverso la diffusione della conoscenza.

Il progetto ‘100 esperte’ – illustrato in dettaglio nel contributo di Luisella Seveso in questo numero del Menabò– rientra tra le “azioni positive” per la parità di genere di carattere per così dire soft, ovvero di natura volontaristica e orientate soprattutto al cambiamento culturale. La scelta di estendere il progetto alla categoria delle economiste, dopo una prima edizione riservata alle esperte STEM (scienza tecnologia ingegneria e matematica), trova ragion d’essere nella realtà di una professione ancora segnata da un forte squilibrio di genere, che si accentua man mano che si sale verso posizioni di maggior potere.

E a proposito di donne ed economia c’è un episodio storico straordinariamente significativo e toccante, in verità non molto conosciuto. Nel 1897 l’Università di Cambridge, dopo un dibattito interno molto animato, decise di interdire alle donne la possibilità di ottenere una laurea presso quell’Università. Per la cronaca, l’Università di Cambridge sarebbe stata l’ultima a far cadere quel veto, cinquant’anni dopo, nel 1947! E dire che proprio nel contesto di Cambridge maturò il talento di Joan Robinson, una donna che ha dato un contributo inestimabile – e ancora in gran parte inesplorato – alla scienza economica. Tra i più accesi oppositori alla “laurea alle donne” vi fu Alfred Marshall, il padre dell’economia neoclassica, a cui pure tanto deve la scienza economica. Un aspetto tristemente paradossale di questa vicenda è il grande dolore che questa posizione causò a sua moglie, Mary Paley Marshall, la quale non soltanto era stata la prima donna “lecturer” all’Università di Cambridge, ed era adorata dai suoi studenti, ma aveva anche scritto un libro di economia industriale con Alfred Marshall prima che questi diventasse suo marito.

La vicenda è raccontata con grande empatia e delicatezza da John Maynard Keynes, che invece aveva in grande considerazione l’intelligenza femminile, in un bel profilo biografico dedicato proprio a Mary Paley. Un profilo che intreccia mirabilmente la vicenda umana con quella professionale e colloca chiaramente Mary Paley Marshall tra gli economisti.

Sono molte le riflessioni che potrebbero farsi a partire da questa vicenda. Per esempio si può riflettere su quanto sia costata, alle donne, agli uomini e alla scienza economica l’apartheid inflitta per così tanto tempo alle donne – ovviamente non solo nel campo delle scienze economiche. Una riflessione in linea con quanto ha scritto Mario Monti nel secondo volume della collana dedicata al progetto #100 esperte. Ma potremmo anche fare una riflessione meno accorata e sottolineare quanto le cose siano cambiate nell’arco di circa quattro generazioni.

Oggi in Italia il numero delle donne laureate in economia è perfino superiore a quello degli uomini (dati ISTAT) e, dato forse ancor più interessante, a un anno dalla laurea la percentuale delle laureate in economia che hanno trovato un lavoro è maggiore di quella dei loro colleghi maschi (dati Almalaurea). E tuttavia, le statistiche ci dicono che, quando si sale nella scala delle posizioni professionali cui dà accesso una laurea in economia – banche, imprese, pubblica amministrazione, libere professioni – la presenza femminile si fa inesorabilmente più esile. Nell’Università ad esempio, le donne economiste sono circa il 45% nel ruolo dei ricercatori; questa percentuale scende al 37% circa per gli associati e al 20% circa tra i professori ordinari (dati ISTAT).

Si potrebbe naturalmente osservare che questo squilibrio nei punti di arrivo è inevitabile, dati i diversi punti di partenza e i tempi medi delle carriere, e che il raggiungimento della piena parità è solo questione di tempo. Già, ma quanto tempo?

In verità sappiamo che i progressi sono molto più lenti dei tempi medi di carriera, e se estrapoliamo le tendenze osservate negli anni recenti, possiamo aspettarci che occorreranno non meno di tre generazioni per colmare il divario. Per le discipline scientifiche – quelle contrassegnate in inglese dalla sigla STEM – la distanza dal traguardo è molto, molto più lunga, superiore al secolo.

Il fenomeno della leaking pipeline – le condutture che perdono – che fuor di metafora sono le risorse, i talenti, le competenze femminili che si “perdono per strada” è ancora fortemente all’opera. I meccanismi che sono all’origine di questa “dispersione” sono probabilmente molti e in parte controversi. C’è un bellissimo Ted Talk di Sheryl Sandberg, chief operating officer di Facebook, che propone un’interessante gamma di possibili spiegazioni.

Tra i tanti meccanismi che ostacolano le carriere femminili forse il più sottile, e meno riconosciuto, è quello per cui “gli uomini scelgono gli uomini”: essenzialmente per affinità, per maggiore frequentazione, perché i network informali sono spesso tra persone dello stesso sesso. E dunque finché ci sarà una prevalenza di uomini in posizioni di potere e con responsabilità decisionale, le donne avranno inevitabilmente più difficoltà a salire sull’ascensore che porta oltre il glass ceiling, il “soffitto di cristallo”.

Quali che siano le ragioni della dispersione, i dati giustificano ampiamente l’esigenza di politiche pubbliche lungimiranti e di “azioni positive” a vari livelli, che integrino e rafforzino le politiche pubbliche.

Questo principio è anche riconosciuto nel Trattato dell’UE (Art. 157(4)) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (art. 23). E in realtà l’Unione europea ha fatto e fa moltissimo per promuovere i diritti delle donne e l’eguaglianza di genere. Da tempo sono stati messi in campo – con una forte accelerazione dopo la conferenza di Pechino del 1995 – tutti gli strumenti di cui l’Unione dispone: dalla legislazione antidiscriminazione, al coordinamento aperto, al cosiddetto “mainstreaming” (integrazione) dell’obiettivo della parità di genere in tutte le politiche, all’uso dei fondi strutturali, ai piani d’azione, alle strategie per obiettivi.

L’ultima di queste strategie, che copre il triennio 2016-19, si articola su cinque aree prioritarie:

  • accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro;
  • ridurre l’income gap (pay gap, pension gap) e la povertà femminile;
  • promuovere l’eguaglianza di genere nei processi decisionali;
  • combattere la violenza di genere;
  • promuovere i diritti delle donne su scala globale.

La strategia si basa su un solido strumentario conoscitivo e su indicatori che sono oggetto di regolare monitoraggio. Sappiamo così che il divario occupazionale tra uomini e donne è ancora di circa dodici punti nella media europea (78,1% uomini e 66,6% per le donne); il pay gap, il divario retributivo, è del 16%; sappiamo che le donne presenti nei consigli di amministrazione delle imprese sono appena un quarto del totale e che le donne che siedono nei parlamenti nazionali sono meno del 30% del totale, con grandi variazioni tra paesi. Più difficile la lettura dei dati relativi alla violenza sulle donne, ma anche qui parliamo di percentuali importanti, con una donna su tre che dichiara di aver subito qualche forma di violenza.

Forse tra le tante iniziative che l’Unione europea ha preso in quest’ambito, una delle più importanti è l’impulso dato alla costruzione di statistiche di genere, perché è questo il fondamento di buone politiche, le politiche basate sulla conoscenza, per l’appunto. Eurostat ha molto lavorato con gli istituti nazionali di statistica, e l’Istituto europeo per la parità di genere di Vilnius ha posto la conoscenza e la diffusione della conoscenza al centro della sua missione. L’imperativo “measure what you value”, non è solo questione di metodo, ma un principio essenziale per promuovere politiche radicate in valori condivisi.

L’indice di eguaglianza di genere, lanciato nel 2013, è un piccolo capolavoro, di grande ausilio per la diagnosi e la comprensione dei problemi e per il monitoraggio nel tempo. Ma soprattutto è un prezioso strumento d’informazione e di comunicazione. E’ incoraggiante vedere che, pur collocandosi leggermente al di sotto della media europea, una volta tanto l’Italia non è il fanalino di coda in questo set di indicatori ed è molto vicina ad Austria e Germania. Al tempo stesso è molto utile vedere quali sono le aree di maggiore debolezza. La più dolente resta quella della partecipazione delle donne al mondo del lavoro.

Questi riferimenti ai dati, all’informazione e alla comunicazione riconducono al progetto ‘100 esperte’, un’azione positiva che la Commissione europea ha deciso di sostenere, e che ancora una volta fa leva sulla conoscenza: conoscenza delle competenze, dei meriti e del lavoro di donne di valore. Grazie a questa iniziativa sappiamo qualcosa di più delle donne di scienza e delle economiste competenti che operano in Italia, che sicuramente non sono abbastanza ma sono già tante, molte più di quanto lasci intendere il rumore mediatico nel quale siamo ormai perennemente immersi. E sarebbe sicuramente utile che in futuro il progetto ‘100 esperte’ punti il riflettore su altre zone d’ombra e dia visibilità ai troppi talenti femminili nascosti o ignorati.

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