Divenire homeless, fuoriuscire dalla condizione di homeless, restare cittadini: quale ruolo hanno i servizi di accoglienza?

Daniela Leonardi si occupa delle persone senza dimora basandosi su una ricerca in corso nella città di Torino. Leonardi ricorda l’estrema complessità e eterogeneità della popolazione delle persone senza dimora e, soprattutto, partendo dal presupposto che la costruzione dell’identità homeless abbia carattere processuale, sottolinea l’importanza che l’attività dei servizi di accoglienza ha nel definire tale identità e – specularmente - quella di cittadini per i beneficiari di tali servizi.

‹‹La classe dei poveri, particolarmente nella società moderna, costituisce una sintesi sociologica quanto mai singolare. Essa possiede, in base al suo significato e alla sua localizzazione nel corpo della società, una grande omogeneità che però le manca per le qualificazioni individuali dei suoi elementi. Essa è il punto finale comune di destini di specie più diverse›› (Simmel, G., 2015, Il povero, Milano, Mimesis, p. 96, ed. or. 1908, Der Arme)

   Il punto di partenza del presente articolo è ben sintetizzato dalle parole lontane nel tempo di Georg Simmel, parole che risuonano, però, estremamente attuali. I due assi su cui si costruisce il contributo sono: da una parte, l’estrema complessità e eterogeneità che caratterizza la popolazione delle persone senza dimora; dall’altra, le conseguenze delle modalità attuate all’interno dei servizi di accoglienza per quel che concerne l’essere in grado o meno di promuovere e garantire lo status di cittadino anche alle persone in condizioni di grave emarginazione sociale. La riflessione è parte di una più ampia ricerca dottorale che analizza i modelli di accoglienza rivolti alle persone senza dimora nella città di Torino, focalizzandosi sul livello dell’attuazione degli interventi e sul ruolo, difficile ma fondamentale, giocato dagli operatori che lavorano a stretto contatto con l’utenza. La realtà torinese, nel panorama nazionale, è considerata un esempio virtuoso. A Torino il settore pubblico mantiene un importante ruolo di coordinamento e le sue politiche di accoglienza sono considerate avanzate. Ovviamente tenuto conto che il livello medio dell’azione pubblica italiana contro le povertà non è certo incoraggiante.

   Partendo dal presupposto che la costruzione dell’identità homeless abbia carattere processuale, l’interrogativo di interesse riguarda il ruolo dei servizi per persone senza dimora nel definire tale identità e – specularmente- quella di cittadini, per i beneficiari. Il contributo si pone in dialogo con la letteratura sul tema e affronta la questione della possibilità di voice (Hirschman, A., 1970, Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and States, Harvard University Press) per una popolazione così vulnerabile. ‹‹Homeless is what I am, not who I am›› (Parsell, C., 2010, Homeless is what I am, not who I am: Insights from an inner city Brisbane Study, in ‹‹Urban policy and Research››).

   La popolazione senza dimora, già molto variegata, in seguito alla crisi del 2008 ha visto aumentare ancora la sua complessità. I numeri delle persone homeless sono in crescita: 2236 persone transitate dai servizi nel 2018 a Torino, a fronte delle 1857 registrate nel 2017. L’interrogativo, che ricorre spesso, è dunque: chi sono le persone homeless? Come si fa a dirlo? Dipende da dove li si incontra, se e come si riesce oppure no a entrare in relazione e da cosa vogliono o non vogliono raccontarci. Esattamente come tutte le persone hanno identità e vite fluide e composite che però scompaiono spesso dietro quell’unica caratteristica. Maschi o femmine o in transizione di genere. Ceto medio impoverito, clochard storici, giovani o vecchi, italiani o stranieri, stranieri anche se italiani e italiani anche se formalmente nati altrove. Da soli, in famiglia, con il proprio cane. In compagnia di sacchi neri, dall’apparenza anonima o elegante. Senza denti. Qualcuno di origine asiatiche. Sardi. Colti o meno. Prostitute, figlie, madri. Donne vittime di violenza, autolesioniste, fuoriuscite da relazioni violente, giovanissime. Famiglie sfrattate, giovani che non sanno cosa fare, migranti in cerca di fortuna, migranti fuoriusciti dagli Sprar, terremotati, persone che vivono in fabbriche abbandonate, cinquantenni che non trovano lavoro e si sentono inutili perché concepiscono la loro identità come interamente basata sul (mancato) ruolo professionale, alcolisti depressi, alcolisti allegri che non sono mai entrati nel mercato ufficiale del lavoro. Queste e molte altre ancora sono le persone che si possono incontrare nelle Case di Ospitalità Notturna (denominazione ufficiale dei dormitori) e per strada.

   Il tema non è dunque tanto chi sono gli homeless, quanto chi decide chi sono? E dove si decide chi sono? Quali conseguenze produce sulle persone il fatto di vedersi attribuire un’identità svalutante che si crea nei servizi in cui devono recarsi? Si tratta di un’identità che prende forma nella dignità negata degli spazi che frequentano. Nelle file che quotidianamente sono tenuti a fare. Negli stereotipi contrapposti che li vogliono pericolosi, devianti, tossicodipendenti, alcolisti e in quelli opposti che li ritraggono come persone buonissime, solidali, ricche di umanità, che in qualche modo dovrebbero riscattare la categoria e che di nuovo producono solo diversi cliché.

   Il problema più generale entro cui si inserisce la presente riflessione è la condizione di disuguaglianza nell’accesso ai diritti di cittadinanza. In accordo con Vincent Dubois (Towards a critical policy etnography. Lessons from fieldwork on welfare control in France, in «Critical Policy Studies», 2009) il livello dell’attuazione degli interventi è quello in cui si esplica anche la funzione di controllo sociale e di consenso delle politiche. A questo livello non solo si giocherebbe la relazione tra istituzione e cittadini, ma, oltre alla trasmissione di prestazioni assistenziali, si negozierebbero anche ruoli e identità.

I servizi cosiddetti a “bassa soglia” – ovvero caratterizzati da un accesso diretto dell’utenza che può recarvisi senza essere inviata da un servizio sociale di riferimento, e con pochissime regole che ne disciplinano l’accesso – rappresentano spesso il primo punto di contatto tra questi cittadini e le istituzioni. Da qui l’importanza di attribuire centralità a quel che accade nell’interazione quotidiana tra operatori, assistenti sociali e beneficiari dei servizi. Osservare l’asimmetria tra i due diversi lati della scrivania vuol dire osservare quali fattori contribuiscono a favorire oppure ostacolare le possibilità di agency delle persone homeless e quali contribuiscono, invece, a creare “l’utente dei servizi di accoglienza”.

   Affermare che nei servizi di accoglienza si contribuisce concretamente alla creazione di un’identità homeless che ingloba tutte le altre caratteristiche della persona, vuol dire, per esempio, evidenziare il fatto che il sistema di aiuti ha tra i suoi requisiti fondanti, la richiesta – rivolta ai potenziali beneficiari – di accettare di essere consegnati al trattamento sociale. Non è contemplata la possibilità che le problematiche riportate dalla persona possano risolversi nella “semplice” mancanza di un’abitazione o delle condizioni materiali per riuscire a mantenere un’abitazione in modo stabile. Attualmente nei servizi non si interviene prioritariamente per sopperire alla mancanza di un’abitazione, bensì si lavora sulle presunte altre problematiche di cui sarebbero portatrici le persone senza dimora. Considerando in qualche modo la persona deficitaria sotto altri punti di vista – relazionale, sociale, comportamentale – si legittima un’accoglienza in soluzioni abitative che non si considererebbero degne se i destinatari fossero altri gruppi di persone e si attuano modalità di intervento maggiormente volte al contrasto di presunte patologie, invece di essere finalizzate al superamento della mancanza di un’abitazione. È, dunque, il tipo di accoglienza prevista per essere temporanea, ghettizzante, paternalistica che costituisce l’identità homeless e che influenza le loro possibilità di essere riconosciuti a pieno titolo come cittadini oppure no.

   Durante la ricerca “sul campo” ho potuto osservare il ruolo degli operatori sociali che lavorano a stretto contatto con l’utenza, le difficoltà e i dilemmi quotidiani a cui sono esposti. Mediante l’esercizio della discrezionalità professionale, concetto chiave nella mia ricerca, si ritagliano dei margini di manovra per riuscire a rispondere alle esigenze delle persone che hanno di fronte. Interpretano le regole, propongono delle deroghe, valutano – tra le alternative disponibili – la più opportuna; questi sono alcuni tra gli aspetti positivi. Si tratta, infatti, di un concetto che nella letteratura di riferimento viene descritto da alcuni studiosi come positivo, da altri come negativo, mentre altri ancora ne mettono in luce l’ambivalenza. I risultati della ricerca consentono di affermare che si tratti di un concetto ambivalente ma soprattutto ineliminabile in professioni di questo tipo. Gli aspetti negativi possono, invece, essere rappresentati da discriminazioni di trattamento, poca disponibilità nel far rispettare i diritti delle persone estremamente vulnerabili con cui gli operatori lavorano, mancata considerazione delle esigenze degli utenti e dalla prassi di “scaricare” i malfunzionamenti delle organizzazioni o – ancora a monte, delle politiche di accoglienza – sugli utenti finali, invece di stabilire alleanze per ottenere miglioramenti. Il ruolo dei frontline workers è determinante nello stabilire chi ottiene cosa e per quanto tempo. Allo stesso tempo è essenziale ai fini del controllo sociale, per garantire la regolare quotidianità delle Case di Ospitalità Notturna e degli sportelli di accoglienza. Questi lavoratori e lavoratrici si trovano in un ruolo delicato e pieno di contraddizioni: devono rispondere alle richieste dei loro enti di appartenenza, vogliono garantirsi la maggior tranquillità possibile durante l’orario lavorativo, evitare le tensioni, devono rispondere alla committenza, e allo stesso tempo da loro ci si aspetta che provino empatia per le storie di vita dei beneficiari degli aiuti e che si adoperino per aiutarli sapendo effettuare le valutazioni adatte.

   La ricerca evidenzia l’importanza di conoscere in profondità la realtà delle persone senza dimora e, parallelamente, il funzionamento dei servizi di accoglienza al fine di dotarsi di nuovi strumenti analitici. Per comprendere appieno l’esperienza che le persone vivono bisogna, dunque, conoscere il sistema di accoglienza in cui sono inseriti. Non certo come soggetti passivi, hanno desideri, aspirazioni e attuano diverse strategie per far fronte alla loro situazione, ma nel porre l’accento sulla loro capacità di agency non bisogna sottovalutare il peso dei fattori strutturali, come l’organizzazione del sistema di welfare, nel determinare la loro condizione. Da un punto di vista sociologico significa mettere in relazione le traiettorie di vita e lavorative degli operatori, le norme che orientano il loro lavoro ma anche le differenti pratiche che mettono in atto e il significato che queste assumono. A questo fine è stata necessaria l’osservazione prolungata nei contesti di interesse, le interviste in profondità con i social workers, le persone senza dimora e i policymakers e l’utilizzo della tecnica delle vignette strumento utilizzato ai fini di ricostruire la cultura organizzativa nonché attitudini valori e atteggiamenti degli intervistati.

   I risultati mostrano come il processo di creazione delle identità sia legato al contesto di attuazione delle politiche. Concepire le esistenze delle persone homeless esclusivamente per ‹‹sottrazione›› (Porcellana, V., 2016, Dal bisogno al desiderio. Antropologia dei servizi per adulti in difficoltà e senza dimora a Torino, FrancoAngeli.) invece di partire dai bisogni e desideri che manifestano, o dalle loro risorse, vuol dire “creare” homeless. Solo un ridotto numero sarà, infatti, in grado di rispondere alle richieste di un sistema standardizzato e di seguire il percorso prestabilito per fuoriuscire dall’homelessness. Per tutti gli altri vi è la permanenza nel circuito di accoglienza o l’allontanamento dai servizi e la vita in strada. Partire dalla casa come previsto dall’approccio Housing First potrebbe, per esempio, consentire di ribaltare alcuni dei meccanismi descritti.

   Sebbene “sulla carta” il mandato ufficiale proponga, tra gli obiettivi da raggiungere, la promozione dell’autonomia delle persone, la re-inclusione, la fuoriuscita dall’homelessness; le contraddizioni che accompagnano il processo di policymaking e le difficoltà strutturali rendono difficile la loro realizzazione. Nella pratica quotidiana – per vari motivi che in questo articolo sono impossibili da elencare e discutere, e per cui rimando alla tesi dottorale – gli operatori a contatto con l’utenza si trovano a lavorare in un contesto molto difficile, caratterizzato da logiche di tipo emergenziale, indicazioni contrastanti, risorse insufficienti.

   In questo scenario, la ricerca evidenzia il ruolo fondamentale costituito dalla relazione tra utenti, assistenti e operatori sociali che, mediante l’esercizio della discrezionalità professionale, possono operare degli aggiustamenti, costruire e ricostruire informalmente le norme, fungere da aiuto prezioso per il riconoscimento del loro status di cittadini oppure ostacolarlo. Questo aspetto solitamente viene sottovalutato considerando, a torto, i frontline workers come semplici esecutori e troppo spesso, nell’analizzare le politiche, quel che avviene sul livello dell’implementazione viene erroneamente tralasciato; al contrario, è fondamentale per comprendere il funzionamento delle organizzazioni.

Schede e storico autori