Divari di genere nelle retribuzioni: dai “pavimenti appiccicosi” ai “soffitti di cristallo” passando per gli stereotipi

Eleonora Romano si occupa di divari retributivi di genere esaminando un recente studio dell’Ocse che indica le politiche per ridurli lungo il ciclo di vita, in diversi contesti culturali. Pur condividendo tali indicazioni, Romano invita ad analizzare i divari retributivi nel quadro delle disuguaglianze di genere che caratterizzano ogni ambito della nostra organizzazione sociale e che derivano da radicati stereotipi. La parità di genere richiede un approccio trasversale che favorisca una revisione radicale del funzionamento della società.

Il principio della parità retributiva tra uomini e donne è ampiamente riconosciuto dal punto di vista formale e normativo ma fatica a tradursi in realtà, pertanto rimane di grande attualità il dibattito sulle policy che potrebbero favorirne la realizzazione. I divari retributivi tra uomini e donne sono fortemente interrelati con altri divari di genere: la minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, il loro raro accesso a posizioni di responsabilità (segregazione verticale) e la loro scarsa presenza in settori caratterizzati da retribuzioni migliori (segregazione orizzontale). Allo stesso tempo, nonostante innegabili progressi, è ancora forte lo svantaggio delle donne in termini di disuguaglianze nel lavoro non retribuito di cura: (si veda il Rapporto BES 2020 dell’Istat, pag. 20). Tutti questi elementi, inoltre, sono influenzati da norme sociali e stereotipi sui ruoli, che possono dar luogo a discriminazioni sul mercato del lavoro. Per agire in modo tempestivo contro un oramai plausibile peggioramento dei divari di genere (tra cui quello retributivo) dovuto alla crisi del Covid-19, è allora necessario predisporre un appropriato mix di policy.

Scopo di un recente studio dell’Ocse (Ciminelli et.al. 2021, “Sticky floors or glass ceilings? The role of human capital, working time flexibility and discrimination in the gender wage gap”) è proprio identificare le politiche più efficaci a scardinare i complessi meccanismi che, nei diversi contesti nazionali, alimentano il gender wage gap (differenza percentuale tra la retribuzione oraria di uomini e donne rapportata a quella maschile). Lo studio dell’Ocse esamina 25 Paesi europei (suddivisi in Paesi nordici e occidentali, dell’Europa del Sud, dell’Europa Centrale e dell’Est) e mostra che le differenze nell’entità del gender wage gap (in media intorno al 15%) sono contenute ma le differenze di composizione sono rilevanti. Nei Paesi nordici e occidentali i tassi di occupazione femminili sono relativamente alti grazie a un massiccio ricorso al part-time, che spinge verso il basso i salari femminili; nei Paesi dell’Europa del Sud le donne più di frequente scelgono di lavorare a tempo pieno o di non lavorare affatto, il che si associa a bassi tassi di occupazione oltre che a una selezione nella forza lavoro di donne con salari relativamente più alti; nei Paesi dell’Europa Centrale e dell’Est i gender gap occupazionali e salariali sono più contenuti.

L’analisi econometrica si basa su un impianto teorico riferito a tre principali determinanti: 1) le discriminazioni di genere; 2) i divari salariali legati a caratteristiche non monetarie del lavoro (compensating wage differentials); 3) la (più) lenta accumulazione di capitale umano da parte delle donne nel corso della carriera.

Il primo gruppo di spiegazioni include comportamenti discriminatori dei datori di lavoro dovuti a pregiudizi sulla minore produttività delle donne, legati sia a credenze sulla loro minore disponibilità agli spostamenti sia all’anticipazione di una loro ridotta presenza sul lavoro dovuta ad eventuali maternità. Questi fattori sono alla base dei cosiddetti “pavimenti appiccicosi” (sticky floors) che ostacolano mobilità e progressi di carriera delle donne, segregandole spesso in settori e occupazioni meno remunerativi.

Il secondo gruppo di determinanti si riferisce alla tendenza delle donne ad accettare impieghi con bassi salari in cambio di condizioni non monetarie funzionali alla conciliazione vita-lavoro (alta flessibilità oraria, minore tempo per gli spostamenti casa-lavoro). Fattori di questo tipo sono fortemente legati alla cosiddetta child penalty, il costo sul mercato del lavoro della nascita di un figlio. Il fenomeno è ampiamente diffuso in tutti i Paesi sviluppati, persino in quelli che hanno raggiunto notevoli traguardi in tema di parità di genere, colpisce le madri ma non i padri e persiste per molti anni dopo la nascita del primo figlio. Ad esempio, secondo un recente studio sull’Italia di Casarico e Lattanzio, a 15 anni dalla nascita del primo figlio i salari annuali delle madri crescono del 57% in meno rispetto a quelli delle non madri e circa il 68% di tale penalità è attribuibile a una riduzione dell’offerta di lavoro (il 20% al passaggio al part-time e il 12% a minori salari settimanali tempo pieno equivalenti).

Il terzo gruppo di fattori, fortemente connesso con il precedente, riguarda le minori possibilità di avanzamento di carriera delle donne associate alla più lenta accumulazione di capitale umano, derivante da carriere intermittenti e minor tempo trascorso sul posto di lavoro. Si tratta del famoso “soffitto di cristallo”(glass ceiling) ovvero la segregazione verticale che impedisce alle donne di accedere alle posizioni più remunerative.

Il contributo originale dello studio dell’Ocse consiste nel tentativo di analizzare questi tre gruppi di determinanti del gender wage gap all’interno di un contesto teorico unitario, in cui ciascuna determinante agisce con modalità specifiche nelle diverse fasi del ciclo di vita (Figura 1). Specificamente, le penalizzazioni salariali legate a discriminazioni e norme sociali si manifestano sin dall’ ingresso nel mercato del lavoro, prima della nascita di un eventuale figlio (D nella Figura 1): si tratta di una fase della vita in cui gli stereotipi di genere possono influenzare gli investimenti in capitale umano, le scelte di carriera e i meccanismi di ingresso nel mercato del lavoro. Diversamente, le determinanti collegate alla tendenza delle donne ad accettare riduzioni di salario a fronte di soluzioni lavorative più flessibili cominciano a dispiegare i propri effetti con la nascita del primo figlio, quando si manifesta la child penalty, che si traduce in una penalizzazione permanente che si somma a quella della precedente fase di vita (CD nella Figura 1). Da ultimo, si assume che la più lenta accumulazione di capitale umano legata alle accresciute responsabilità di cura familiari successivamente alla nascita del primo figlio (cui spesso si aggiungono responsabilità di assistenza a familiari anziani; in proposito, si parla di sandwich generation) determini un progressivo ampliamento del divario salariale tra uomini e donne nel corso di tutta la carriera, che si somma alle precedenti penalizzazioni salariali (SH nella Figura 1).

Figura 1. Determinanti del gender wage gap nel ciclo di vita

Fonte: Ciminelli et al. (2021)

Dal punto di vista empirico è complicato scomporre in modo puntuale il gender wage gap complessivo secondo questo schema teorico. Ad esempio, le donne potrebbero scegliere impieghi in settori a più basse retribuzioni ma con più favorevoli condizioni non monetarie anche prima della nascita di un figlio oppure potrebbero subire discriminazioni negli avanzamenti di carriera in qualsiasi fase del ciclo di vita o, ancora, potrebbero accelerare l’accumulazione di capitale umano una volta superata la fase più critica di cura dei figli in età prescolare. Al fine di ottenere risultati più precisi, all’approccio del ciclo di vita viene affiancato un approccio complementare, che mette direttamente in relazione i differenziali salariali con caratteristiche dei lavoratori e delle occupazioni direttamente osservabili nei dati, considerate determinanti “più prossime” del gender wage gap (come il lavoro part-time, il settore di attività economica e il tipo di occupazione).

Nel complesso, risulta che l’effetto “soffitto di cristallo”, collegato a child penalty e lenta accumulazione di capitale umano, contribuisce a circa il 60% del gender wage gap, mentre l’effetto “pavimento appiccicoso” spiegherebbe il restante 40%. Tuttavia, le differenze tra gruppi di Paesi sono rilevanti: il primo effetto spiegherebbe il 75% del divario nei Paesi nordici e occidentali, il 70% nei Paesi dell’Europa del Sud e solo il 40% nei Paesi dell’Europa Centrale e dell’Est. In particolare, nei primi due gruppi di Paesi le differenze salariali sembrano intensificarsi proprio nell’età fertile (nei Paesi nordici e occidentali tale evidenza è coerente anche col fatto che circa il 20% del gender wage gap è spiegato dall’orario di lavoro). D’altra parte, appare rilevante il peso di discriminazioni e norme sociali nei Paesi dell’Europa Centrale e dell’Est (60%) e nei Paesi dell’Europa del Sud (30%).

Per aggredire i differenziali retributivi di genere nei diversi Paesi il suggerimento è di non adottare un approccio one-size-fits-all. Laddove è più forte il ruolo del “soffitto di cristallo” sembra opportuno dare priorità a soluzioni di lavoro flessibili sia per le donne che per gli uomini, attraverso maggiori investimenti nelle tecnologie digitali e nello sviluppo delle capacità manageriali necessarie alla riorganizzazione del lavoro. Tuttavia, affinché il lavoro flessibile non sia di ostacolo alla progressione di carriera delle donne è indispensabile accompagnarne la diffusione con altre misure, come il rafforzamento dei servizi di cura per la prima infanzia (in termini di disponibilità e gratuità di accesso) e l’armonizzazione dei congedi tra donne e uomini (obbligatori e non trasferibili soprattutto dove i ruoli di genere sono più radicati).

Quando invece discriminazioni e norme sociali giocano un ruolo più importante sono necessarie azioni di policy addizionali: oltre a interventi nel campo dell’istruzione e della comunicazione, previsioni normative, come quelle sulla trasparenza retributiva (in Italia disciplinata dall’art. 46 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, attualmente oggetto di proposte di modifica in discussione in Parlamento) e sui salari minimi.

A margine delle condivisibili indicazioni di policy contenute nello studio dell’Ocse per contrastare il gender wage gap, vorrei proporre una riflessione che inquadra i pur rilevantissimi divari retributivi nel più ampio contesto delle diseguaglianze di genere. Per ridurre queste ultime spesso si afferma che è necessario aumentare la presenza delle donne sul mercato del lavoro. Tuttavia, come argomentato in un precedente articolo del Menabò la possibilità per le donne di dedicare più tempo al lavoro retribuito non è indipendente da quello che succede agli uomini: il punto non è l’ascesa delle donne verso il lavoro retribuito ma un “ricongiungimento dei generi”, che metta in discussione la tradizionale visione per cui gli uomini sono deputati alla vita pubblica e le donne a quella privata. In proposito, la crisi del Covid-19 ha mostrato la fragilità di un’architettura dell’uguaglianza di genere non basata sulla condivisione delle responsabilità relative ad entrambe le sfere della vita, in assenza di servizi adeguati di cura per l’infanzia e, più in generale, per le persone non autosufficienti. Le prevedibili conseguenze di questa situazione sono state un sovraccarico di lavoro per le donne che hanno potuto svolgere il lavoro retribuito da remoto (in uno spazio-tempo che è stato lo stesso delle responsabilità di cura) o la riduzione (e nei casi più estremi l’abbandono) del lavoro retribuito fuori casa (si veda, ad esempio, nell’allegato BES al DEF 2021, pagg. 69-74, il peggioramento dell’indicatore di occupazione relativa delle madri in Italia nell’ultimo anno). Si potrebbe poi obiettare che “soffitti di cristallo” e “pavimenti appiccicosi” siano il risultato di scelte che riflettono preferenze (trascorrere più tempo coi figli) e abilità (maggiore propensione per la cura), come suggerirebbero le convinzioni sui ruoli di genere di molti italiani (uomini e donne). Sembra invece ben più convincente che certe preferenze e abilità non siano innate ma endogene, ovvero indotte da quegli stereotipi sui ruoli di genere che Marianne Bertrand definisce “appiccicosi” nella sua interessante Richard T. Ely Lecture 2020.

In conclusione, le disparità di genere sono ampie e pervasive proprio perché derivano da elementi culturali e stereotipi fortemente radicati in ogni ambito della nostra organizzazione sociale. Dal punto di vista di policy, è necessario evitare di confondere il piano della parità di genere con interventi che confinano le donne in un ruolo stereotipato (come decontribuzioni per incentivare l’assunzione di donne considerate altrimenti “meno convenienti” degli uomini perché più propense alle responsabilità di cura) e volgere invece l’attenzione a politiche strutturali basate su una radicale revisione del funzionamento della nostra società. Al riguardo, il cosiddetto gender mainstreaming delle politiche pubbliche, che si basa proprio sulla consapevolezza che la trasversalità è una caratteristica essenziale della parità di genere, si configura come presupposto necessario per superare politiche frammentarie e occasionali, che a lungo andare non risolvono le disparità di genere e possono persino aggravarle.

*  Le opinioni espresse sono personali e non coinvolgono l’istituzione di appartenenza.

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