Disuguaglianze, equità e fisco (prima parte)

Vieri Ceriani prende spunto dalla lettera di Milton Friedman contro le imposte di successione pubblicata sullo scorso Menabò e sostiene il ruolo di queste ultime come correttivo alla disuguaglianza nelle condizioni di partenza. Argomenta anche che in Italia bisognerebbe non istituire un patrimoniale personale progressiva à la Piketty ma migliorare le imposte patrimoniali reali esistenti e il loro coordinamento con le imposte sui trasferimenti di ricchezza. Occorrerebbe altresì rivedere il trattamento dell’abitazione principale e riformare il catasto.

Le problematiche della concentrazione del reddito e della ricchezza, delle (dis)pari opportunità, delle disuguali condizioni di accesso al lavoro si sono accentuate negli ultimi decenni e necessitano di correttivi, in primo luogo con politiche attive che intervengano anche sulla distribuzione primaria del reddito e della ricchezza, come è stato posto bene in evidenza sul Menabò e dalle proposte del Forum Disuguaglianze e Diversità. Ma ovviamente anche la re-distribuzione del reddito ha un ruolo importante: la spesa pubblica per il welfare e il fisco cambiano la distribuzione primaria, in modi incisivi.

Trattiamo qui il ruolo del fisco nella redistribuzione del reddito e della ricchezza. In sintesi, si esprime l’opinione che, riguardo alla ricchezza, si dovrebbero migliorare le imposte patrimoniali reali oggi esistenti e coordinarle meglio con le imposte sui trasferimenti, sia tra vivi che per causa di morte, evitando però l’imposta patrimoniale personale progressiva. Riguardo alle imposte sul reddito, si ritiene prioritario aggredire l’evasione e l’erosione (cioè, le esenzioni e i trattamenti fiscali preferenziali). In questo articolo affronterò il tema dell’imposta patrimoniale; tratterò dell’evasione e dell’erosione sul prossimo numero del Menabò.

Può essere utile, per affrontare il tema dell’imposizione patrimoniale, riprendere le considerazioni esposte nell’articolo di commento alla lettera di Milton Friedman contro le imposte di successione pubblicata sullo scorso Menabò.

L’argomento principale di Friedman è che l’imposta sulle successioni incoraggia il dante causa a “sperperare” il suo patrimonio per evitare l’imposta. “Spendi i tuoi soldi scialacquando”. Questo è il messaggio dell’imposta. Che sarebbe addirittura immorale perché “tassa la virtù: vivere frugalmente e accumulare ricchezza. Scoraggia il risparmio e l’accumulazione di patrimonio e incoraggia le spese voluttuarie.” Frenerebbe dunque la crescita.

La redazione di Menabò ha sollevato una serie di obiezioni, tutte condivisibili. Mi piace ricordare quella che mette in dubbio che il motore della crescita sia il risparmio: non sembra proprio che l’economia a livello mondiale soffra oggi di carenza di risparmio, semmai soffre di carenza di domanda. Segnalo che la costante e forte crescita dell’economia americana negli ultimi due decenni è stata accompagnata da un disavanzo strutturale delle famiglie, che anziché risparmiare si indebitano. Quindi con un modello di crescita consumption-led, diverso dal modello export-led europeo (e in particolare tedesco). In Europa le famiglie risparmiano. Ma il tasso di crescita da noi è stato ben inferiore a quello americano.

Credo però che meriti considerazione un’altra obiezione, che va alle radici dell’argomento friedmaniano. L’aspettativa di una buona eredità potrebbe spingere il futuro erede a una vita “immorale”, dispendiosa e scialaquona (eventualmente anche contraendo debiti “a babbo morto”). E’ una critica “interna” al ragionamento di Friedman, che riprende le sue stesse argomentazioni.

Non basta considerare il comportamento del dante causa, occorre considerare anche quello dell’erede. Emerge allora l’effetto Carnegie, dal nome del ricchissimo filantropo Andrew Carnegie che osservò che il genitore che lascia a suo figlio un’enorme ricchezza generalmente uccide il talento e le energie del figlio, e lo tenta a condurre una vita meno utile e virtuosa di quella che avrebbe altrimenti condotta.

Gli argomenti che tassare l’eredità stimola l’iniziativa degli eredi e la crescita economica, che è equo tassare una ricchezza non prodotta più di una ricchezza frutto di sforzo lavorativo, che è opportuno ridurre le disuguaglianze nelle opportunità sono principi che si ritrovano già in Stuart Mill e sono radicati nella tradizione del pensiero liberale tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento. In sintonia con la guerra di classe della operosa borghesia emergente, dedita al commercio e all’industria, contro gli oziosi rentiers della nobiltà assenteista e latifondista. Ma fondato anche su un’analisi economica rigorosa, di impronta strettamente neo-classica, in cui la funzione di utilità comprendeva l’inattività (“ozio”) tra le variabili determinanti.

Questi principi hanno resistito fino a tempi recenti. Ad esempio, nel 1978 il rapporto Meade (IFS, The Structure and Reform of Direct Taxation, Allen and Unwin, p. 318) affermava che la ricchezza ereditata è generalmente considerata – e noi condividiamo questo punto di vista – appropriata per una tassazione più elevata sulla base di principi sia di equità che di incentivi economici. Il cittadino che con il suo sforzo e la sua iniziativa ha costruito una fortuna merita un trattamento fiscale migliore del cittadino che, come risultato della sola fortuna alla nascita, possiede un’uguale ricchezza; e tassare il primo più lievemente del secondo porrà meno ostacoli allo sforzo lavorativo e all’iniziativa economica.

Ancora nel 2011 il successivo rapporto Mirlees (IFS, Tax by Design, Oxford University Press, p. 357) affermava la validità della tassazione dei trasferimenti di ricchezza come parte di una politica generale volta a ridurre le disuguaglianze nelle opportunità.

L’argomento friedmaniano della doppia tassazione della ricchezza trasmessa, che origina da redditi già tassati, non è molto cogente. Che dire allora della doppia tassazione del consumo, tassato con IVA e accise, che origina da redditi già tassati con le imposte dirette? I sistemi tributari sono caratterizzati da doppie tassazioni.

L’unico argomento condivisibile di Friedman è che le grandi ricchezze riescono a evitare l’imposta di successione tramite occultamenti e tax planning.

Ma l’argomento fondamentale è la “immoralità” della tassa di successione. Cui si contrappone, come visto, l’argomento opposto della “immoralità” di mandare esenti ricchezze ottenute senza sforzo alcuno, mentre si tassano i redditi prodotti con sforzo, e di rinunciare a qualsiasi correttivo delle disuguaglianze nelle opportunità.

Considerazioni analoghe a quelle sull’imposta sulle successioni possono valere anche per l’imposta ordinaria sul patrimonio.

In Italia la riforma fiscale dei primi anni settanta, nota come riforma Cosciani dal nome del suo ispiratore, avrebbe dovuto affiancare alle imposte sui redditi un’imposta patrimoniale ordinaria proporzionale sui valori effettivi dei cespiti mobiliari e immobiliari, questi ultimi normalizzati su valori medi ordinari. Si intendeva così attuare la cosiddetta discriminazione qualitativa dei redditi: si riteneva infatti che il possesso di un patrimonio fosse un fattore aggiuntivo di capacità contributiva, perché capace di produrre reddito senza richiedere alcuno sforzo lavorativo e di dare sicurezza, prestigio e status sociale al possessore. Tassare di più il capitale era ritenuto anche funzionale per accrescere l’efficienza del sistema produttivo, perché favorisce l’attività lavorativa e imprenditoriale e penalizza l’inattività. La discriminazione qualitativa fu poi attuata non con la patrimoniale, ma con l’ILOR, un’imposta sui redditi diversi da quelli da lavoro, poi abolita nel 1998 con la riforma Visco.

Nel 1993 fu istituita l’ICI, imposta comunale patrimoniale ordinaria proporzionale sul valore catastale degli immobili, poi trasformata in IMU. Qualche forma di imposta patrimoniale sugli immobili è comune a quasi tutti i paesi. Meno comune è la patrimoniale sulle attività finanziarie, istituita nel 2012 dal governo Monti con il decreto Salva-Italia.

Oggi in Italia il patrimonio è tassato con due imposte reali che gravano sulle forme principali di detenzione della ricchezza: gli immobili soggetti a IMU-TASI auto-dichiarata e auto-versata; le attività finanziarie soggette a prelievi alla fonte, sotto forma di imposta di bollo.

E’ nel dibattito corrente la proposta di istituire una patrimoniale personale e progressiva, à la Piketty (T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014). La proposta è stata ripresa più volte nel nostro paese: da ultimo da Vincenzo Visco (Promemoria per una riforma fiscale, in Politica Economica – Journal of Economic Policy, Il Mulino, 2019). La patrimoniale personale progressiva potrebbe essere aggiuntiva rispetto alle patrimoniali reali in vigore o potrebbe sostituirle. E’ aggiuntiva nel sistema francese, l’unico che l’ha adottata, o meglio la adottava fino alla recente soppressione, ma limitata alle “grandi fortune” e basata sul patrimonio familiare, non quello individuale.

Vari motivi suggeriscono di mantenere il sistema attuale e non muovere verso la patrimoniale personale progressiva. Quest’ultima infatti potrebbe facilmente essere elusa frazionando la ricchezza tra i membri della famiglia (non a caso il sistema francese tassava il patrimonio familiare) ma soprattutto ricorrendo all’estero-vestizione e a schermi soggettivi (società di capitali, trust, ecc.). Va considerato che i recenti accordi internazionali sullo scambio di informazioni tra amministrazioni fiscali non coprono tutti i paesi e hanno ad oggetto i redditi, non i patrimoni. E che, non a caso, Piketty ha proposto la patrimoniale come soluzione mondiale, non come imposta nazionale.

Tassare alla stessa aliquota i redditi immobiliari e quelli finanziari significa inoltre trascurare che le due basi imponibili sono molto diverse quanto a mobilità e capacità di elusione e|o evasione. Riguardo alla progressività, la ricchezza è più concentrata del reddito, quindi patrimoniali proporzionali già assolvono alla funzione redistributiva “verticale”.

Inoltre la patrimoniale sugli immobili svolge l’importante funzione di dotare i Comuni di una fonte rilevante di entrate su cui possono esercitare la loro autonomia. Il passaggio a un’imposta personale progressiva implica il passaggio da imposte locali a una singola imposta erariale. Appare molto, troppo complesso escogitare una ripartizione territoriale della base imponibile erariale funzionale a mantenere l’autonomia finanziaria dei Comuni.

Sembra quindi preferibile mantenere il sistema attuale di patrimoniali reali, rivedendolo dove necessario. In particolare, l’attuale regime IMU-TASI crea disomogeneità forti ed eccessive tra l’abitazione principale e gli altri immobili. L’esenzione dell’abitazione principale, in cui risiede il proprietario, è un’anomalia italiana nel panorama internazionale. Forse il nostro paese è l’antesignano di una modalità nuova di tassare le abitazioni, che si diffonderà in futuro. Ma per ora, tra i paesi che hanno una patrimoniale sugli immobili, risulta che solo altri quattro esentino l’abitazione occupata dal proprietario: Mongolia, Niger, Repubblica del Congo e Yemen. Occorrerebbe istituire una forma di partecipazione al finanziamento dei servizi comunali anche per chi risiede nella casa di proprietà. È illogico che il possessore dell’abitazione in cui vive paghi al proprio Comune solo la tassa sui rifiuti e non partecipi al costo degli altri servizi. È saltato il principio «pago, vedo, voto», fondamento del federalismo responsabile.

Appare soprattutto necessario rivedere il catasto urbano, oggi fortemente sperequato rispetto ai valori di mercato e oggetto di aggiornamenti “a macchia di leopardo” da parte di singoli Comuni. Il complesso delle rendite catastali su base nazionale dovrebbe rimanere invariato, ma il divario tra rendite e valori di mercato dovrebbe essere uniformato tra le diverse aree, tra quartieri centrali “vecchi” e periferie “nuove”. Il processo di riforma del catasto, previsto dalla delega Monti, era pronto ma è stato accantonato dal governo Renzi.

Il sistema delle imposte patrimoniali reali ordinarie dovrebbe comunque essere meglio coordinato con quello delle imposte sui trasferimenti di ricchezza: imposte di registro, ipotecarie e catastali, sulle successioni e donazioni. E tutti questi tributi potrebbero essere meglio coordinati con le imposte sui redditi, da cui sono in alcuni casi deducibili, ma in misura diversa e parziale. I trasferimenti onerosi di ricchezza tra vivi non dovrebbero essere tassati, se non in misura molto ridotta tale da configurarsi come corrispettivo del servizio di pubblicità degli atti e della proprietà.

L’imposta sulle successioni e donazioni merita attenta e specifica riflessione, riguardo alla funzione di redistribuzione intergenerazionale della ricchezza e di tutela della parità di condizioni economiche iniziali. Si potrebbe immaginare di destinare parte del gettito dell’imposta a finanziare dotazioni di capitale universalistiche per i giovani. Si potrebbero anche immaginare attenuazioni dell’imposta sulle donazioni ai figli volte a favorire il trasferimento della ricchezza pre-morte, e a riduzioni d’imposta per donazioni e lasciti a fondazioni, enti di ricerca, musei, onlus, ecc.

In conclusione, la tassazione del patrimonio, ordinaria e per trasferimento causa morte, risponde a obiettivi di equità e di efficienza. Le imposte oggi esistenti in Italia vanno riviste e meglio coordinate, ma non certo abolite. Non è opportuno istituire una patrimoniale personale progressiva.

Nel prossimo numero del Menabò affronterò il tema dell’evasione e dell’erosione.

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