Disuguaglianze e ….accesso ai servizi

L’articolo si concentra sulle crescenti difficoltà che incontra l’eguaglianza nell’accesso ai servizi. Tali difficoltà sono dovute più che a un esplicito ridimensionamento del ruolo del pubblico a varie circostanze “indirette”: il sotto-finanziamento, l’assenza di una strategia complessiva di qualificazione dell’intervento pubblico e la diffusione della “cultura” di insostenibilità della spesa. Queste tendenze non sono ineluttabili e possono essere contrastate da opportune politiche.

Garantire a tutti l’uguaglianza nell’accesso a un insieme di servizi fondamentali è stata una potente idea guida che ha mosso lo sviluppo dello stato sociale del dopoguerra. Militavano a favore di questa posizione diverse ragioni, fra cui, centrale era il riconoscimento che qualsiasi sia il nostro piano di vita e qualsiasi siano le nostre dotazioni di reddito e ricchezza, tutti necessitiamo di un insieme di opportunità di base che solo i servizi sono in grado di garantire. L’accesso ai servizi, in altri termini, è componente essenziale dei diritti di cittadinanza.

Limitarsi a trasferire reddito, per quanto importante, sarebbe del tutto insufficiente. Da un lato, è impossibile differenziare i trasferimenti monetari in modo da dare esattamente nella misura dei bisogni di ciascuno, evitando il rischio di dare troppo poco a alcuni e troppo a altri. Dall’altro lato, solo i servizi permettono di offrire la medesima infrastruttura di opportunità a tutti i componenti della collettività, così realizzando la comune uguaglianza. I servizi rappresentano, dunque, una forma di proprietà comune che rafforza la libertà individuale di tutti: universalizzano, in altri termini, i diritti di libertà tipicamente associati alla proprietà privata. Ancora, nei servizi comuni, i diversi s’incontrano, interagendo gli uni con gli altri da una posizione di uguaglianza. A ciò si aggiungono ragioni di efficienza: con l’intervento pubblico si evitano, ad esempio, le inefficienze dei mercati assicurativi in ambito pensionistico, di tutela dalla disoccupazione e sanitario.

L’uguaglianza nell’accesso ai servizi sta subendo sempre più attacchi in questi ultimi decenni. I cambiamenti raramente hanno preso la forma di un arretramento esplicito delle responsabilità affidate al pubblico. Al contrario, le vie sono state (e sono) quelle più indirette del sotto-finanziamento, dell’assenza di una strategia complessiva di qualificazione dell’intervento pubblico (tanto più centrale, quanto più il vincolo delle risorse si fa stringente) e della diffusione di una “cultura” dell’insostenibilità della spesa come si è già sostenuto sul Menabò.

Iniziando dal finanziamento, i dati Ocse certamente segnalano un incremento della spesa sanitaria pubblica pro capite: tale spesa era 2354 dollari (PPP) nel 2008 ed è 2622 dollari (PPE) nel 2016 (Oecd Health Data). Ciò nondimeno, nel 2016, per Gran Bretagna, Francia e Germania il valore equivalente era rispettivamente 3341, 4068 e 4606.

Similmente, la spesa per interventi sociali è leggermente risalita negli ultimi anni, dopo il calo subito nel triennio 2011-2014. Il suo livello rimane, tuttavia, tra i più bassi in Europa, attorno allo 0,4% del PIL. In valore assoluto, come si è già sostenuto sul Menabò, essa si aggira attorno ai 1.450 euro pro capite per tutte le altre prestazioni sociali, un dato inferiore di 800 euro alla media UE-15 e di 500 euro alla media EU-28 (il dato concerne il 2015, ma l’entità del divario resta immutata). Il potenziamento della componente di trasferimento monetario operata dal Reddito di Cittadinanza rischia poi di indebolire il pur timido rafforzamento della spesa dedicata ai servizi previsto dal REI. La distribuzione della spesa per interventi sociali, inoltre, è fortemente sperequata. Come osserva l’ultima relazione dell’Istat sulla spesa dei comuni per i servizi sociali, a fronte di una spesa di 22 euro della Calabria abbiamo una spesa di 517 della Provincia Autonoma di Bolzano Peraltro Sud risiede il 23% della popolazione complessiva, ma viene speso solo il 10% delle risorse destinate ai servizi socio-assistenziali. Il che segnala un potente effetto di San Matteo. Chi sta peggio riceve di meno di chi sta meglio. Inoltre, negli ultimi quindici anni, sono diminuite le risorse dedicate ai servizi per gli anziani, nonostante l’aumento nel numero degli anziani. A quest’ultimo riguardo, è vero che la povertà fra gli anziani è diminuita, ma un conto è il dato reddituale un altro è quello dell’accesso ai servizi. Un anziano con un reddito appena superiore alla soglia di povertà europea (attualmente 825 euro) si troverebbe in condizioni economiche assai precarie qualora dovesse acquistare privatamente servizi di cura.

Passando all’assenza di una strategia complessiva di qualificazione dell’intervento pubblico, i punti critici riguardano i sentieri intrapresi dell’esternalizzazione dei servizi (basti pensare ai tanti infermieri condannati a doppi turni), della precarizzazione dei rapporti di lavoro anche nel pubblico, dell’accettazione d’integrazioni fra lavoro pubblico e lavoro privato, nella totale sottovalutazione dei conflitti d’interesse, nonché nel ricorso, per i dirigenti apicali, a sistemi di remunerazione che mimano il mercato senza però prevedere le ‘sanzioni’ che irrogherebbe un mercato ben funzionante. E, comunque, troppo poca attenzione è stata rivolta ai rischi di comportamenti opportunistici che le remunerazioni incentivanti possono indurre quando la qualità delle prestazioni investe molteplici dimensioni, non tutte osservabili, e la cooperazione è cruciale ai fini della qualità dei servizi. Incentivi finanziari limitati a dimensioni osservabili, quali i tempi di visita dei pazienti, implicano ad esempio, il rischio di disattenzione alle dimensioni dell’ascolto sul quale il Menabò ha già richiamato l’attenzione.

Al disinvestimento nella qualificazione dei servizi pubblici ha contribuito anche la diffusione di una “cultura” dell’insostenibilità della spesa pubblica: perché investire in un settore che, in ogni caso, non è ritenuto in grado di rispondere alle domande della popolazione? Tale cultura, ha, altresì, favorito il diffondersi di agevolazioni al welfare aziendale quale stampella del welfare pubblico. Basti pensare al rafforzamento delle agevolazioni al welfare aziendale realizzatosi in questi anni. Gli incrementi di stipendio erogati sotto forma di premi di produttività – nel limite di 3500 euro o 4000 euro in presenza di coinvolgimento paritetico dei lavoratori e utilizzabili fino a una soglia di reddito da lavoro pari a 80.000 euro – sono totalmente esenti dall’imposta sul reddito qualora destinati all’acquisto di servizi di welfare.

Tutto ciò crea una pletora di disuguaglianze. Di fronte a servizi sotto-finanziati e gestiti in modo inadeguato che producono un allungamento dei tempi di attesa e una complessiva dequalificazione dell’offerta, vi è chi ‘esce’, rivolgendosi a un’alternativa a pagamento nel privato; chi pure esce, ma a costo di impoverimento; chi non riesce a uscire e neppure riesce a accedere alle prestazioni pubbliche; chi accede a quest’ultime, subendo, però, un peggioramento nella qualità. Si producono, inoltre, disuguaglianze di genere, le mancanze nei servizi di cura ripercuotendosi in larga misura su una sola parte della famiglia, le donne. Infine, le agevolazioni al welfare aziendale producono disuguaglianze fra i dipendenti d’imprese che erogano premi di produttività, sussidiati dal bilancio pubblico (la collettività paga grazie alla rinuncia delle imposte sui redditi), dipendenti i cui datori di lavoro non erogano tali primi, lavoratori non dipendenti e non occupati.

Certo, a volte si esagerano gli effetti di queste tendenze, così, contribuendo, anche involontariamente, al gioco dei detrattori dei servizi pubblici. Ad esempio, secondo il Censis, sarebbero 12 milioni circa i cittadini italiani che devono rinunciare alle cure, circa 7 milioni coloro che devono indebitarsi per curarsi e oltre 2 milioni coloro che devono vendere la casa. Ma, i malati più gravi in Italia sono circa 7 milioni e quelli con patologie più contenute 15 milioni!! (sulla questione si veda l’intervento di Geddes). Neppure, nel nostro paese, ci troviamo in una situazione come quella inglese, in cui i tagli prodotti dall’austerità avrebbero portato a 120.000 morti premature addizionali fra il 2010   il 2017 con forte incremento nel periodo 2015-2017. In Italia, la mortalità al contrario, è ancora in discesa. E, d’altro canto, buchi e distorsioni erano già ben presenti nel nostro stato sociale in passato.

Riconoscere che non siamo ancora nella situazione peggiore immaginabile e che anche nei tempi migliori non eravamo al massimo non è di certo una buona ragione per muoversi in una direzione che ci sta riportando verso uno scenario di cittadinanza censitaria che pensavamo retaggio del passato (Rodotà) e ci sta allontanando sempre più dall’obiettivo della de-familizzazione dello stato sociale.

Non è facile raddrizzare la rotta in un contesto di richieste crescenti, a causa non solo dei cambiamenti demografici, ma anche di una mutazione delle domande poste alla sfera pubblica. Certo, Marshall si spingeva un po’ troppo nella direzione della negazione delle differenze nelle domande, quando affermava che le differenze rappresentavano “dettagli architettonici” in un quadro di sostanziale omogeneità dell’offerta pubblica. E’, però, certo che le domande poste alla sfera pubblica hanno una caratteristica fondamentalmente diversa da quelle poste nei mercati. Sono domande che dovrebbero, in modo imparziale riguardare tutti e, come tali essere da tutti finanziate. Non hanno a che fare con gusti insindacabili lasciati alla disponibilità a pagare dei singoli. Questa distinzione oggi tende a essere sempre più ignorata. In sanità, si aggiunge poi la questione del continuo aumento dei prezzi dei farmaci e altre tecnologie di cura. E, naturalmente, le difficoltà del bilancio pubblico e dell’economia non aiutano.

Le difficoltà, tuttavia, non sono eliminabili. Ad esempio, rispetto alla questione della supposta insostenibilità, è sempre questione di scelta. Se decidiamo che alcune urgenze non sono tali e preferiamo dedicare le risorse a un altro scopo siamo naturalmente liberi di farlo, ma allora ciò significa che vogliamo sostenere una spesa e non un’altra. Neppure esistono vincoli tecnologici completamente dati: ad esempio, i prezzi dei farmaci e delle tecnologie possono essere governati, attraverso diritti di proprietà intellettuale più attenti agli interessi comuni e con politiche che accentuino la concorrenza fra farmaci simili. Ancora, non si dimentichi che accanto a farmaci costosi e efficaci come quello contro l’epatite C, esistono anche tanti farmaci oncologici costosi il cui effetto medio è al massimo di aumentare di pochi mesi le attese di vita.

In ogni caso, non possiamo trovare la soluzione ai problemi del pubblico con l’arretramento delle responsabilità pubbliche. Al contrario, dobbiamo riorientare l’azione pubblica verso la creazione di un’infrastruttura di servizi sociali che riflette il “noi” della comune cittadinanza. E, ricordiamolo, il potenziamento dei servizi sanitari e sociali è anche strumento di buona crescita economica.

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