Disuguaglianza nell’intensità di lavoro nelle imprese e produttività: quale relazione?

Michele Raitano, prendendo spunto da un recente rapporto dell’ISTAT che documenta la debole dinamica della produttività del lavoro in Italia nell’ultimo quarto di secolo, ragiona sulle possibili cause di tale dinamica. In particolare, si concentra sul complesso legame fra flessibilità del lavoro e produttività riportando i risultati di una recente ricerca secondo cui la crescita della disuguaglianza nell’intensità di lavoro all’interno delle imprese, permessa dalla flessibilità, si associa in Italia a una riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro.

In questi giorni l’Istat ha pubblicato un rapporto da cui si evince che, dopo anni di sostanziale stagnazione, nel 2019 – prima, dunque, dell’esplodere dell’emergenza COVID-19 – l’Italia aveva registrato una riduzione dello 0,4% della produttività del lavoro (misurata come valore aggiunto per ora lavorata), per effetto di un aumento delle ore lavorate a fronte della stabilità del valore aggiunto. La crescita della produttività del lavoro era risultata peraltro nulla nel 2018.

In realtà, al di là del caso italiano – che è caratterizzato da una dinamica particolarmente negativa –, dall’inizio del XXI secolo la maggior parte dei paesi dell’area OCSE ha registrato una riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro. Delle cause di questo incontrovertibile fatto stilizzato, mancano interpretazioni condivise.

Da una parte, molti autori attribuiscono il calo della produttività ad alcuni aspetti dei processi produttivi contemporanei che comprimono il tasso di crescita della produttività sia a causa di crescenti difficoltà di misurazione di tale variabile (in primis nei servizi e nelle imprese ad alto contenuto tecnologico), sia a causa di alcune modifiche strutturali dei sistemi produttivi, quali il ruolo crescente dei servizi a discapito della manifattura, una riduzione generalizzata degli investimenti, il rafforzamento del ruolo delle imprese “superstar” nei mercati globali che impediscono alle imprese “ritardatarie” di imitare in modo efficiente il loro comportamento. Dall’altra parte, altri autori mettono in luce una serie di fattori che non dipendono dalle caratteristiche del processo produttivo in sé, ma agiscono sulla produttività attraverso alcuni fenomeni indotti dalla serie di riforme che, a partire dagli anni ’90 del XX secolo, hanno teso a deregolamentare i mercati del lavoro, favorendo il decentramento della contrattazione, la crescita di forme contrattuali atipiche e la riduzione delle protezioni offerte agli addetti con contratti standard nonché, più in generale, l’indebolimento del ruolo del sindacato.

Dal punto di vista teorico, il nesso fra produttività e flessibilità del mercato del lavoro è ambiguo. Se, infatti, una minore rigidità contrattuale può generare effetti virtuosi, consentendo alle imprese di verificare le competenze dei lavoratori prima di intraprendere relazioni di lungo periodo e, a questi ultimi, di muoversi più facilmente verso le imprese migliori, dall’altra è molto probabile che, soprattutto quando la flessibilità viene introdotta senza porre attenzione a necessari contrappesi sugli incentivi delle imprese (dal lato dei salari, degli investimenti, della formazione e delle tutele di welfare), la deregolamentazione del mercato del lavoro possa comportare effetti avversi sulla produttività.

Ad esempio, la letteratura sul tema (si veda l’estesa rassegna di Kleinknecht sul Cambridge Journal of Economics, 2020) segnala che una maggiore flessibilità del lavoro – a seconda delle modalità con cui si introducono misure di deregolamentazione – può generare effetti avversi sulla produttività attraverso vari canali: i) indebolendo gli incentivi per le imprese ad introdurre investimenti “labour saving” in virtù della compressione del costo del lavoro generalmente indotta dalle misure di deregolamentazione; ii) riducendo gli investimenti in formazione specifica da parte di imprese e lavoratori, nel momento in cui la relazione contrattuale diviene di breve periodo; iii) attenuando l’accumulazione di competenze specifiche e conoscenze tacite all’interno dell’impresa, a causa del più elevato turnover della forza lavoro, e così penalizzando la capacità innovativa delle imprese; iv) limitando la tendenza imitativa delle imprese meno innovative, che possono sfruttare la competitività di costo resa possibile dall’indebolimento del fattore lavoro associato con la deregolamentazione del mercato del lavoro.

In questo quadro, l’esperienza dell’Italia appare paradigmatica. Il nostro Paese, infatti, dalla metà degli anni ‘90 si è  caratterizzato da una continua tendenza alla flessibilizzazione del mercato del lavoro (si pensi solo ai contenuti del Protocollo sulla contrattazione del 1993, al Pacchetto Treu del 1997, alla riforma dei contratti a termine del 2001, alla Legge Biagi del 2003 e, da ultimi, al Decreto Poletti e al Jobs Act del 2014-2015) che si è associata a una contemporanea riduzione del tasso di crescita della produttività. Al riguardo, i dati OCSE sono molto chiari (figura 1): in Italia il tasso di crescita medio annuo del prodotto per ora lavorata è passato dall’1,89% degli anni ’80, all’1,42 negli anni ’90 ed è crollato allo 0,05% e allo 0,34%, rispettivamente, nei primi due decenni del XXI secolo. Sulla base dei dati contenuti nel recente rapporto ISTAT, nel periodo 1995-2019 la produttività del lavoro è cresciuta solo dello 0,3% medio annuo, con una crescita annua negativa (-0,3%) fra il 2003 e il 2009.

Stabilire se l’associazione negativa fra flessibilizzazione e produttività sia il segno di una mera correlazione “spuria” anziché dell’esistenza di un nesso di causalità che va dalla maggiore flessibilità del lavoro verso una minore produttività non è operazione facile e ancora più difficile è identificare il ruolo dei possibili meccanismi summenzionati nel determinare l’eventuale effetto negativo della flessibilità sulla produttività.

Tuttavia, da vari studi recenti, condotti con tecniche e su dati diversi, emergono chiari segnali che nel nostro Paese la flessibilizzazione del mercato del lavoro – per le modalità con cui è stata introdotta e per il contesto economico-sociale che l’ha accompagnata – sia stata una (anche se, in tutta probabilità, non l’unica) determinante cruciale del rallentamento della produttività.

Alcuni studi basati su dati di impresa mostrano, ad esempio, l’esistenza di una relazione negativa fra l’uso che queste fanno dei contratti a termine e la loro produttività, suggerendo che la possibilità di far uso di relazioni contrattuali di breve termine – seppure riduca il costo del lavoro – indebolisce gli incentivi all’innovazione e all’accumulazione di competenze da parte delle imprese (si vedano, ad esempio, Lucidi e Kleinknecht in Cambridge Journal of Economics, 2012; Cappellari, Dell’Aringa e Leonardi in Economic Journal, 2012; Cirillo e Ricci in Economia Politica, 2020).

Come detto, però, sono molteplici i meccanismi attraverso cui un mercato del lavoro più flessibile può influenzare la produttività di un’impresa. In una recente ricerca (condotta insieme a Francesco Bloise, Valeria Cirillo e Andrea Ricci), facendo uso di una banca dati innovativa su un campione rappresentativo di imprese italiane, abbiamo indagato l’esistenza di un ulteriore canale; ci siamo infatti chiesti se relazioni contrattuali più frammentate, riducendo inevitabilmente le interazioni fra lavoratori e, dunque, il loro grado di fiducia e conoscenza reciproca e coesione (ad esempio, fra lavoratori a tempo indeterminato e full-time, da un lato,  e la quota crescente di persone impiegate part-time o con contratti di breve durata, dall’altro), possa comportare effetti avversi sui meccanismi (in parte ancora oscuri) da cui dipende la produttività del lavoro all’interno di un’impresa. Abbiamo, in particolare, indagato il legame fra la crescita della produttività e la variazione della disuguaglianza nei tempi di lavoro (giornate di lavoro “full-time equivalent”) da parte di ogni individuo che – attraverso qualsiasi tipologia contrattuale (dipendente a tempo indeterminato o a termine, apprendista, interinale, parasubordinato) ha avuto una relazione lavorativa con una determinata impresa in un dato anno.

I risultati sono, nella loro durezza, sorprendenti, dal momento che rileviamo inequivocabilmente che – a parità di utilizzo del lavoro a termine e di altre caratteristiche dettagliate delle imprese (il settore, la dimensione, il capitale per lavoratore) – le imprese in cui la disuguaglianza nell’intensità del lavoro all’interno di un’impresa (misurata, come detto, attraverso la deviazione standard delle giornate di lavoro equivalenti a tempo pieno in un anno fra tutte le persone impiegate dall’impresa in un anno) è maggiore sono anche quelle in cui la produttività cresce di meno.

La riduzione della produttività in presenza di una crescita della disuguaglianza dell’intensità di lavoro all’interno delle imprese non è peraltro necessariamente segnale di un comportamento irrazionale degli imprenditori. La maggiore disuguaglianza nei tempi di lavoro interni all’impresa – connessa all’utilizzo di forme contrattuali più atipiche e più frammentarie – infatti, risulta associata a un più basso costo del lavoro, presumibilmente a causa della minor forza contrattuale da parte di una forza lavoro meno coesa. Una combinazione “viziosa” caratterizzata da riduzione della produttività e minori salari può portare le imprese, quantomeno nel breve periodo, a aumentare i loro profitti, ma, in tutta probabilità, genera effetti aggregati negativi per la collettività, in termini sia di domanda aggregata che di capacità innovativa.

I nessi fra organizzazione interna delle imprese, utilizzo del fattore lavoro e produttività sono, dunque, molto complessi e i risultati da noi rilevati portano ad aggiungere un ulteriore tassello al quadro, già di per sé molto complesso, dei meccanismi che, positivamente o negativamente, possono influenzare la produttività. All’interno di un quadro così complesso è presumibile che le relazioni siano molteplici e caratterizzate da diverse interazioni fra i fattori in gioco. In un quadro di incertezza come quello qui dipinto è importante, quindi, che le misure di politica economica non si basino su poche relazioni date per buone senza riscontri generalizzati (ad esempio, quella, in base alla quale l’instabilità contrattuale rafforzerebbe gli incentivi al lavoro degli individui), ma considerino attentamente tutti i possibili effetti che queste potrebbero generare anche per via delle interazioni con altre misure adottate e con le caratteristiche di un sistema produttivo.

In questo quadro, non stupisce che il modo poco organico e privo di “contrappesi” con cui è stata aumentata la flessibilità del mercato del lavoro italiano, senza chiedere in cambio comportamenti virtuosi da parte delle imprese – ad esempio, rispetto agli investimenti e ad obiettivi salariali ed occupazionali – abbia esacerbato una serie di dinamiche di breve respiro che, connesse alla forte deflazione salariale in atto da metà degli anni ’90, ha finito per generare ricadute negative sulla produttività. Per il futuro sarebbe, dunque, auspicabile che, nel valutare le riforme da adottare, i policymakers considerino attentamente anche le caratteristiche delle “condizioni di contorno” e le politiche complementari necessarie per ottenere gli effetti sperati. L’alternativa è un intervento parziale che può generare ricadute fortemente negative non soltanto sull’efficienza, via caduta della produttività, ma anche sull’equità, via riduzione della quota di prodotto che va al lavoro anziché ai profitti, pur in presenza di una produttività stagnante.

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