Disuguaglianza economica e disuguaglianza politica

Granaglia analizza alcuni studi recenti, condotti negli Stati Uniti, diretti a documentare l’influenza che la disuguaglianza economica può avere sui processi di formazione delle decisioni politiche e che permettono di individuare i canali attraverso i quali la disuguaglianza economica si trasforma in disuguaglianza politica.

Secondo la retorica del trickle down, dal vantaggio dei ricchi possano derivare vantaggi per tutti (o quasi tutti). In realtà, disuguaglianze elevate rischiano di compromettere il funzionamento di tutte le principali istituzioni sociali. In questa breve scheda, vorrei riportare i risultati di alcuni recenti studi empirici, riferiti agli Stati Uniti, sul rapporto tra disuguaglianza e democrazia politica. Gli Stati Uniti presentano numerose peculiarità per quello che riguarda la disuguaglianza e anche per questo non sarebbe corretto generalizzare i risultati messi in evidenza da questi studi. Essi sono, infatti, uno dei paesi in cui le disuguaglianze di reddito e di ricchezza sono più pronunciate. L’1% degli americani più ricchi detiene oltre il 22% del reddito nazionale e oltre un terzo della ricchezza. Dei 1.645 miliardari più ricchi del pianeta, poco meno di 500 vivono negli Stati Uniti. Gli Usa sono, dunque, un paese a disuguaglianza economica molto elevata e non siamo in grado di dire quando esattamente la disuguaglianza economica diventa un problema per la democrazia politica.

Gli Stati Uniti sono, altresì, un paese caratterizzato da una divisione molto pronunciata dei poteri. Ad esempio, le decisioni del Senato possono essere bloccate anche da un solo senatore, grazie alla sostanziale assenza di limiti al tempo che può essere dedicato alla discussione delle diverse questioni. Paradigmatico, al riguardo, è il caso del senatore repubblicano del Kentucky, Rand Paul il quale, in nome del diritto alla riservatezza e malgrado la maggioranza del Senato fosse favorevole, è riuscito, per diversi anni, a bloccare la stipula di un trattato che avrebbe obbligato le banche svizzere a fornire i nomi di 22.000 ricchi americani che avevano portato offshore un ammontare di dollari stimato attorno a 10 miliardi. In un contesto siffatto, esercitare pressioni appare assai facile. Modalità diverse di organizzazione delle scelte collettive potrebbero, invece, rendere più complicata la trasmissione della disuguaglianza economica in quella politica; quest’ultima, peraltro, dipende anche dalle norme sociali, che variano da contesto a contesto.

Ciò nondimeno, tre studi recenti forniscono spunti importanti su cui riflettere. Il primo è quello del vice-presidente della Brookings Institution, Darrel West [1. West D. (2014), Billionaires, Brookings Institution, Washington, DC], che ripercorre l’ultima campagna presidenziale americana, nel corso della quale centinaia di milioni di dollari sono stati utilizzati da repubblicani conservatori come Sheldon Adelson, David Charles Koch e Harold Simmons insieme a un gruppo di altri ricchi donatori per cercare di frenare Obama. I finanziamenti elettorali saranno ancora più facili nel futuro grazie alla sentenza della corte Suprema americana dello scorso aprile che, con un voto di 5 a 4, ha di fatto eliminato i limiti all’ammontare di finanziamenti erogabili nelle elezioni federali. L’argomento utilizzato ha fatto leva sul primo emendamento: la libertà di spendere a favore dei candidati preferiti equivale di fatto alla libertà di pensiero. È difficile sostenere che le pressioni dei più ricchi non abbiano avuto un ruolo. Si noti: fare leva sulla libertà di pensiero favorisce altresì la segretezza del finanziamento e, dunque, l’opacità del processo decisionale.

Indiscutibilmente, anche i ricchi democratici hanno finanziato Obama. Ma, da un lato, il grosso dei finanziamenti da parte dei più ricchi è venuto dal fronte repubblicano. Due terzi dei 1.000 finanziamenti privati più elevati sono venuti dai repubblicani e fra questi da repubblicani appartenenti al mondo della finanza.

Da un altro lato, Darrel West cita uno studio interessante dell’Università del Michigan secondo cui i più ricchi (presi nel complesso, dunque, a prescindere dalle appartenenze politiche) esprimono preferenze che si differenziano fortemente da quelle del pubblico medio rispetto a questioni centrali. Ad esempio, solo il 27% del pubblico medio sostiene tagli all’assistenza sanitaria ai poveri contro il 58% dei più ricchi. Ben l’87% del pubblico medio sostiene che il governo dovrebbe spendere di più affinché anche i bambini poveri possano avere accesso a buone scuole, contro il 35% dei più ricchi. Similmente, il 71% del pubblico medio ritiene che il governo abbia un ruolo essenziale nel regolare i mercati contro il 55% dei ricchi. Ancora, ricchi questi ultimi erano assai più contrari a un ruolo del governo nell’offrire occupazione o sussidi in presenza di disoccupazione.

Da ultimo, anche qualora le preferenze dei più ricchi fossero uguali a quelle dei più poveri, il principio di uguaglianza politica alla base della democrazia è in netta contrapposizione all’idea di voto per procura (ovvero all’idea che le scelte pubbliche vengano decise dalla minoranza dei più abbienti).

Il secondo studio è quello di Page e Gilens [Gilens M. Page B., 2014 “Testing Theories of American Politics: Elites, Interest Groups, and Average Citizens”, Perspectives on Politics (in corso di stampa)], i quali hanno dimostrato la sostanziale impossibilità per chi non è ricco di vedere soddisfatte le proprie preferenze quando queste sono in contrasto con quelle dei più ricchi. Più precisamente, Page e Gilens hanno preso in considerazione le posizioni espresse in diversi sondaggi d’opinione dagli Americani appartenenti all’ultimo decile (il decile più ricco), da quelli appartenenti al quinto (il decile centrale),nonché le opinioni espresse da vari gruppi di interesse, e 1.779 scelte politiche negli ultimi trent’anni.
I loro risultati mostrano che quando il decile centrale è favorevole e il più ricco è contrario le chances per una determinata politica di essere approvata si aggirano attorno al 18%. Il che appare del tutto coerente con quanto affermato da Hacker e Pierson [3. Hacker J., Pierson P. (2011) Winner-Take-All Politics, Simon and Schuster, N. York] circa il potere di “policy drift” da parte dei più ricchi, vale a dire di non fare passare posizioni che potrebbero essere per loro dannose. Al contempo, quando i più ricchi hanno interesse a fare passare una data politica le possibilità di vittoria si aggirano a poco meno del 50% (la divisione dei poteri negli Stati Uniti rende complessivamente difficile il varo delle decisioni).

Qualificando ulteriormente anche con i dati riportati da Stiglitz [4. Stiglitz J.( 2012), The Price of Inequality, Norton, N. York], il risultato complessivo è che le politiche evitate o varate grazie al sostegno dei più ricchi hanno giocato un ruolo non indifferente nella creazione delle disuguaglianze economiche. In questo senso, la disuguaglianza economica favorisce la disuguaglianza politica e viceversa.

A quest’ultimo riguardo, va ricordata una delle ultime sfide lanciate dal miliardario Tim Draper, tesa a rendere autonoma Silicon Valley dalla California. Tim Draper è ben consapevole che una richiesta di secessione non potrebbe mai essere approvata negli Stati Uniti. Ha allora presentato una proposta di referendum che, utilizzando la retorica del governo vicino ai cittadini, chiede la divisione della California in 6 Stati. Uno di questi hai i confini di Silicon Valley, che diventerebbe il più ricco stato americano e un altro quelli di Jefferson che, invece, verrebbe ad essere il più povero. Per capire le gravi implicazioni di questa proposta, va ricordato che negli Usa le scuole pubbliche dell’obbligo sono finanziate dalle imposte locali.

Nonostante i soldi, i più ricchi sono sempre esistiti e comunque sono una percentuale ristretta della popolazione. Come mai allora oggi possono esercitare tutto questo potere? Ovviamente, il tema è sterminato, ma come spunto di riflessione si pone il terzo e ultimo studio che vorrei citare ossia quello di Kuziemko, Norton, Saez e Stantcheva [5. Kuziemko I., Norton M., Saez E., Stantcheva S. (2013), How elastic are preferences for redistribution? Evidence from randomized survey experiments NBER Working Paper 18865] secondo cui è relativamente facile fare cambiare opinione ai cittadini. Il che depone a favore di politiche di informazione tese a una maggiore educazione sui dati e sulle leggi in vigore. Interessante, al riguardo, è l’esempio fornito sull’imposta di successione. Ad un primo test, gli intervistati si sono mostrati largamente contrari a un inasprimento della tassazione in materia. Una volta informati che la normativa attualmente in vigore tassa solo eredità superiori ai 5 milioni di dollari, al netto dei trasferimenti al coniuge e di qualsiasi trasferimento in attività filantropiche (la grande ampiezza nella definizione di quest’ultime permette, fra l’altro che i vantaggi vadano anche a think thank che rivestono una influenza politica a favore del mantenimento delle disuguaglianze), le opinioni hanno subito un sensibile cambiamento.

Il problema è che al cambiamento delle preferenze non segue altrettanto facilmente un cambiamento nell’atteggiamento verso la politica. Al contrario, l’atteggiamento diffuso resta quello di totale sfiducia. Anche su questo risultato gioca un ruolo non indifferente la devastazione dell’uguaglianza politica operata dalla disuguaglianza economica.

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