Disuguaglianza e …. democrazia

L’articolo è dedicato a una breve riflessione sui rapporti tra disuguaglianza economica e democrazia. Dopo aver indicato alcuni dei canali attraverso i quali la concentrazione dei redditi e della ricchezza al top può portare a distorsioni nelle competizioni elettorali e, ancora di più, nelle concrete decisioni politiche, l’articolo richiama alcuni lavori che mostrano quanto rilevante sia, già oggi, il problema e invita a non sottovalutare i rischi che la democrazia corre a causa delle forti disuguaglianze.

“Dobbiamo scegliere. Possiamo avere la democrazia oppure possiamo avere la ricchezza concentrata in poche mani. Ma non possiamo avere queste due cose assieme”.

A pronunciare queste parole fu Louis Brandeis, un uomo per molti versi straordinario. Nel 1916 – primo ebreo nella storia degli Stati Uniti – egli fu nominato giudice della Corte Suprema dal presidente Wilson. Lo precedeva una fama di giurista rigoroso, inflessibile e radicale. E la sua esperienza, alla Corte e non solo, fu all’altezza di questa fama. A lui nel 1948 è stata intitolata una Università, nei sobborghi di Boston.

Brandeis, conosceva benissimo il mondo dei monopoli e aveva avuto modo di riflettere sulle conseguenze del loro rafforzamento in atto ormai da alcuni decenni, soprattutto nel settore petrolifero. Inoltre, gli erano chiare le condizioni – incluse nella Costituzione americana – da cui dipende il buon funzionamento della democrazia.

Un altro uomo piuttosto straordinario, anche lui ispirandosi alla Costituzione americana, condivise questa preoccupazione e operò perché essa restasse solo una preoccupazione. Eravamo nel pieno dei drammatici anni Trenta quando Franklin Delano Roosevelt affermò che “non può darsi eguaglianza politica senza eguaglianza economica”. E il suo New Deal può essere visto più che come un tentativo di rianimare una depressa economia quanto, come un insieme di riforme radicali che volevano avvicinare di più il funzionamento dell’economia ai principi dell’eguaglianza (economica e politica), contenuti nella costituzione.

Possiamo chiederci, a distanza di molti decenni, e di fronte alla grande concentrazione dei redditi e della ricchezza cui oggi assistiamo, dove sia finita la preoccupazione di Brandeis e di Roosevelt. Svanita per imperdonabile leggerezza? Accantonata per manifesta infondatezza?

Partiamo da un chiarimento su cosa intendiamo per democrazia. La condizione minima ed essenziale della democrazia, come viene qui intesa, è la non sistematica prevalenza delle preferenze e degli interessi di pochi sulle preferenze e gli interessi di molti nell’assunzione delle decisioni politiche. Si tratta di una definizione volutamente ‘ampia’ che fa esplicito riferimento alle decisioni politiche e non soltanto agli esiti elettorali. Ciò permette di considerare la democrazia indebolita o assente anche se il rispetto formale delle regole elettorali democratiche è garantito; ciò può avvenire se gli esiti elettorali formalmente democratici sono influenzati dai pochi o se le decisioni quotidiane, nei molti modi in cui è possibile, sono influenzate, nuovamente, dai pochi. Si potrebbe dire, rifacendosi a un libro recente sul tema, che non vi democrazia in questo senso quando si è in presenza di ‘unequal voice’ (cfr. K.L. Schlozman et al. Unequal and Unrepresented, Princeton University Press, 2018).

La ‘voice’ politica dei più ricchi dispone di molti canali per farsi sentire e per soverchiare quella dei più poveri. Il primo e più ovvio canale è quello del finanziamento delle campagne elettorali che oggi ammette una variante più efficace, quella che consiste nel candidarsi in prima persona per posti di responsabilità nel legislativo o nell’esecutivo. A fronte di questa potente ‘voice’ c’è il silenzio dei più poveri che trova una sua manifestazione estrema nella rinuncia ad ogni attività politica, non soltanto astensione dal voto ma anche non partecipazione a soggetti collettivi (i partiti ma non solo) in grado di esprimere una ‘voice’.

Il secondo canale è quello della capacità di lobbying che può spingersi fino alla instaurazione di rapporti diretti e personali con segmenti consistenti del potere legislativo ed esecutivo. Le risorse impegnate in attività di lobbying dalle grandi imprese (possedute da alcuni degli uomini più ricchi del mondo) sono di entità tale da lasciare pochi dubbi sulle aspettative che si nutrono sul rendimento di questo speciale tipo di investimento. E l’analisi delle decisioni politiche, anche in materie di strategica importanza per il benessere sociale, sembra confermare, in generale, l’avverarsi di quelle aspettative.

In uno studio complesso, che ha suscitato anche reazioni polemiche, M. Gilens e B.J. Page (“Testing Theories of American Politics: Elites, Interest Groups and Average Citizens”, Perspectives on Politics, 2014), esaminando diversi decenni di decisioni politiche negli Stati Uniti, giungono, tra le altre, alla seguente conclusione: la probabilità che venga presa una determinata decisione politica dipende quasi esclusivamente dalle preferenze del 10% più ricco, considerato rappresentativo delle élites. Più precisamente, al crescere della percentuale di popolazione – non elitaria – favorevole a un determinato provvedimento la probabilità di adozione dello stesso non cresce, se non aumenta il consenso delle èlites. Come si è detto, questo studio è stato oggetto di diverse critiche, ma le repliche di Gilens e Page (cfr. “Critics argued with our analysis of U.S. political inequality. Here are 5 ways they’re wrong”, The Washington Post, 23 maggio 2016), appaiono convincenti e, al di là di possibili difetti marginali, sembra sufficientemente solida la tesi di fondo: i ricchi contano enormemente di più nel processo di decisione politica, e più sono ricchi, più sono in grado di contare.

L’interpretazione del capitalismo contemporaneo avanzata da un settimanale liberale come l’Economist sembra portare conforto, almeno parziale, a questa tesi. Nel numero 7 maggio 2016, l’Economist ha, infatti, sostenuto la feconda tesi secondo cui con il crollo del muro di Berlino si è verificata la vittoria sul socialismo (o comunismo, che dir si voglia) non del capitalismo senza aggettivi (o, volendo, del capitalismo liberale) ma del crony capitalism, del capitalismo “clientelare” che, appunto, presuppone una forte dipendenza delle decisioni dagli interessi di coloro che dispongono di maggior potere economico.

In questa direzione vanno anche i risultati di diversi studi sull’influenza della disuguaglianza non sulla democrazia “formale” ma su un insieme di condizioni che dovrebbero essere garantite in una democrazia “sostanziale”. Ad esempio T. Krieger e D.Meierrieks (“Political capitalism: The interaction between income inequality, economic freedom and democracy”, European Journal of Political Economy, 2016), trovano che la disuguaglianza nei redditi ha un effetto negativo sulla libertà economica (come normalmente misurata) e la spiegazione che avanzano è la seguente: le élite economiche condizionano le decisioni politiche per proteggere i propri interessi e questi interessi, da un lato, scoraggiano l’innovazione e la competizione e, dall’altro, favoriscono le rendite con effetti negativi sull’indice di liberta economica.  Tutto ciò avviene senza effetti evidenti sulle istituzioni della democrazia formale. A risultati simili giunge Md Raboud Islam (“Wealth inequality democracy and economic freedom”, Journal of Comparative Economics, 2018). Dal canto loro, R. Kotschy e U. Sunde (“Democracy, inequality, and institutional quality”, European Economic Review, 2017) sostengono che la qualità delle istituzioni peggiora in presenza di disuguaglianza economica e ciò avviene, di nuovo, senza effetti sulla democrazia formale. Questi studi sembrano, quindi, confermare che la ‘unequal voice’ è del tutto compatibile con il rispetto delle regole formali della democrazia, ma va anche ricordato che qualche anno fa C. Houle (“Inequality and Democracy”, in World Politics, 2009) ha sostenuto che in presenza di elevate disuguaglianze è più alto il rischio di decadenza della stessa democrazia formale a vantaggio di sistemi variamente dittatoriali.

Come tutto ciò possa accadere è facile da spiegare: la ‘resistenza’ del decisore politico (anche se non ‘acquisito’ alla causa delle èlite fin dall’inizio) di fronte alle richieste di chi dispone di grande potere economico è esposta a grandi rischi di cedimento e questo non avviene necessariamente per un atto di conclamata corruzione. Il condizionamento può derivare dalla influenza che le èlite possono avere su risultati di interesse dei decisori politici, non coincidenti direttamente con quelli delle èlites stesse. Si pensi al condizionamento della promessa di creare posti di lavoro o di contribuire alla casse dello stato, a fronte delle quali sta la minaccia di trasferirsi altrove. Questa osservazione aiuta anche a comprendere perché la disuguaglianza politica può essersi aggravata con la globalizzazione così come la stiamo sperimentando: oggi è più facile dare effettivamente corso a quella minaccia.

Il terzo canale di influenza dei ricchi riguarda la possibilità di utilizzare i big data allo scopo di condizionare e manipolare l’opinione pubblica e, più specificamente, il voto elettorale, come appare ormai accertato che si tenti (almeno) di fare. Il fatto che quei dati siano gratuiti, come si è già sostenuto sul Menabò, rende più intricati e perversi i rapporti tra disuguaglianza e democrazia: non si paga qualcosa che consente di lucrare enormi rendite e, allo stesso tempo, di condizionare il funzionamento della democrazia elettorale. Un’implicazione ulteriore di questo stato di cose è che il decisore politico indipendente tenderà ad opporre ancora meno resistenza alle richieste (esplicite o implicite) delle èlite se – anche per effetto di queste influenze – la probabilità che il voto elettorale premi il suo comportamento si riduce.

In conclusione, la scarsa attenzione per il monito di Brandeis non può essere giustificata dal venire meno del pericolo contro cui egli intendeva mettere in guardia. Dunque quella scarsa attenzione non è giustificata dalla manifesta infondatezza di quel monito. La disuguaglianza, specie quando consiste in un forte concentrazione della ricchezza e dei redditi al top, è una seria minaccia per la democrazia. E questo deve essere sfuggito anche ai politici di sinistra che negli ultimi decenni si sono affannati a ripetere, certamente in buona fede, che l’unico loro cruccio era la povertà non la ricchezza. Lo hanno detto politici del calibro di Palme e di Blair, e lo si è detto al momento della nascita del Partito Democratico in Italia. Certamente la povertà è un problema, soprattutto per i poveri; ma la disuguaglianza e la concentrazione della ricchezza possono essere un problema – e molto serio – per tutti, esclusi i ricchi.

Forse oggi Brandeis sarebbe preso da un profondo sconforto. E magari riformulerebbe così il suo monito: “Dobbiamo scegliere. Possiamo avere la democrazia oppure possiamo avere la ricchezza concentrata in pochi mani Ma non possiamo avere queste due cose assieme. Anche se sparisse la povertà”.

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