Disuguaglianza e……cittadinanza

L'articolo pone la disuguaglianza in relazione alla cittadinanza e interpreta in questa ottica tre recenti vicende: i) la revoca della cittadinanza diretta a una determinata categoria di cittadini in ragione di condanne penali; ii) la mancata acquisizione della cittadinanza nonostante la nascita, la crescita, l’integrazione attraverso l’istruzione, ed un’evoluzione identitaria e sociale da “italiani”; iii) il mercato delle cittadinanza accessibile a “super ricchi globali” a caccia di vantaggi.

Lo status di cittadino si pone in senso inverso rispetto alle usuali dinamiche della disuguaglianza sociale ed economica. Se quest’ultima, infatti, presuppone una partenza diseguale e obbliga alla rimozione degli ostacoli, nonché alla parificazione delle opportunità nel corso del tempo, la cittadinanza si delinea come uno status che, fin dal suo avvio, prevede pari titolarità di diritti e doveri da parte dei cittadini, suscettibili tuttavia di differenziazione in ragione di privazioni e/o evoluzioni della cittadinanza stessa.

In altri termini, la perdita della cittadinanza, e/o la sua mancata acquisizione, rendono diseguali individui che già sarebbero uguali concretamente o potenzialmente, oppure, ulteriormente, il suo letterale acquisto da parte di individui economicamente in grado di intraprendere tale negozio, consente l’accesso a benefici collegati allo status di cittadino, che non sarebbero realizzabili in mancanza di una condizione economica eccezionalmente favorevole.

Tre forme, pertanto, apparirebbero configurarsi nel quadro del binomio disuguaglianza e cittadinanza, due nel nostro Paese, una terza in paraggi di fatto abbastanza prossimi a noi: i) la revoca della cittadinanza diretta a una determinata categoria di cittadini in ragione di condanne penali; ii) la mancata acquisizione nonostante la nascita, la crescita, l’integrazione attraverso l’istruzione, ed un’evoluzione identitaria e sociale da “italiani”; iii) il mercato delle cittadinanza accessibile a “super ricchi globali” a caccia di assetti istituzionali, giuridici ed economici di particolare vantaggio.

Considerata la serietà e la gravità delle conseguenze di recentissime misure poste in essere nel nostro Paese in ordine alla revoca della cittadinanza, appare doveroso soffermarsi in primis su queste ultime. Come è noto, l’art. 14 del Decreto legge n. 113/2018 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’Interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) convertito nella legge n. 132/2018, ha introdotto quella che è stata definita “una cittadinanza «precaria» perché revocabile” (cfr. Laura Ronchetti sul Menabò) per mezzo di disposizioni che prevedono la possibilità di revoca della cittadinanza soltanto per coloro che l’hanno acquisita per matrimonio o naturalizzazione, nel caso siano destinatari di una condanna definitiva per reati penali previsti all’art. 407.2 c., c.p.p., lett. a, n. 4 (ovvero reati per finalità di terrorismo, uso di armi e traffico di stupefacenti), e/o agli artt. 270-ter e 270-quinquies.2 c.p. (favoreggiamento, addestramento ed attività con finalità di terrorismo).

Preme ricordare, a riguardo, che l’art. 22 della Costituzione sancisce quanto segue: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome”. E ancora di più appare opportuno ricordare che il dibattito in Assemblea costituente, sottostante il riconoscimento della garanzia minima del limite dei “motivi politici” posta al divieto di revoca della cittadinanza, fu prevalentemente condizionato dal recente retaggio storico e rivolto a scongiurare gli arbitri del passato regime, quindi caratterizzato da voci favorevoli ad un ampliamento delle condizioni dello stesso divieto (ovvero il caso di impieghi o incarichi presso altri Stati senza l’autorizzazione del Governo, cfr. Dossetti, AC, VI, 394), tuttavia contrastate con decisione perché considerate di portata “antidemocratica” e “antiliberale” (cfr. Togliatti, Caristia, Cevolotto, Mancini, Grassi, AC, VI, 395-396) tanto da condurre i lavori verso l’adozione di una formula di compromesso, inizialmente corredata dalla riserva di legge (“la perdita della cittadinanza per altri motivi – diversi da quelli politici – è regolata dalla legge”, cfr. Tupini, AC, VI, 398) in seguito eliminata nel passaggio dal Comitato di redazione all’Assemblea.

Quanto ricordato appare utile anzitutto per fare chiarezza sul portato anche attuale dell’art. 22 Cost.., che pone di fatto la questione della revoca della cittadinanza entro un’ “area di sicurezza” non irrilevante, poiché le maglie dei “motivi politici”, pur non chiaramente definite dai Costituenti – motivi riferiti alle forze politiche al potere? all’intera comunità nazionale? alle personali idee politiche sconfinando in tal modo nell’ambito del principio di uguaglianza? – potrebbero non difficilmente essere allargate fino all’ambito dei reati di terrorismo ed ad un loro presunto o effettivo movente politico. In altri termini, sarebbe doveroso accertare e sanzionare le eventuali responsabilità penali, di cui ai reati elencati aal’art. 14 del D.l. 113/2018, senza tuttavia sconfinare nella revoca della cittadinanza a soggetti già spesso caratterizzati da un’esperienza di vulnerabilità in quanto “italiani acquisiti”.

Non rimane quindi che ancorarsi saldamente al principio giuridico fondamentale che in questa situazione deve essere senz’altro attivato in funzione anti-apartheid, ovvero il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Appare infatti palesemente incostituzionale – nonché di matrice decisamente razzista – la disposizione di legge che innesca un dispositivo finalizzato alla individuazione di cittadini di serie A – gli italiani/italiani – e di cittadini di serie B – gli italiani naturalizzati – soli destinatari della revoca della cittadinanza. E non sembrerebbe di grande conforto constatare che la Costituzione francese del 1791, al titolo II recante “Della divisione del regno, e dello stato dei cittadini” prevedeva che “la qualità di cittadino francese si perde, tra le altre motivazioni, per la condanna a pene che comportano la degradazione civica, finché il condannato non è riabilitato”; al cittadino di serie B di cui al D.l. 113/2018 infatti non è neanche concessa alcuna ipotesi di riabilitazione.

Dall’ambito della serie A e della serie B del diseguale status di cittadino, la riflessione non può non confluire nell’universo, ormai molto vasto, dei “cittadini mancati”, ovvero dei giovani c.d. DOS, “di Origine Straniera”, (cfr. I Seminario organizzato dall’Associazione Etica e Economia e dalla Facoltà di Economia, Sapienza Università di Roma, su “Italiani D.O.S.: identità diritti, integrazione dei giovani italiani di origine straniera, 18 dicembre 2017) degli “italiani senza cittadinanza” che oltre ad essere la denominazione di un infaticabile Movimento protagonista di una “seconda generazione” di attivisti (il movimento predecessore dell’attuale “Movimento Italiani senza Cittadinanza” è stato infatti quello sorto alla fine degli anni ’90, denominato “Rete G2”, che per primo ha attivato, su tutto il territorio nazionale, un’azione di sensibilizzazione e di protesta per la riforma della legge sulla cittadinanza n. 91/1992 nella direzione dell’acquisizione della cittadinanza basata sullo jus soli) rappresenta un dato di imbarazzante realtà – istituzionale, politica e sociale – nel nostro Paese.

Un’indagine campionaria condotta dall’Istat nel 2015 – ora in corso di aggiornamento – in collaborazione con il Ministero dell’interno e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e rivolta all’osservazione dei fenomeni riguardanti le seconde generazione dell’immigrazione, ha interessato 821 comuni, si è svolta in circa 1.400 scuole statali secondarie di I° e II° grado, con almeno 5 alunni di cittadinanza straniera, con interviste rivolte a oltre 68.000 studenti, per metà italiani e per metà stranieri. Nell’ambito dell’indagine sono stati considerati sia i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri sia i ragazzi nati all’estero immigrati in giovanissima età. Le informazioni sono state raccolte per rilevare in particolare la provenienza, la presenza della famiglia nel percorso scolastico, i rapporti con i pari e con i docenti, il ruolo fondamentale della scuola nelle aspirazioni dei futuri cittadini italiani. Come documentato da De Fusco sul Menabò, con riferimento all’anno 2015, il 30,4% degli studenti stranieri presenti nelle scuole secondarie è nato in Italia, il 23,5% è arrivato in Italia prima dei 6 anni, il 26,2% è immigrato tra i 6 e i 10 anni e il 19,9% a 11 anni e più. Dietro questi dati vi sono effettivi “percorsi di vita, biografie, fatiche e successi che rendono sfaccettato l’insieme dei minori ricongiunti o delle vere e proprie seconde generazioni (…) ragazzi e ragazze (che) fanno parte di quella composita realtà giovanile che si avvia a diventare adulta nel nostro Paese, fra timori e opportunità” (come ha scritto Roberta Ricucci sul Menabò).

Come è noto, la riforma della legge n. 91/1992 per l’accesso alla cittadinanza italiana strutturata sullo jus sanguinis, ha subito una grave battuta di arresto nel 2017 al termine della precedente legislatura. Alcuni provvedimenti molto settoriali, quali la legge sul c.d “jus soli sportivo” (legge n. 12/2016, Disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l’ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva) ed orientamenti giurisprudenziali favorevoli all’integrazione scolastica (cfr. tra le più significative, Corte cost. sentt. n. 203/1997, n. 252/2001, n. 432/2005, n. 324/2006 e n. 148/2008. n. 11/2009, n. 187/2010) servono solo in minima parte a mitigare lo sconforto di migliaia di giovani di origine straniera, relegati dall’ipocrisia e dalla miopia delle politiche in un cono d’ombra nel quale, molto frequentemente, alimentano una percezione di se stessi come diseguali cittadini di serie B, che tuttavia non si arrendono del tutto.

Letteratura, cinema ed arti visive, oltre naturalmente ad un inarrestabile attivismo politico per alcuni di loro, rimangono il veicolo di una visibilità creativa che mantiene viva sia i loro variegati percorsi identitarii e biografici “plurali”, che il loro non facile processo di integrazione (cfr. Leonardo De Franceschi, La cittadinanza come luogo di lotta. Le seconde generazioni in Italia tra cinema e serialità, Aracne, 2018).

Entro tale scenario, si vorrebbe poter confidare in alcuni lungimiranti orientamenti della Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 172/1999), favorevoli all’affermazione di una nozione ampia e includente per la quale bisognerebbe fare riferimento ad una “comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto”, ma al momento si è indotti più che altro a constatare che “la realtà corre sempre più veloce delle norme” (R. Ricucci cit.), mentre anche la nozione di “popolo” quale elemento costitutivo dello Stato, insieme a “sovranità” e “territorio”, sembra essere oggetto di una profonda crisi a causa di quelle decine di migliaia di giovani di origini straniera cui viene negato il pieno godimento di diritti costituzionali fondamentali di cui la cittadinanza si sostanzia.

Infine, il terzo ambito di relazioni tra disuguaglianza e cittadinanza riguarda la possibilità di acquistare, attraverso congruo pagamento, la cittadinanza in alcuni paesi, aggirando così ogni altro ostacolo all’ottenimento della stessa.

Questo vero e proprio mercato, come già ricordato sul Menabò (cfr. M. Giannetti – E. Paparella), si è affermato negli ultimi anni ed i passaporti maggiormente ambiti sono quelli di paesi la cui cittadinanza dà diritto a vivere e lavorare anche in altri paesi. In questa prospettiva si comprende il ‘successo’ di Malta (oltre che di alcuni paesi Caraibici), il cui passaporto sembra che non costi meno di 650.000 euro ed è richiesto soprattutto dai ricchi asiatici e dell’Est europeo. Tal genere di transazioni, si sta anche rivelando fonte di enormi guadagni per chi vi opera offrendo consulenza per acquistare il passaporto che si preferisce. E’ questo il caso della Henley & Partners che, peraltro, è stata sospettata, in seguito a un’inchiesta del quotidiano The Guardian, di accordi delittuosi con una società collegata a Cambridge Analytica (nota per avere avuto un ruolo nelle elezioni presidenziali americane attraverso la cessione di dati) allo scopo di influenzare i risultati elettorali in diversi paesi in cambio della concessione di diritti esclusivi alla vendita di passaporti.

La cittadinanza diventa così una sorta di bene di lusso accessibile solo a una piccola minoranza di individui molto ricchi, e si viene in tal modo a creare una situazione per cui “la libertà di movimento è direttamente proporzionale alla ricchezza e inversamente proporzionale alla reale necessità di emigrare” (K. Long, The Huddled Masses, 2014), ragione per la quale i rapporti tra disuguaglianza e cittadinanza conoscono una nuova e particolarmente inquietante articolazione.

In conclusione, preme evidenziare che si sarebbe tentati dal propendere per un’adesione alla confortante idea di accettabilità di gradi diversi di inclusione sociale, in conformità ad una nozione ampia ed inclusiva di “cittadinanza costituzionale” a prescindere dalla “cittadinanza in senso stretto” , ma come su menzionato, la realtà va più veloce di qualsiasi interpretazione, o per meglio dire, genera urgenze che non sarebbero procrastinabili. Non rimane che fare appello alla originaria concezione della cittadinanza giuridicamente fondata sull’uguaglianza (cfr. Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, art. I “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”) e blindarla da qualsiasi tipo di commercio.

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