Disuguaglianza e….cambiamento tecnologico

Questo articolo analizza le diverse forme che può assumere la relazione tra cambiamento tecnologico e diseguaglianza. Dopo una disamina dell’evoluzione storica di questa relazione, l’articolo passa in rassegna i canali attraverso cui le trasformazioni tecnologiche possono indurre mutazioni sia negli assetti distributivi sia nelle configurazioni sociali ed istituzionali e si conclude con un focus sul processo, in atto, di digitalizzazione delle economie.

Il cambiamento tecnologico, afferma Schumpeter, (in Business Cycles, vol. II, Mcgraw-Hill, 1939) è l’alma mater delle forze ‘che il sistema capitalistico genera e che lo trasformano incessantemente’. Mimando il funzionamento degli organismi viventi, il capitalismo evolve sospinto da ‘rotture’ che sono, allo stesso tempo, distruttive e creatrici e che vedono le nuove modalità tecnologiche riflettersi in nuove configurazioni sociali e di mercato, in nuove istituzioni, in nuovi sistemi di preferenze. Si tratta della mutazione congiunta delle forme tecnologiche, da un lato, e degli assetti sociali e distributivi riscontrabili in corrispondenza dei diversi stadi storici dell’evoluzione capitalistica, dall’altro. E’ sempre Schumpeter, tuttavia, a mettere in guardia circa la necessità di abbandonare, qualora si voglia seriamente guardare alla relazione tra tecnologia e funzionamento dei sistemi socio-economici, l’illusione di poter identificare linearità o univocità direzionali nell’ambito di tale relazione. Endogeneità, bi-direzionalità, ricorsività, caoticità. Questi sono i termini che meglio rappresentano l’interazione tra cambiamento tecnologico ed evoluzione dell’assetto distributivo delle economie.

I canali attraverso cui il cambiamento tecnologico interagisce con la distribuzione delle risorse economiche e, in particolare, con il grado di diseguaglianza osservabile in tale distribuzione sono molteplici. Il primo canale è quello che lega la distruzione creatrice che l’innovazione porta con sé ed il potere di mercato di cui godono le imprese che per prime acquisiscono padronanza delle nuove tecnologie. L’innovazione, da questo punto di vista, diviene foriera di potere monopolistico e, con esso, di livelli occupazionali e salariali inferiori (e di livelli dei prezzi superiori) a quelli che il sistema economico potrebbe offrire in condizioni di maggiore concorrenza. Le diseguaglianze che emergono a seguito di una trasformazione tecnologica dai benefici ‘circoscritti e polarizzati nelle mani di pochi’ può assumere una pluralità di forme: quote di mercato che si concentrano nelle mani dei leader tecnologici ai danni delle altre imprese; aree ove si localizzano i leader tecnologici che acquisiscono centralità nei confronti delle altre aree che si trasformano così in delle ‘periferie’; lavoratori dotati di competenze complementari alle nuove tecnologie che migliorano la loro posizione relativa nei confronti del resto della forza lavoro.

Il potere di mercato esercitato in virtù di vantaggi competitivi di natura tecnologica, inoltre, può divenire persistente. La capacità tecnologica degli agenti ed il patrimonio esperienziale e di conoscenze ad essa connesso tende a crescere in modo ‘cumulativo’ facendo sì che coloro che oggi dispongono di un vantaggio competitivo di natura tecnologica abbiano un’elevata probabilità di accrescere tale vantaggio domani. Un consolidamento di potere economico (di matrice tecnologica) che può essere in aggiunta favorito, quando le caratteristiche delle tecnologie e delle istituzioni lo rendono possibile, dall’utilizzazione di strumenti di ‘protezione’ delle idee e delle innovazioni quali la proprietà intellettuale ed i brevetti. Fenomeni quali la polarizzazione nei mercati, le diseguaglianze nella distribuzione delle risorse economiche e la persistenza delle posizioni relative, tuttavia, sono esposti all’imprevedibile impeto della stessa forza distruttrice-creatrice che tali configurazioni ha generato. L’evolvere di una fase tecnologica cova in sé i germi della nuova fase che sta per materializzarsi. Quest’ultima si candida a spodestare i leader tecnologici della fase precedente, a generare nuove polarizzazioni, a premiare nuove competenze ed a favorire il nascere ed il prevalere di nuovi sistemi di preferenze.

Un altro importante canale è quello che attraversa il mercato del lavoro e le istituzioni che lo disciplinano. L’introduzione di innovazioni di processo, finalizzate ad aumentare l’efficienza della produzione, tende a ridurre il peso contrattuale del lavoro, può alimentare la ‘disoccupazione tecnologica’ ed indurre la compressione dei salari. Assetti tecnologici ed organizzativi eterogenei possono altresì fare il paio con innovazioni istituzionali che, a loro volta, incidono in modi differenziati sulla distribuzione delle risorse economiche. Tutto ciò trova testimonianza nelle vicende storiche dei passati decenni. Le produzioni di massa, perlopiù manifatturiere, diffusesi in tutte le economie avanzate col finire del secondo conflitto mondiale, si caratterizzavano per un uso intensivo sia del fattore lavoro, con i milioni di operai sulle catene di montaggio, sia del capitale, con le prime forme di automazione e gli avanzamenti nell’ organizzazione scientifica del lavoro di fabbrica (i.e. la cosiddetta fase ‘Fordista’). In quella fase, le esigenze manifestate dal sistema in termini produttivi – necessità di garantire un disciplinato funzionamento dei luoghi della produzione popolati da migliaia di lavoratori – e ri-produttivi – garantire la presenza, in aree geografiche relativamente circoscritte, di individui dotati di una capacità d’acquisto sufficiente ad assorbire i beni collocati sul mercato – favoriscono il crescere della quota di reddito a disposizione di coloro che sono nella parte medio-bassa della distribuzione ed il consolidamento di istituzioni idonee a tutelare gli interessi delle stesse fasce della popolazione. La situazione si modifica con l’avvento della fase tecnologica successiva, quella dell’Information and Communication Technology (ICT). Ciò che durante la fase Fordista era massificato e perimetrato dai rigidi confini della fabbrica con l’ICT comincia a frammentarsi ed a disarticolarsi territorialmente. Il corollario strutturale è quello, in particolare nelle economie avanzate, della crescita della finanza e dei servizi a scapito della manifattura. Il corollario istituzionale è quello del graduale indebolimento delle istituzioni (sindacati e forze politiche in grado di imporre misure dall’elevata capacità redistributiva) che contribuivano a mantenere relativamente equilibrata la distribuzione dei redditi. Il risultato, sebbene con traiettorie altamente eterogenee tra le diverse economie, è quello di una persistente e pressoché globale crescita delle diseguaglianze.

Disparità crescenti nella distribuzione dei salari, esaminate in relazione alla presenza di diverse configurazioni tecnologiche ed organizzative, sono emerse da numerose analisi empiriche settoriali, come si è già scritto sul Menabò. I settori ad alta tecnologia e, in particolare, quelli dove è intensa l’innovazione di prodotto, sono caratterizzati da livelli medi e da tassi di crescita dei salari più alti rispetto al resto dell’economia. La polarizzazione salariale tra lavoratori a qualifiche alte e medio-basse all’interno dei settori risulta maggiore dove sono più importanti le innovazioni di prodotto, dove c’è una crescita elevata dell’occupazione e una quota significativa di lavoratori con una formazione universitaria e alte competenze. Nei settori con maggiori opportunità di espansione aumentano così le diseguaglianze salariali tra chi – i lavoratori con alte qualifiche – riesce a catturare parte dei benefici di innovazione e crescita e chi – i lavoratori con basse qualifiche – vede peggiorare la propria posizione relativa a causa della minore rilevanza delle competenze che è in grado di offrire. Questo processo è in parte stimolato dall’intreccio di innovazione tecnologica, frammentazione internazionale della produzione e modificazioni nell’organizzazione del lavoro e nelle relazioni industriali. Da un lato, il combinato disposto di intensa innovazione, individualizzazione delle relazioni industriali e riduzione della capacità d’agire delle organizzazioni sindacali può favorire la posizione dei lavoratori ad alte competenze (maggiormente in grado di negoziare individualmente la loro condizione lavorativa) garantendo loro una quota della ‘rendita tecnologica’ connessa all’introduzione di innovazioni. Al contrario, i lavoratori con basse qualifiche possono essere posti sotto pressione dal rischio di delocalizzazione delle parti del processo produttivo ove questi operano (segmenti di processo tendenzialmente caratterizzati da bassa intensità tecnologica) vedendo ridotta la loro capacità contrattuale in termini salariali e di condizioni di lavoro.

L’attuale ‘coda’ della fase tecnologica dell’ICT – quella della digitalizzazione generalizzata dei processi economici e delle grandi masse di dati quale fattore cruciale per determinare potere e successo sui mercati – sta portando con sé nuove forme organizzative e, assieme a queste, un approfondimento delle diseguaglianze. Le imprese che sono, a vario titolo, protagoniste dell’attuale salto di qualità (prime tra tutte, Amazon, Apple, Google, Facebook e Microsoft) hanno acquisito un potere economico (e dunque politico) che non ha analoghi precedenti. A fronte di una bassissima intensità occupazionale (confrontando le dimensioni occupazionali di Google e Facebook con quelle del gigante dei servizi americano WalMart la differenza è impressionante: le prime occupano, rispettivamente, 50.000 e 25.000 persone mentre la seconda circa 1.300.000 ), Google e Facebook oggi incamerano più del 20% dei ricavi globali complessivamente generati nel settore della pubblicità, il 65% di quelli generati nel settore della pubblicità digitale e l’85% di ogni nuovo dollaro speso nel mercato pubblicitario. Se, da un lato, generano poca o pochissima occupazione, dall’altro lato, queste imprese fungono ormai da ‘infrastrutture’ fornitrici di servizi la cui essenzialità alla vita sarebbe senza problemi sottoscritta da uno qualunque dei miliardi di utilizzatori quotidiani della mail di Google o del sistema di acquisti ‘Prime’ di Amazon. In ragione della loro peculiare natura, quindi, le grandi piattaforme riescono ad accrescere in maniera incessante la loro presa economica ed il loro ‘consenso implicito’ (si pensi alle rivolte che ci sarebbero se domattina uno Stato decidesse di impedire a Google o ad Amazon di erogare i loro servizi quale conseguenza di una condanna per frode fiscale o per condotta anticoncorrenziale) ottenendo in questo modo lo status di impresa-istituzione senza però il bisogno di contrarre patti sociali con grandi masse di dipendenti come accadeva alle imprese manifatturiere che hanno guidato l’evoluzione della fase tecnologica precedenti (si pensi, nel caso italiano, alla Fiat ed alla continua contrattazione politica e sindacale che l’azienda si trovava a dover condurre per portare avanti le sue strategie). Piattaforme digitali come imprese-istituzione o ‘imprese che si fanno mercato’, come abbiamo avuto già modo di scrivere sul Menabò.

La coda della fase tecnologica dell’ICT ha contribuito a ‘produrre’ anche il fenomeno delle piattaforme di lavoro o della gig-economy. Piattaforme quali Uber, Deliveroo o Glovo costituiscono una rappresentazione paradigmatica di come l’attuale fase tecnologica fornisca, alle imprese che basano le loro attività su reti digitali ed algoritmi, un’inedita e radicale capacità di traslare costi e rischi su operatori (lavoratori) esterni al perimetro dell’impresa. Il controllo di vaste reti informative moltiplica le opportunità di esternalizzazione di parti del processo produttivo riducendo l’ammontare di costi fissi e variabili che l’impresa sostiene rendendo così possibile incrementare efficienza organizzativa e competitività. Gestendo le attività attraverso Smartphone e App, queste imprese riescono a demandare l’espletamento di piccole e piccolissime porzioni del processo produttivo a soggetti che operano in qualità di ‘partner’ delle piattaforme senza riconoscere loro lo status di lavoratori dipendenti, con rilevanti implicazioni in termini di minori costi e maggiore flessibilità. Il risultato ‘micro’ è quello di ampliare la platea di lavoratori esposti ad elevati rischi e, spesso, caratterizzati da retribuzioni inferiori alla media. La potenziale conseguenza ‘macro’ è quella di accrescere le diseguaglianze e con esse l’instabilità del sistema economico. L’insieme di tendenze ed effetti sin qui illustrati ci consente di sottolineare, riprendendo quanto già sostenuto sul Menabò, il carattere intrinsecamente non-neutrale della tecnologia. Il cambiamento tecnologico può essere intenso come la risultante delle relazioni di potere in essere e, d’altro canto, di tali relazioni può determinare il consolidamento, la trasformazione o lo stravolgimento. Allo stesso modo, gli effetti delle trasformazioni tecnologiche tendono a dispiegarsi in modo asimmetrico tra i gruppi sociali, le entità economiche e le aree geografiche. In questo quadro, le politiche e le istituzioni contano moltissimo poiché possono consentire di ‘disegnare’ l’innovazione e di orientare lo sviluppo della stessa massimizzando i benefici e tentando di minimizzare i costi sociali. E tra questi ultimi è senz’altro annoverabile la diseguaglianza. Per far sì che la politica sia in grado di svolgere questa cruciale funzione, tuttavia, occorre che il processo di decisione pubblica non venga eccessivamente compresso ed influenzato dal potere tecnologico, economico e politico dei soggetti che prevalgono in una data fase tecnologica.

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