Diseguaglianze e povertà negli Stati Uniti. Il diritto nord-americano: un Robin Hood al servizio del ricco?

Elisabetta Grande si chiede come sia possibile che negli Stati Uniti, ossia nel paese più ricco del mondo, esista una povertà dilagante, che, paradossalmente, da più di quarant’anni cresce col crescere della ricchezza della nazione. Per rispondere, Grande chiama in causa le responsabilità del sistema giuridico statunitense che non solo crea povertà, ma addirittura perseguita i poveri che il sistema economico produce. Grande ritiene che anche il diritto italiano si sia incamminato su questa rotta e invita a invertirla al più presto.

Come è mai possibile che negli Stati Uniti, ossia nel paese più ricco del mondo, esista una povertà dilagante, che da più di quarant’anni paradossalmente cresce col crescere della ricchezza della nazione e di cui la destituzione umana dei troppi senzatetto di San Francisco o di New York non costituisce che la manifestazione più evidente? Perché in un paese in cui se la ricchezza fosse equamente distribuita ciascun adulto avrebbe più di 350.000 dollari a testa, secondo stime credibili addirittura un terzo degli americani –ossia più di 100 milioni di persone- non riescono a fronte alle più elementari esigenze quotidiane? Dalla metà degli anni ’70 dello scorso secolo alla prima metà degli anni dieci di questo, la ricchezza totale delle famiglie è triplicata (è due volte e mezzo se si calcola che nel frattempo la popolazione è aumentata del 50 per cento), mentre la povertà estrema -quella cioè di coloro che stanno nella metà bassa della soglia della povertà- è raddoppiata (passando dal 3.3 per cento della popolazione al 6.6 nel 2014). La crescita economica non avrebbe dovuto avvantaggiare tutti, portando – come ebbe a dire John F. Kennedy- tutte le barche in superficie? Perché invece essa ha sollevato solo gli yacht mentre ha spinto verso il basso tutte le altre imbarcazioni causando l’affondamento di quelle più piccole? Com’è avvenuto che una nazione con una ricchezza che supera gli 80 trilioni di dollari conti al contempo più di 2 milioni e mezzo di bambini homeless (equivalenti a uno ogni 30 bimbi americani!!), che solo nelle scuole di New York raggiungono numeri superiori agli 80.000? Chi ha consentito che negli ultimi decenni, a fronte del crescere della torta, i ricchi non solo si appropriassero dell’intero incremento della ricchezza (per modo che oggi l’1 per cento più ricco detiene il doppio della ricchezza del 90 per cento più povero), ma addirittura portassero via una fetta a chi già versava in grave difficoltà economica?

Ho affrontato tali questioni in un recente libro dal titolo “Guai ai poveri. La faccia triste dell’America” (Edizioni gruppo Abele, 2017). Le risposte chiamano pesantemente in causa precise scelte di politica del diritto, tanto a livello internazionale che nazionale. Detto altrimenti il diritto ha un’enorme responsabilità in relazione alla realizzazione di quello che appare come un vero furto dei ricchi ai danni dei più deboli. Colpevole della produzione di povertà, il diritto negli Stati Uniti è andato anche oltre. Criminalizzando il povero di strada per ogni sua attività di sopravvivenza, il sistema giuridico ha determinato infatti nell’immaginario collettivo la sua costruzione come soggetto pericoloso e quindi come nemico sociale. Questo ha innescato nei meno poveri un processo psicologico di alterizzazione, ossia di estraniazione rispetto a chi sta al margine, il quale ultimo viene rappresentato come altro da sé e disumanizzato. Ciò a sua volta ha impedito che si formasse quella solidarietà sociale capace di spingere la gente a ribellarsi contro un sistema che, producendo tanti visible poor, è visibilmente ingiusto. Gli altrimenti prevedibili moti di ribellione, insomma, di quel 90 per cento di perdenti dei processi sociali verso un sistema che, pur avendo i mezzi per liberare tutti dalla miseria –come ebbe a dire Lyndon Johnson dando vita alla breve stagione della Great Society-, ha invece costretto e continua a costringere un numero sempre più alto di persone alla disperazione di una vita da senzatetto, sono stati così congelati e in una società sempre più individualizzata (anche e di nuovo per opera del diritto) si sono persi gli aneliti collettivi in direzione di un cambiamento dello status quo che avvantaggia solo il ricco ai danni del povero.

Il rafforzamento dei ricchi e l’indebolimento e l’aumento dei poveri cui assistiamo in USA trova innanzitutto le sue lontane radici sul piano del diritto internazionale. L’abbandono, attribuibile in grande misura alla presa di posizione degli Stati Uniti, di un accordo sul commercio internazionale fra Stati, quale era contenuto nella Carta dell’Avana (ITO) del 1948, a favore del GATT, poi si tramutatosi in WTO nel 1994, comporta infatti una trasformazione epocale dei rapporti fra capitale e lavoro, provocando un indebolimento del secondo. A differenza della Carta dell’Avana, che aveva di mira una globalizzazione generativa in cui sarebbero stati sanzionati i paesi che non avessero rispettato le regole minime poste a tutela dei lavoratori dall’ILO (l’Organizzazione Internazionale del lavoro), il GATT e il WTO stabiliscono invece che ad essere sanzionati siano i paesi che si rifiutano di importare merci prodotte con lo sfruttamento dei lavoratori. Il risultato è una globalizzazione estrattiva, che mette al centro non le persone e il loro benessere, ma il commercio e i profitti delle multinazionali e che genera una corsa al ribasso nelle tutele dei lavoratori non qualificati di tutto il mondo, messi ora in competizione fra di loro. Così mentre i lavoratori del sud del mondo vengono ridotti in condizioni di semi-schiavitù, i lavoratori del nord del mondo perdono le garanzie che avevano conquistato attraverso lotte durate decenni. Posti di fronte a effettive o minacciate delocalizzazioni, a partire dalla metà degli anni ’70 i lavoratori americani si de-sindacalizzano e accettano riduzioni salariali, insieme a compressioni di permessi, ferie pagate, tutele assicurative o pensionistiche. Il lavoro manifatturiero originariamente ben pagato viene sostituito dal lavoro del terzo settore, dove le condizioni sono di estrema precarietà e le paghe orarie di norma bassissime. A fronte della forte penalizzazione dello strato più vulnerabile della popolazione americana da parte del nuovo assetto giuridico-economico internazionale, il diritto interno non interviene però -a differenza di ciò che in altre circostanze era per esempio successo ai tempi della progressive era di Roosevelt- per riequilibrare i rapporti di lavoro squilibrati dal tipo di globalizzazione cui dà vita. E’ per questo che una Walmart di turno, al pari di tante altre catene di distribuzione o di servizi multinazionali, può permettersi di sfruttare e licenziare a piacimento i più deboli della catena sociale e fa con facilità terra bruciata di ogni concorrenza che offra invece un lavoro decente. Nel tempo le conseguenze in termini di impoverimento della classe media e bassa e di inasprimento delle disuguaglianze fra ricchi e poveri sono pesanti. Dagli anni ’70 del secolo scorso agli anni dieci di questo il salario del lavoratore mediano maschio, o quello di tutti i lavoratori, uomini o donne, più poveri (ossia quelli che stanno nel decimo percentile) diminuisce, mentre quello mediano di tutti i lavoratori, ma anche di coloro che arrivano fino al settantesimo percentile, resta stagnante. Schizzano invece alle stelle i salari del top 1 per cento, ma soprattutto del più ricco 0,1 per cento dei lavoratori, ossia di coloro che non si differenziano troppo da chi detiene il capitale. Questi ultimi dal 1979 al 2010 vedono aumentare il loro salario fino al 278 per cento! Nel caso dei CEO delle grandi corporation, la retribuzione effettiva (comprendente i benefits e le stock options) cresce addirittura fino al 1000 per cento, cosicché, tanto per fare un esempio, il chief executive officer di una catena come Walmart guadagna oggi in due settimane ciò che un dipendente di quella catena guadagnerebbe – se solo potesse rimanervi impiegato- in tutta la sua vita lavorativa. Non stupisce quindi che dati di The State of Working America riportino come nel 2011 ci siano 40 milioni di working poor, o che Oxfam America ci dica che nel 2015 addirittura metà dei lavoratori americani ha una paga oraria al limite della sopravvivenza. A partire dalla metà degli anni ’70 le nuove regole giuridiche del mercato globale -non controbilanciate da un diritto interno capace di tutelare la parte debole del rapporto di lavoro- hanno insomma come effetto una corsa al ribasso dei salari che scollega per sempre la produttività della nazione -che ha continuato a crescere- dai salari dei lavoratori a metà della scala o dei gradini più bassi -che invece si sono arrestati o addirittura sono diminuiti (pur essendo invece aumentati i costi della vita, soprattutto in relazione ai trasporti e all’affitto della casa di abitazione).

Il diritto nord-americano non si limita ad apprestare le condizioni per un impoverimento dei lavoratori meno qualificati. Dagli anni ’80, infatti, il sistema giuridico contrae pure lo Stato sociale per modo che di fronte alle strategie di riduzione del costo del lavoro messe in atto dalle imprese per mantenere competitività e fare profitti ‒ o aumentarli ‒ i lavoratori poveri, o quasi poveri, non possano rifugiarsi nel salario sociale quando le condizioni di lavoro risultino eccessivamente svantaggiose. Il welfare deve sempre pagare meno del lavoro, anche quando il lavoro è pagato molto poco: è questo il ferreo principio della less eligibility che in terra nord-americana resta insuperato. Se si vuole spingere la gente ad accettare salari più bassi occorre, insomma, rendere la disoccupazione più penosa da sopportare. Da Reagan in poi, perciò, senza distinzioni fra amministrazioni repubblicane o democratiche, vengono ridotte o smantellate la gran parte delle protezioni sociali (sul piano previdenziale, delle politiche abitative, dell’aiuto alle mamme single, per esempio) accordate ai consociati in maggior difficoltà fin dai tempi di Roosevelt e di Johnson.

Le politiche del diritto che non redistribuiscono più la ricchezza e non offrono serie reti sociali ai soggetti più deboli, indeboliti a monte dal diritto stesso, sono poi accompagnate da politiche fiscali che -a partire dai tempi di Ronald Reagan per arrivare sino a Barack Obama- eliminano qualsiasi progressività impositiva, fino a rendere la tassazione quasi regressiva, generando una fiscalità che agisce come un Robin Hood all’inverso, tramite le deduzioni ai ricchi, la sostanziale assenza di un’imposta ereditaria o la pressione fiscale ridotta sui capital gain.

E’ questo il diritto che da più di quarant’anni produce negli Stati Uniti una povertà crescente e che certamente non sta cambiando direzione con la presidenza Trump, il quale minaccia di ridurre ulteriormente le tasse per i ricchi e di tagliare come non mai gli aiuti ai poveri. La povertà americana, come quella dei tanti altri luoghi nel mondo non ha insomma nulla di naturale, non è cioè il risultato di eventi estranei all’agire umano (catastrofi naturali, eventi climatici imprevedibili, o quant’altro). È una povertà artificiale, frutto delle scelte politiche e dell’intreccio fra mercato e diritto, laddove il primo non potrebbe mai funzionare senza il secondo. È il diritto che fornisce al mercato gli strumenti per funzionare ed è il diritto che tutela le dinamiche di un mercato che avvantaggia il più forte, senza apprestare le dovute salvaguardie per i perdenti dei processi sociali che innesca.

Il diritto statunitense non si accontenta però di creare il povero. Dopo averlo creato lo perseguita, lo criminalizza, gli dà la caccia e gli nega il diritto di vivere. I poveri di strada, che a milioni invadono i centri urbani americani, sono quotidianamente presi di mira da un diritto penale crudele che li sanziona se dormono per strada, se vi si siedono, se vi lasciano i loro carrelli rigurgitanti di misere cose, se piantano una tenda sotto i ponti dell’autostrada o sulle rive di un fiume, se dormono di notte nei parchi pubblici o perfino nella propria macchina, se si stendono sulle panchine, se hanno con sé una coperta o fanno i loro bisogni fuori da toilettes convenzionali ‒ per loro peraltro inaccessibili, perché quasi tutte ormai a pagamento ‒ o se chiedono l’elemosina. Si tratta di un diritto che viola pesantemente i più fondamentali diritti umani e che cancella l’umanità di coloro cui non è rimasto altro per cui domandare tutela. Si tratta di un diritto che serve però a creare odio e paura nei confronti del debole, utile a smorzare ogni moto di indignazione e di protesta contro l’evidente ingiustizia di una società caratterizzata da disuguaglianze tanto profonde.

I giuristi comparatisti da tempo studiano le circolazioni giuridiche e notano come il “modello” statunitense “stinga”, ossia costituisca oggetto di imitazione. Il timore che nel descrivere la situazione statunitense si sia in fondo parlato anche di quella italiana, presente o prossima ventura, è serio e i segnali che non si tratti di un’ipotesi peregrina sono purtroppo molto evidenti (si pensi da ultimo al decreto, oggi legge, Minniti-Orlando sulla sicurezza urbana contro i poveri). Una riflessione sul punto è dunque davvero urgente!

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