Diseguaglianze e infelicità

La conquista di una società più egualitaria è aspirazione antica dei lavoratori. Ora essa viene riproposta, in termini scientifici, da una coppia di scienziati inglesi, Richard Wilkinson e Kate Picket*, partendo dalla verificata relazione tra diseguaglianze e infelicità. E’ la diseguaglianza infatti – dice una loro ricerca che dà alla teoria un poderoso supporto di dati – che è all’origine non solo, come è intuitivo, del malessere della fascia di reddito più bassa, ma di mali che colpiscono l’intera società.

La ricerca era partita dal tentativo di capire i motivi della correlazione tra livelli di reddito  e salute, ma si è via via estesa ad altre correlazioni con tutti i vari fattori che creano malessere e infelicità (almeno per la grande maggioranza della popolazione) nelle società economicamente più sviluppate.

A giudizio degli autori, sono ormai parecchie le società in cui la pura crescita economica ha esaurito i suoi effetti benefici. Per migliaia di anni la crescita e, dunque l’innalzamento delle condizioni materiali, è stato il modo più efficace per migliorare la qualità della vita umana. Oggi in molti paesi non è più così. Lo dicono i risultati di migliaia di rilevazioni fatte in ventitré paesi sviluppati e – aggiungo io, dato che è, per esempio, assente la Cina – caratterizzati dal tradizionale modo di produzione capitalistico. Sono paesi che vanno dagli Stati Uniti all’Europa, e quindi comprendono l’Italia, dall’Asia all’Australia. Per gli Stati Uniti l’esame è stato particolarmente esaustivo e distinto per

i cinquanta diversi stati che formano la Confederazione.

Di ognuno dei paesi esaminati è stato rilevato l’andamento del reddito medio e l’andamento di una serie di fattori che contribuiscono a creare il benessere della persona umana. Ebbene è stato rilevato che, oltre un certo livello di reddito medio, gli incrementi non modificano più l’andamento dei vari fattori presi in esame e che i mali antichi o nuovi della società – da quelli sanitari a quelli relativi al basso livello culturale e al rendimento scolastico, dall’inquinamento dell’atmosfera alla diffusione delle droghe o ai tassi di incarcerazione, sono tanto più gravi quanto maggiori sono le disuguaglianze nella distribuzione del reddito. Ciò è risultato vero perfino per i disturbi mentali e, per quanto riguarda gli States, anche per gli omicidi. Di contro l’indagine conferma che nei paesi sviluppati è possibile innalzare la qualità della vita (indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite che comprende speranza di vita, livello di istruzione e prodotto interno lordo pro capite) senza forzare ulteriormente la crescita economica.

Wilkinson e Pickett sono ben coscienti che quanto essi vanno affermando non costituisce una loro scoperta. L’ipotesi, per esempio, che sostenibilità sociale e sostenibilità ambientale vadano di pari passo risale al rapporto presentato nel 1980 da Willy Brandt. Ma sono anche coscienti che sull’umanità si è abbattuto il ciclone liberista di Margareth Thatcher e che esso ha nascosto sotto il telone della religione liberista una serie di verità che l’umanità aveva acquisito grazie a scienziati e politici che avevano onorato l’Europa, l’Asia e le Americhe. Dal liberismo è nata non solo una religione che ha cancellato acquisizioni fondamentali ma anche un modo di concepire la vita in modo antisociale così che i vizi dell’uno per cento ricco della popolazione appaiono come mete da raggiungere per chiunque sia “furbetto” e privo di etica.

E’, per questo che gli autori sono ripartiti da zero e sono tornati con intelligenza e umiltà di scienziati a verificare correlazione e correlazione riempiendo centinaia di grafici, sapendo che “gli studiosi di scienze naturali non debbono convincere le singole cellule o gli atomi ad accettare le loro teorie, mentre invece gli scienziati sociali si scontrano quotidianamente con una schiera di opinioni individuali e di potenti interessi costituiti”. A queste opinioni essi hanno risposto con migliaia di dati: dati che confermano in modo indiscutibile che anche mortalità infantile, minore altezza media, basso peso alla nascita, depressione, diffusione dell’AIDS risultano maggiormente diffusi là dove maggiore è la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza.

Dall’esame risultano non solo confermate le tesi degli autori, ma forniti stimoli ad approfondire alcuni aspetti. Non è naturalmente un caso che tra i paesi con il maggior benessere e la maggiore uguaglianza si trovi la Svezia. Si tratta di un paese dotato, grazie ai governi socialdemocratici, di un potente meccanismo redistributivo di imposte e sussidi e un grande ed efficiente sistema assistenziale. Fu per questo che nel corso della ricerca di vie ad una maggiore uguaglianza e a migliori performances, nel rispetto della libertà e del mercato, Enrico Berlinguer, guardò con grande interesse alla sua esperienza.

Desta invece meraviglia che al primo posto – subito prima della Svezia – si collochi il Giappone, che non solo, come osservano gli autori, è quanto di più diverso possa esistere dalla Svezia, ma che ha una spesa pubblica sociale, in proporzione al reddito nazionale, tra le più basse tra i principali paesi sviluppati. Il fatto è, suggeriscono gli autori, che esistono diversi modi di redistribuire il reddito e che dal dopoguerra in Giappone la disparità dei redditi è esigua come in Svezia. Ma è proprio su questi “diversi modi” (quello giapponese sembra implicito nel modo di produrre e nelle regole di mercato)  che appare opportuno un approfondimento da parte delle forze politiche interessate a definire una politica diversa da quelle che prospettano i profeti dell’arricchimento individuale in una lotta di tutti contro tutti. Lotta che finisce con il distruggere il concetto stesso di società e che è inevitabilmente vinta da chi ricco lo è già.

Mi auguro che questo libro abbia diffusione e solleciti una maggiore attenzione alle ineguaglianze in termini di capabilities (Sen) e cioè guardando all’insieme delle risorse relazionali di cui una persona dispone.

E’ vero che chi si ferma ai problemi della distribuzione del reddito, sia funzionale (salari, profitti e rendite) sia personale (persone, famiglie comunità) senza risalire a quelli del modo di produrre commette un grave errore. Ma è anche vero che se non si parte dai problemi della distribuzione e delle disuguaglianze, soprattutto in un Paese come l’Italia nel quale, dal 1991, le quote di reddito che vanno a lavoro dipendente e autonomo vanno discendendo mentre aumenta la quota dei redditi da capitale, si rischia di non farsi capire dalla gente. Non è frutto del caso che, sempre in Italia, l’azione redistributiva dello Stato attraverso i trasferimenti reali sia minima rispetto agli altri paesi europei.

 

                                                                        Luciano Barca

 

 

* Richard Wilkinson, Kate Pickett – La misura dell’anima – serie bianca Feltrinelli, Milano, novembre 2009.

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