Diseguaglianze e……ambiente

I problemi ambientali, soprattutto quelli globali, sono in vari modi legati alla disuguaglianza. L’articolo dà conto di numerosi studi empirici che individuano una relazione negativa tra disuguaglianza nei redditi e emissioni di CO2, soffermandosi sulla decisiva importanza che sembra la quota di reddito appropriata dal 10% più ricco. Gli stili dei vita dei molto ricchi e l’impatto che in vario modo essi possono avere sulle decisioni riguardanti le politiche ambientali sono in grado di spiegare questo effetto.

“Perché un ecologista venga eletto presidente, bisogna che gli alberi votino”.

A esprimersi con tanta fiducia verso la sensibilità dei politici nei confronti dell’ambiente è stato un comico francese di origini italiane, Coluche, straordinario per tanti motivi e anche perché nel 1980, tra il serio e il faceto – e forse per non dover attendere che si introducesse il dirito di voto per gli alberi –, si candidò alla presidenza della repubblica francese. Uno dei suoi slogan fu: “prima di me la Francia era tagliata in due, dopo sarà piegata in quattro”. Nonostante alcuni qualificati endorsement, Coluche non fu eletto presidente e, da allora, non molto hanno fatto i politici per l’ambiente che abbia reso superfluo attendere il momento in cui gli alberi voteranno. Ma, come è noto, proprio in queste settimane la miccia Greta, come lei stessa si è definita, ha acceso motori di protesta che erano spenti da tempo e che sono in grado di generare l’energia (pulita) che occorre per spingere i politici a cambiare il mondo e a renderlo più amabile anche per gli alberi.

Per alimentare quella energia e darle anche una direzione è forse utile qualche riflessione sui legami che sussistono tra il degrado dell’ambiente e un altro non lieve problema, quello della disuguaglianza economica.

Il rapporto tra questi due fenomeni ha attratto l’attenzione di un numero – in verità non troppo ampio – di studiosi già da molto tempo (cfr. Environment, Inequality and Collective Action, a cura di M. Basili, M. Franzini e A. Vercelli, Routledge, 2005) e di recente è stato al centro di numerosi studi empirici diretti a esplorare i reciproci rapporti tra degrado ambientale e disuguaglianze, soprattutto con riferimento ai problemi ambientali di carattere globale, tra cui in primo luogo il cambiamento climatico. Ne citeremo alcuni. Lo studio di S. Hsiang et al. (2017) dimostra come a soffrire di più del degrado ambientale saranno le zone più povere con effetti di aggravamento delle disuguaglianze, dovuti a quello che viene considerato potenzialmente il più grande trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi, cioè da chi non ha molte responsabilità per quel che accade all’ambiente a chi, invece, sembra averne molte, come vedremo meglio tra breve.

Maggiore interesse, dal nostro punto di vista, hanno, però, gli studi che si concentrano sull’opposta direzione causale: dalla disuguaglianza economica al degrado ambientale.

  1. Baek e G. Gweisah (“Does income inequality harm the environment? Empirical evidence from the United States”, Energy Policy, 2013) trovano, con riferimento agli Stati Uniti, che la riduzione delle disuguaglianze ha effetti benefici sulla qualità dell’ambiente sia nel breve che nel lungo periodo. Nella stessa direzione vanno i risultati raggiunti da J. Golley e X. Meng (“Income inequality and carbon dioxide emissions: The case of Chinese urban households”, Energy Economics, 2012) con riferimento alla Cina. In particolare, essi sostengono che la redistribuzione di reddito dai ricchi ai poveri avrebbe l’effetto di ridurre le emissioni. C. Zhuang e W. Zhao (“Panel estimation for income inequality and CO2emissions: A regional analysis in China”, Applied Energy, 2014) sempre occupandosi della Cina, sostnzialmente confermano questa diagnosi.

Cina e Stati Uniti sono, ovviamente, di decisiva importanza per le emissioni dei gas serra da cui dipende il cambiamento climatico, a casua delle loro dimensioni e/o delle loro emissioni pro capite. E’ utile, però, allargare lo sguardo a un più vasto insieme di paesi anche per comprendere se e quanto sia rilevante l’altezza del reddito medio, indice del grado di sviluppo che hanno raggiunto.

  1. Grunewald et al. (“The Trade-off Between Income Inequality and Carbon Dioxide Emissions”, Ecological Economics, 2017) trovano che gli effetti della disuguaglianza sull’ambiente dipendono, effettivamente, anche dal livello del reddito medio. In particolare, nei paesi dove quest’ultimo è più alto, un aumento delle disuguaglianze aggrava le emissioni inquinanti, diversamente da quanto accade nei paesi mediamente più poveri. A risultati in larga parte simili pervengono A. Jorgenson et al. (“Domestic Inequality and Carbon Emissions in Comparative Perspective”, Sociological Forum, 2016) in uno studio che ha riguardato 67 paesi nel periodo 1991-2008. In particolare, negli anni più recenti nei paesi ad alto reddito l’aggravarsi della disuguaglianza ha prodotto un incremento delle emissioni. Ne consegue che la combinazione di redditi elevati come valore medio e molto diseguali nella loro distribuzione è la più dannosa per la qualità dell’ambiente.

Parlando di disuguaglianza è possibile essere più precisi su quale sua caratteristica eserciti i maggiori effetti negativi. Stando a quanto emerge da uno studio sulle emissioni di CO2 a livello di singoli stati negli USA, riferito al periodo 1997-2012 (A. Jorgenson, J. Schor, X. Huang, “Income Inequality and Carbon Emissions in the United States: A State-level Analysis, 1997–2012”, Ecological Economics, 2017) decisiva sarebbe la quota di reddito concentrata nelle mani 10% più ricco della popolazione. Quando tale quota cresce, la qualità dell’ambiente peggiora significativamente mentre non si verifica un simile effetto se il peggioramento della disuguaglianza riguarda, per così dire, il resto della distribuzione e genera variazioni nell’indice di Gini. In altri termini conta se i già più ricchi diventano ancora più ricchi non se si verificano spostamenti che coinvolgono soltanto coloro che si trovano più in basso nella scala dei redditi. In breve, il problema sarebbe dovuto soprattutto ai molto ricchi e ai super-ricchi.

Se si va alla ricerca di spiegazioni plausibili per questo stato di cose, la prima idea che viene alla mente è, probabilmente, che la responsabilità sia degli stili di vita e delle abitudini di consumo dei molto ricchi. Alcuni dati vengono in soccorso: secondo un rapporto di Oxfam i più grandi inquinatori (pro capite) al mondo sarebbero, appunto, coloro che rientrano nel 10% più ricco della popolazione USA con emissioni annue pari a 50 tonnellate di CO2. Inoltre, il 50% più povero della popolazione sarebbe responsabile soltanto del 10% delle emissioni globali di CO2 mentre la corrispondente quota per l’1’% più ricco sarebbe il 50%. Una conferma in tal senso viene anche da L. Chancel e T. Piketty (‘Carbon and inequality from Kyoto to Paris,’ Paris School of Economics, 2015) i quali trovano che i maggiori inquinatori sono coloro che rientrano nell’1% più ricco dei paesi ricchi (Stati Uniti, Lussemburgo, Singapore e Arabia Saudita), con emissioni pro capite superiori alle 200 tonnellate annue di CO2. All’opposto, le emissioni dei più poveri in paesi poveri come Honduras, Mozambico, Rwanda e Malawi sono 2000 volte inferiori (0,1 tonnellate all’anno). Una conseguenza ovvia è che le emissioni sono fortemente concentrate, nel senso che un ridotto segmento della popolazione è responsabile di una grande quota del totale di CO2. Più precisamente, ordinando la popolazione in base alle emissioni che ciascuno produce, risulta che il 10% più inquinante è responsabile del 45% delle emissioni globali, mentre il 50% meno inquinante vi contribuisce soltanto per il 13%.

Tutto ciò conferma che gli stili di vita dei super-ricchi hanno certamente un ruolo rilevante nelle emissioni climalteranti. E per convincersene è forse sufficiente ricordare che si tratta di persone che posseggono aerei personali e edifici di dimensioni immense. Per di più esse sono certamente in grado di provvedere a se stessi ogni possibile antidoto contro molte delle conseguenze negative del cambiamento climatico e, quindi, non sopportano neanche in parte i costi derivanti dal degrado ambientale che così incisivamente contribuiscono a provocare.

Ma il legane tra concentrazione dei redditi e degrado ambientale può avere anche altre cause, meno dirette. Una di esse, decisamente rilevante, riguarda la possibilità che quando i redditi sono molto concentrati è più difficile introdurre efficaci normative a tutela dell’ambiente. E la ragione principale è che, se introdotte, esse finirebbero per intralciare i meccanismi che consentono di ottenere redditi tanto elevati. Commentando i risultati dello studio di cui è stata coautrice e che abbiamo prima richiamato, Juliet Schor ha affermato: “la concentrazione dei redditi conduce alla concentrazione del potere politico e permette di prevenire la regolazione delle emissioni di carbone”. Si tratta di un tema che, in vari modi e con diverse declinazioni, ricorre in quasi tutti gli articoli di questo numero del Menabò. Dunque, un tema cruciale che merita un breve approfondimento.

Secondo Oxfam International il numero di miliardari (presenti nella lista di Forbes) con interesse nel campo dei combustibili fossili è crescito tra il 2010 e il 2015 da 54 a 88, e la loro ricchezza complessiva è aumentata del 50%. Dal canto suo, l’Economist (“The party winds down”, The Economist, 7 maggio 2016) per fornire esemplificazioni del Crony capitalism, cioè del capitalismo clientelare, ha fatto riferimento soprattutto a settori cruciali per l’ambiente: petrolio, carbone, acciaio, miniere, ecc. Il degrado ambientale è, dunque, in vario modo collegato al godimento di rendite straordinarie – facilitate dalle normative – che contribuiscono enormemente alla concentrazione dei redditi al top della distribuzione.

Queste rendite sono un incentivo assai potente a impegnare enormi risorse, non soltanto finanziarie, per cercare di proteggerle. Secondo M. Singer (Climate Change and Social Inequality, Routledge, 2019) nel 2013-14 le grandi società del petrolio, del gas e del carbone hanno investito, in Usa, 350 milioni di dollari in lobbying, anche allo scopo di ottenere sussidi per le loro attività. Ma si può fare anche altro: arruolare scienziati a sostegno delle tesi negazioniste così care al presidente Trump – e di questo il Menabò si è occupato, o perseguitare noti ambientalisti, come è stato nel caso di Bill McKibben (B. McKibben B., Embarassing Photos of Me, Thanks to My Right-Wing Stalkers, International New York Times, 5 agosto 2016).

Tutto ciò incide certamente sulle politiche ambientali. Si può dire che in generale ne risentano tutte le politiche, quelle sovranazionali, quelle nazionali e anche quelle locali che non andrebbero sottovalutate perché possono avere impatti notevoli anche su fenomeni globali come il cambiamento climatico.

A proposito di politiche sovranazionali è utile un breve riferimento all’Unione Europea che sembra essere passata da grandi ambizioni in campo ambientale a molte e ingiustificate timidezze. Una di queste timidezze, forse poco conosciuta, riguarda una sorta di “retromarcia” nelle normative ambientali da parte della stessa Commissione Europea.

  1. Gravey, A. Jordan, (“Does the European Union have a reverse gear? Policy dismantling in a hyperconsensual polity”, Journal of European Public Policy, 2016) danno conto di numerosi recenti episodi di revisione e smantellamento di direttive ambientali precedentemente emanate che sembrano avere una preoccupante sistematicità.

Si può immaginare che tra i fattori rilevanti vi sia anche il ben poco giustificato timore di intralciare gli utilizzatori di quelle energie inquinanti – e non soltanto i produttori – con conseguenze per la crescita economica e l’occupazione. Dagli studi disponibili non emerge alcuna sistematica relazione negativa tra occupazione e regolazione ambientale sicchè il timore appare eccessivo. Peraltro, tra gli strumenti utilizzati per realizzare le politiche ambientali si fa limitato ricorso alla tasse a carico dei grandi inquinatori mentre più frequenti sono i sussidi a loro vantaggio, mostrando disattenzione per il loro ben diverso impatto distributivo. E’ forse di interesse notare che l’origine della protesta dei Gilet Gialli in Francia può essere ricondotta anche a una sorta di disattenzione nei confronti dell’equa distribuzione dei costi del miglioramento della qualità ambientale.

In conclusione, qualità dell’ambiente e concentrazione dei redditi sono fenomeni strettamente connessi. Sarebbe utile tenerlo bem presente e sarebbe un enorme passo avanti se si riuscisse a liberare il futuro non solo dal degrado ambientale ma anche dal degrado sociale che consiste in disuguaglianze ingiustificate e dannose. E tutto questo prima che gli alberi vadano a votare.

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