Diseguaglianze di mortalità, implicazioni e spunti per le politiche pensionistiche

Chiara Ardito, Fontana Dario, Nicolás Zengarini, Roberto Leombruni, Angelo d’Errico e Giuseppe Costa riflettono sulle possibili implicazioni redistributive di regole pensionistiche basate su una speranza di vita unica, a fronte delle note diseguaglianze sociali in salute e in longevità. Gli autori presentano i risultati di una loro analisi originale su dati INPS e SLT da cui risulta che, in Italia, le diseguaglianze nella speranza di vita alla soglia della pensione sono aumentate sia per gli uomini che per le donne.

* Questo articolo è stato scritto da: Chiara Ardito, Fontana Dario, Nicolás Zengarini, Roberto Leombruni, Angelo d’Errico e Giuseppe Costa

L’invecchiamento della popolazione ha spinto nel corso degli ultimi decenni i governi di tutto il mondo ad elevare l’età pensionabile per garantire la sostenibilità dei sistemi pensionistici e delle finanze pubbliche. Il necessario inasprimento dei requisiti pensionistici ha suscitato un crescente dibattito circa la sostenibilità del lavoro ad età elevate, che continua a presentare profili di rischio ergonomico e psicosociale elevato anche tra i lavoratori over 60 (d’Errico et al. 2022) e il rischio di un effetto redistributivo regressivo indotto dalle diseguaglianze sociali nella speranza di vita.

In questo articolo proponiamo una breve rassegna di alcuni contributi, relativi al caso italiano, che si sono occupati di studiare gli effetti redistributivi delle diseguaglianze sociali in mortalità, richiamando anche recenti risultati che mostrano come le disuguaglianze di longevità siano in aumento.

E’ noto dalla letteratura sulle disuguaglianze sociali in salute che l’aspettativa di vita cresce man mano che si salgono i gradini della scala sociale, comunque la si misuri, ovvero attraverso il titolo di studio, il reddito, la classe sociale o occupazionale. L’aspettativa di vita però, oltre a essere il più diffuso indicatore di salute di una popolazione, è anche un parametro chiave di molte regole pensionistiche. E’ con la riforma Dini e l’introduzione (seppure molto graduale) del sistema di calcolo contributivo, e poi con la riforma Sacconi, che si inseriscono esplicitamente le stime sulla speranza di vita e il loro periodico aggiornamento nei due istituti principali della attuale normativa pensionistica Italiana: i coefficienti di trasformazione, che in un sistema contributivo traducono in pensione annua il montante contributivo, e i requisiti di età e contribuzione minimi per l’accesso alla pensione (Ardito, Leombruni & Costa, 2019).

E’ così che, incardinando l’eleggibilità e l’ammontare della pensione alla speranza di vita media nella popolazione, eventuali disuguaglianze nell’aspettativa di vita generano conseguenze rilevanti in termini di redistribuzione. Il meccanismo è intuitivo: persone con una speranza di vita inferiore alla media ricevono il beneficio pensionistico per un periodo più breve, incorrendo quindi in una perdita di ricchezza pensionistica rispetto quella equa dal punto di vista attuariale. Al contrario, le categorie a speranza di vita superiore alla media beneficeranno di un “premio” pensionistico, finanziato di fatto dalle categorie più svantaggiate.

Mazzaferro e coautori (2012), attraverso un modello di simulazione stimano il valore monetario della pensione ricevuta rispetto quanto versato nelle casse dell’INPS, ovvero il net present value ratio (NPVR), separatamente per regime di calcolo, genere, reddito e titolo di studio, applicando stime di sopravvivenza specifiche per genere e titolo di studio tratte dall’ISTAT. L’interpretazione del NPVR è semplice: se uguale a 1, l’individuo riceve la stessa quantità di denaro che ha versato come contributi di sicurezza sociale in termini attuariali. Se il NPVR è superiore (inferiore) a 1, l’individuo ottiene un guadagno (o una perdita). Come atteso, la redistribuzione maggiore avviene fra generi, essendo le donne avvantaggiate rispetto gli uomini per via della loro maggiore speranza di vita e essendo i coefficienti di trasformazione definiti sulla base della speranza di vita media osservata nella popolazione. Gli autori mostrano però come anche fra gruppi appartenenti a diversi livelli di reddito e istruzione ci sia una forte redistribuzione a sfavore dei più svantaggiati. Quella di maggiore entità riguarda i maschi a basso titolo di studio che si pensionano con regime contributivo, i quali ricevono in media solo il 78% dei contributi versati (NPVR=0.781).

Anche Caselli & Lipsi (2018) si occupano di quantificare la redistribuzione pensionistica indotta dalla diseguale speranza di vita fra classi sociali in Italia. In particolare la misurano in termini di differenza nell’assegno pensionistico che si ottiene adottando coefficienti di trasformazione basati sull’aspettativa di vita media o specifica per gruppo, confrontando lavoratori con basso/alto livello di istruzione, a parità di montante contributivo fissato per entrambe le categorie a 270.000 euro. L’adozione di coefficienti di trasformazione basati sull’aspettativa di vita media invece che specifici determina per i lavoratori a basso titolo di studio una “perdita” di beneficio pensionistico di circa 400 euro l’anno, a fronte di “premio” di circa 600 euro a vantaggio dei lavoratori a elevato titolo di studio, e elevata aspettativa di vita.

Risulta quindi evidente come sia fondamentale monitorare l’evolversi dei differenziali di mortalità e dell’aspettativa di vita, non solo per ragioni di salute pubblica ma anche per questioni di equità. In un recente lavoro Ardito e coautori (2022) hanno studiato l’evolversi nell’ultimo trentennio del differenziale nella aspettativa di vita per livello di reddito e per classe sociale nei lavoratori dipendenti del settore privato. La fonte informativa è quella INPS, che permette di studiare le differenze di aspettativa di vita nella forza lavoro italiana del settore privato, che è quello a maggiore concentrazione di lavoro gravoso. I dati dispongono di una buona profondità retrospettiva nella storia lavorativa e pensionistica del settore privato, e permettono un’accurata rilevazione anche del dato relativo al decesso dell’assicurato. Per confrontare nel tempo l’evolversi della speranza di vita, gli autori hanno confrontato tre coorti di lavoratori presenti negli archivi INPS nei quinquenni del 1990-1994, 1995-1999 e 2000-2004. Per ciascuna coorte si è utilizzato un follow-up di 20 anni e sono stati calcolati tassi di mortalità specifici per classi di età quinquennale, sesso, reddito e classe sociale occupazionale sulla base dei quali si sono costruite le life tables per stimare l’aspettativa di vita. I risultati mostrano che in Italia, anche nelle coorti più recenti, uno stato socioeconomico inferiore è associato a un’aspettativa di vita significativamente inferiore. Le differenze risultano maggiori tra gli uomini rispetto alle donne, al Nord rispetto al Sud e in crescita nel tempo.

La figura 1 riporta le stime dei differenziali nella speranza di vita a 65 anni nelle tre coorti e utilizzando tre indicatori di socioeconomic position (SEP): classe occupazionale (dirigenti, impiegati e operai), quartili e decili di reddito. Partendo dalle misure basate sul reddito, come atteso, gli svantaggi maggiori si osservano quando la posizione socioeconomica è definita in base al decile di reddito. Tra gli uomini si nota una differenza nella speranza di vita a 65 anni tra il 10% più povero e il 10% più ricco di 1,4 anni nella coorte del 1990 che sale a 2,2 anni in quella del 2000. Anche per le donne sembrerebbe emergere un quadro che mostra un aumento delle diseguaglianze di mortalità nel tempo, poiché la differenza è nulla negli anni novanta ma diventa significativa, seppure di soli 4,4 mesi, nella coorte più recente.

Utilizzare la classe occupazionale come indicatore di SEP mostra risultati simili: tra gli uomini di 65 anni, i dirigenti potevano aspettarsi di vivere 1,3 anni in più degli operai nel 1990 e questo vantaggio sale a 2,0 anni nel 2000. Nonostante le stime siano molto imprecise, anche tra le donne è possibile rilevare un aumento della differenza nella speranza di vita a 65 anni fra le dirigenti e le lavoratrici manuali, che risulta nulla nel 1990 ma positiva nel 2000.

 

Figura 1: Differenza nell’aspettativa di vita a 65 anni per coorte, genere e posizione socioeconomica

Fonte: Ardito et al. (2022) su dati INPS, 1990-2019

 

Ardito et al. (2022) replicano l’analisi di trend delle aspettative di vita utilizzando anche un’altra fonte informativa di natura censuaria, lo Studio Longitudinale Torinese (SLT). Calcolando i differenziali di speranza di vita a 65 anni fra classi occupazionali nei censimenti torinesi del 1981, 1991 e 2001, gli autori riscontrano diseguaglianze in aumento fra gli uomini anche in questa popolazione di lavoratori, comprendente in questo caso anche il settore pubblico e il lavoro autonomo.

L’inasprirsi delle diseguaglianze nella popolazione degli over 65 è stato peraltro riscontrato anche negli USA, in Canada e in numerosi paesi europei come la Svezia, la Finlandia e la Danimarca, evidenziando come siano in atto processi e meccanismi di vasta portata che travalicano i confini nazionali.

A fronte di questi risultati, che mostrano come le diseguaglianze nella speranza di vita alla soglia della pensione non solo siano presenti, ma significativamente in aumento, risulta importante avviare una riflessione su come adeguare la normativa pensionistica in modo da evitare che questa dia luogo a fenomeni di redistribuzione regressiva, attraverso l’applicazione di coefficienti di trasformazione e inasprimento dei requisiti pensionistici uguali per tutti perché basati sulla speranza di vita media nella popolazione.

A nostro parere, sono almeno due gli ambiti su cui concentrarsi per rafforzare e aggiornare gli attuali meccanismi compensativi: condizioni di lavoro e diseguaglianze di reddito. Per quanto riguarda le condizioni di lavoro, attualmente è in corso una riforma della normativa dei lavori usuranti, che vede finalmente un allargamento della platea dei potenziali beneficiari. A questo proposito, si registra il risultato positivo ottenuto dalla nuova Commissione Lavori Gravosi, ma si auspica che il tavolo rimanga aperto e recepisca le numerose richieste pervenute dal mondo sindacale e scientifico rispetto a ai requisiti di accesso agli sconti pensionistici e ai criteri utilizzati nella stesura della lista.

Sulla questione reddituale bisognerebbe sicuramente richiamare l’attenzione alla crescente diseguaglianza salariale, come principale vettore della diseguaglianza di reddito e quindi alla necessità di una diversa politica di redistribuzione salariale anche attraverso una maggiore progressività del sistema fiscale. Sempre all’interno di una logica redistributiva, ma entrando nello specifico della politica pensionistica, bisognerebbe anche cominciare a riflettere se il reddito non possa diventare anch’esso un criterio sul quale basare forme di compensazione, ad esempio tramite una progressiva differenziazione dei coefficienti di trasformazione e dei requisiti per il pensionamento sulla base della speranza di vita specifica per gruppi di reddito.

Infine, una questione etica di fondo. Fin qui si è discusso di meccanismi di compensazione, ma non bisogna dimenticare che si tratta di strategie politiche che si basano sull’acquisizione di un differenziale di aspettativa di vita che non dovrebbe essere presente e nemmeno dato per scontato. Tali politiche dovrebbero quindi sempre essere accompagnate da interventi strutturali di welfare e di miglioramento della sicurezza e della qualità dei posti di lavoro, con l’obiettivo di eliminare nel lungo periodo i meccanismi all’origine delle diseguaglianze di salute, e quindi della necessità stessa di agire per compensarli.

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